venerdì 31 ottobre 2014

Per i nostri cari

Il due novembre è dedicato ai defunti. E’ per me una festa della nostalgia, il sentimento più tenero e commovente che siamo in grado di provare.
In tale data, a esser sincero, mi tengo alla larga dai cimiteri. Non certo per scaramanzia o per altri inconfessabili timori. Piuttosto per un’innata insofferenza verso un rito che ha tutto il sapore di un dovere sociale. Perché in realtà ho l’abitudine, ogni volta che posso, di visitare e intrattenermi a lungo con miei cari, benché le loro tombe si trovino a duecento chilometri da dove abito.
Non passa inoltre giorno che non pensi a loro. Li ho pertanto sempre con me, vicini. Sì, è così, in verità non sono mai solo. Ricordi e nostalgia animano i nostri continui colloqui.
Mi hanno lasciato, d’accordo, ma non li ho perduti.
E dunque la mia è una lieta nostalgia.



venerdì 24 ottobre 2014

Il barometro segna tempesta

Agli inizi di giugno 2014 la riunione del consiglio direttivo della Banca centrale europea fece esultare i cuori di tutti gli speculatori finanziari del globo. La riduzione del tasso ufficiale di sconto allo 0,15 per cento (abbassato ancora a settembre allo 0,05), decisa proprio in quell’occasione, e l’annuncio di nuovi prestiti a lungo termine alle banche a tassi dello 0,15 per cento, nonché la promessa di un robusto alleggerimento quantitativo (quantitative easing, nel limpido idioma di Al Capone; noi, se volessimo parlare come mangiamo, diremmo ‘‘operazioni di mercato aperto’’) diedero agli speculatori la certezza che nuova abbondante liquidità, buona per giocare in borsa, avrebbe presto inondato i mercati finanziari.
Si dava soprattutto per scontato che la Bce avrebbe anche avviato un programma d’acquisti di titoli pubblici emessi dagli stati dell’unione monetaria. Insomma la prosperità – per gli speculatori, si capisce, non per gli altri – era dietro l’angolo.
Le cose, però, non sono andate così. Con il consiglio direttivo tenuto i primi di ottobre a Napoli è arrivata la doccia fredda. Durante la conferenza stampa seguita alla riunione il tanto atteso acquisto di titoli del debito pubblico non è stato neppure menzionato dal governatore Draghi. Risulta evidentemente impossibile superare l’ostacolo insormontabile rappresentato dalla Germania, che si oppone a una tale misura.
Il panico si è subito diffuso tra gli speculatori e gli indici di borsa sono precipitati, mentre i rendimenti delle obbligazioni pubbliche hanno ripreso a salire.
A gettare altra benzina sul fuoco hanno poi provveduto voci relative a un cambio d’atteggiamento, rispetto all’euro, di Syriza, la formazione politica greca che alle lezioni europee di maggio ha attenuto in quel paese il maggior numero di voti. Se nei suoi programmi non rientrava infatti un’uscita dalla moneta unica, ma solo l’attuazione di politiche economiche anticicliche anziché procicliche come finora imposto dalla Bce, dal Fondo monetario internazionale e dall’Unione europea, sembrerebbe invece che Alexis Tsipras, capo del partito, in colloqui privati con i capi di governo europei e con Mario Draghi, abbia affermato di voler portare la Grecia fuori dall’euro e di ripudiare, almeno in parte, il debito di 240 miliardi contratto con il Fondo monetario e con l’eurozona per il cosiddetto ‘‘salvataggio’’ del suo paese.
Syriza, nei sondaggi, guadagna consensi mese dopo mese e poiché la probabilità di elezioni anticipate in Grecia è piuttosto alta, in quanto la maggioranza attualmente al governo dispone in parlamento di numeri appena sufficienti a tenerla a galla, la notizia sulla nuova posizione espressa da Alexis Tsipras, qualora dovesse rivelarsi esatta, provocherebbe il naufragio dell’euro e la conseguente corsa degli speculatori alle scialuppe. Vale a dire una fuga dai titoli di stato dei paesi in bilico dell’eurozona e l’impennarsi dei loro rendimenti.
Un fatto resta comunque innegabile. Se la Bce rimanda all’infinito l’acquisto di titoli di stato, la moneta unica non sopravvivrà a lungo.
Reggetevi forte, forse ci siamo.



venerdì 17 ottobre 2014

Curve pericolose

La potestà fiscale dello stato è infinita? O esiste invece un limite oggettivo oltre il quale la voracità statale non può spingersi?
All’angoscioso quesito ha risposto Arthur Laffer, un economista americano. I presupposti del suo discorso sono molto semplici. Primo, se le aliquote d’imposta fossero uguali a zero, anche il prelievo sarebbe uguale a zero. Impossibile dargli torto, d’altronde. Lo zero per cento di qualunque grandezza corrisponde a zero, è matematico. Secondo, la stessa cosa succederebbe però anche se le aliquote raggiungessero il cento per cento. Nessuno sarebbe infatti più disposto a lavorare, e dunque a produrre, se l’intero reddito gli venisse prelevato dallo stato.
Se ne deduce che, tra zero e cento, esiste un livello massimo di pressione tributaria oltre il quale il gettito erariale comincia a scendere, fino ad annullarsi quando la pressione tocca il cento per cento del reddito nazionale, che in fin dei conti rappresenta per lo stato la base imponibile.
Tale relazione tra pressione e gettito può essere raffigurata graficamente per mezzo di una curva parabolica, nota appunto come curva di Laffer. Disgraziatamente la forma esatta della parabola, ossia il punto esatto dove le entrate fiscali raggiungono il massimo e poi, all’aumento delle aliquote, cominciano a ridursi, rimane sconosciuto. Quel limite lo si può stabilire a priori solo in via ipotetica, a meno che l’esperienza concreta non ce lo sbatta in faccia, come sta avvenendo oggi.
Non vi è alcun dubbio che l’incentivo a evadere e a eludere le imposte cresce con il crescere del loro numero e delle loro aliquote. In Italia, stando a quanto indicato dalla corte dei conti, l’imponibile sottratto al fisco ammonta ogni anno a circa centottanta miliardi. L’azione di contrasto operata dagli uffici erariali e dalla polizia tributaria può sì recuperare una parte più o meno consistente delle somme evase, ma mai tutte.
Vi è inoltre un altro aspetto da considerare. Taluni contribuenti, anziché mettersi contro la legge, possono decidere di andare a investire e produrre all’estero, dove le tasse sono molto più basse. Tale fenomeno sempre più frequente viene definito delocalizzazione. Le fabbriche chiudono da noi e aprono i battenti altrove.
Risultato? Troppe imposte provocano prima una contrazione del reddito nazionale e poi un calo delle entrate tributarie. E dobbiamo riconoscere con obiettività che la repubblica italiana questo bel capolavoro è riuscita di recente a realizzarlo. A partire dal 2011, a furia d’introdurre nuove imposte e innalzare le aliquote di quelle già esistenti, il reddito nazionale si è contratto, finché non ci si è infilati nella pericolosa curva di Laffer. Non per niente le entrate tributarie dei primi otto mesi del 2014 sono diminuite dello 0,4% rispetto a quelle incassate nello stesso periodo dell’anno precedente.
I grandi statisti che ci governano hanno così dimostrato d’essere sordi agli insegnamenti di un celebre imperatore romano, da tutti conosciuto con il vezzeggiativo di Caligola, le cui raffinate concezioni di scienza delle finanze le riassumeva in poche parole:
«Il popolo è una pecora. Lo puoi tosare ogni anno ma scuoiare una volta sola. Il mio gregge preferisco tosarlo, non scuoiarlo».



venerdì 10 ottobre 2014

L'ineffabile monsieur Hollande

Gli effetti delle elezioni europee di fine maggio 2014 cominciano finalmente a farsi sentire in maniera fragorosa, traducendosi in atti politici concreti.
Come si ricorderà, in quella tornata elettorale il risultato eclatante si registrò in Francia, dove il Front National, formazione nel cui programma figura al primo posto il riacquisto della sovranità monetaria per liberare il paese dal giogo tedesco che ne danneggia l’economia, ottenne il 25% dei suffragi.
Appena terminato lo spoglio, l’ineffabile monsieur Hollande, président de la république française, il cui partito socialista era sceso a un misero 14%, dichiarò che era giunta l’ora, per l’Unione europea, di puntare alla crescita e all’occupazione, anziché al puro e semplice restringimento dei deficit pubblici, come preteso dai tedeschi. Si manifestò in tal modo la prima crepa nell’asse Parigi Berlino. Infatti i governanti francesi avevano fino a quel giorno assecondato, da fidi valletti, tutti i capricci della graziosa kanzlerin Angelina Merkel, consentendole di sottomettere con facilità, a partire dal 2010, l’eurozona al Reich germanico.
Da fine maggio l’ineffabile monsieur Hollande ha più volte ribadito la necessità di sostenere in Europa la crescita economica, senza comunque insistere troppo e, men che mai, agire di conseguenza, come se temesse d’irritare la graziosa kanzlerin, la quale dal canto suo ha mostrato di non prestare il benché minimo ascolto a monsieur le président.
Il 23 agosto a Parigi è però scoppiata una vera bomba.
In un’intervista rilasciata al quotidiano ‘‘Le Monde’’, il ministro dell’economia Arnaud Montebourg si scagliava contro l’austerità di marca teutonica, definendola «un’aberrazione economica in quanto aggrava la disoccupazione, un’assurdità finanziaria poiché rende impossibile il risanamento dei conti pubblici e un flagello politico in quanto getta gli europei nelle braccia dei partiti estremisti che vogliono distruggere l’Europa».
Impossibile dargli torto, in effetti. Ciò malgrado il primo ministro Manuel Valls, poco desideroso di creare attriti con i tedeschi, presentò subito le dimissioni, ricevendo immediatamente dall’ineffabile monsieur Hollande l’incarico di formare un nuovo governo. Cosa che avvenne il 27 dello stesso mese e consisté in un rimpasto nel quale Montebourg e altri due o tre che condividevano le stesse idee vennero sostituiti con persone meno sanguigne.
Ma un’altra bomba sarebbe scoppiata, sempre a Parigi, i primi di settembre. Il governo Valls bis ottenne sì la fiducia dell’assemblea nazionale, all’appello mancarono tuttavia una quarantina di voti ottenuti a suo tempo dal Valls uno. Segno che i dissidenti à la Montebourg si stavano moltiplicando anche tra i deputati della gauche, e non solo tra l’elettorato che simpatizza sempre più per il Front National guidato da Marine Le Pen.
Da tale circostanza l’ineffabile monsieur Hollande ha saputo trarre le inevitabili, nonché lapalissiane, conclusioni. E’ ben consapevole che alla scadenza del mandato le sue probabilità di essere rieletto président de la république française equivalgono a zero. A parte ciò, presiedere fino al 2017 un governo con l’appoggio di una maggioranza risicata nell’assemblea nazionale (ricordo che in Francia il presidente della repubblica presiede il consiglio dei ministri) è una seccatura da evitare come la peste. Gli è stato perciò giocoforza adeguarsi ai tempi.
Essere, o non essere, contro la graziosa kanzlerin?
Meglio essere, a questo punto, è stata la risposta.
Ciò spiega perché il primo ottobre il ministro delle finanze Michel Sapin, nel presentare la legge di bilancio per il 2015, ha detto chiaro e tondo che la Francia non rispetterà né il patto di stabilità né il patto di bilancio (fiscal compact), rinviando in pratica a data da destinarsi gli aggiustamenti imposti e concordati con la commissione europea.
«Nessun ulteriore sforzo sarà richiesto alla Francia», recita il comunicato che accompagna la legge di bilancio illustrata da Sapin, «perché il governo – assumendosi la responsabilità di bilancio di rimettere sulla giusta strada il paese – respinge l’austerità».
In parole povere, l’asse Parigi Berlino si è spezzato.
E’ una splendida notizia, giacché presto o tardi anche le altre nazioni tartassate dell’eurozona imiteranno l’esempio francese e cominceranno ad attuare politiche economiche anticicliche, alleviando le sofferenze recate ai propri popoli per obbedire agli ordini distruttivi diramati da Berlino. Nella migliore delle ipotesi, non va nemmeno esclusa l’eventualità che la moneta unica si spappoli.
Europei sì, ma fessi no. Dico bene? E se del resto i francesi possono permettersi certi lussi, perché noi non dovremmo?
Non ci resta quindi che esprimere tutta la nostra gratitudine all’ineffabile monsieur Hollande. Nel suo piccolo, è un grande. Ci ha dato, magari non volendo, il buon esempio.
Merci, monsieur le président.



venerdì 3 ottobre 2014

Una lucina in fondo al tunnel

Le prospettive economiche rimangono fosche. Il prodotto interno lordo continua a deprimersi e di conseguenza la disoccupazione non cala. La riduzione d’imposta di ottanta euro sui redditi dei lavoratori dipendenti e l’irap tagliata del dieci per cento alle imprese non ha sortito gli effetti desiderati dall’ex sindaco Renzi, attuale presidente del consiglio dei ministri. Consumi e investimenti non hanno affatto invertito la rotta discendente.
D’altronde, dalle misure adottate dal governo non potevamo aspettarci nulla di diverso. Per provocare un’intensa e rapida inversione del ciclo economico tramite l’abbassamento delle imposte, la pressione fiscale dovrebbe scendere in misura davvero significativa. Almeno del dieci per cento, a voler esser precisi. Ma una tale scelta di politica economica ci è preclusa dal patto di bilancio (fiscal compact, come dicono i poliglotti, benché l’anglofono Regno Unito si sia ben guardato dall’aderirvi), in base al quale bisogna puntare, vivi o morti, al pareggio di bilancio e a ridurre il debito pubblico.
Poiché, in mancanza di meglio, abbiamo l’euro, e poiché oggi come oggi nessun governante dei paesi aderenti alla moneta unica ritiene ragionevole riacquistare la sovranità monetaria, in quanto gli interessi sui titoli di stato sono scesi a livelli infimi e se tornassimo alle monete nazionali i governi perderebbero questo paradossale vantaggio, non ci rimane che sperare. Si tratta, fra altro, di una speranza dal valore ben determinato, pari a trecento miliardi di euro.
La cifra non l’ha sparata un pinco pallino qualsiasi. E’ uscita dalla mente di Jean-Claude Juncker, presidente della nuova commissione europea, vale a dire l’esecutivo dell’Unione europea. Tale somma, prelevata dal Meccanismo europeo di stabilità, fondo salva stati istituito nel 2011 e operativo dal 2012 in sostituzione del precedente Fondo europeo di stabilità finanziaria, dovrebbe sovvenzionare gli investimenti pubblici nei paesi in crisi dell’eurozona e avviare così un processo di crescita economica.
La proposta, ammettiamolo senza remore, non ha nulla di scandaloso. Sarebbe anzi quanto di più sensato si possa immaginare per contrastare la dura crisi che ci attanaglia. Magari non sarà una panacea, dato che l’importo andrebbe diluito tra più paesi e forse non sarà sufficiente a invertire il ciclo a ritmo sostenuto. Ma rappresenterebbe comunque un mutamento di rilievo alle distruttive politiche economiche finora adottate nell’eurozona.
Si pone però un problema. La Germania darà il suo assenso? Dal 2010 a oggi i tedeschi hanno fatto il possibile e l’impossibile per danneggiare le economie degli altri stati aderenti all’unione monetaria. Una strategia, la loro, che ha incrementato gli attivi della propria bilancia commerciale e ha visto scendere come non mai i propri tassi di disoccupazione. Se ‘‘mors tua vita mea’’ è stata la loro filosofia di successo, poiché ogni danno che infliggi ai tuoi concorrenti rappresenta per te un vantaggio, qualche dubbio che siano di punto in bianco disposti a cambiarla appare più che lecito.
Sapremo la risposta tra alcune settimane, quando la nuova commissione si sarà insediata. Nel frattempo non ci rimane che sperare. E’ pur sempre una speranza grande trecento miliardi.



venerdì 26 settembre 2014

La morte in sogno

Notti fa ho sognato mio padre. Lo sogno spesso, devo dire, e ogni volta al risveglio mi sento felice. E’ venuto a mancare da un quarto di secolo, ormai, ma gli sono sempre vicino e non passa giorno che non penso a lui.
Ma il sogno di alcune notti fa è stato diverso da tutti gli altri.
Era sera, imbruniva, e mi trovavo nel piazzale dell’azienda appartenuta un tempo alla mia famiglia. Aspettavo che mio padre uscisse dallo stabilimento per tornare insieme a casa. Mi si avvicinò mia madre, anche lei in attesa nel piazzale, e disse:
«Ma perché tuo padre tarda tanto? Vallo a chiamare».
Mi avviai verso la porta degli uffici e, proprio allora, ne uscì un uomo. Era corpulento, biondastro, tra i cinquantacinque e i sessant’anni e teneva in testa un berretto di lana di colore avana. Non lo conoscevo. Sembrava agitato, sconvolto.
«L’ho ucciso», disse. «L’ho ucciso, però non l’ho fatto apposta. Io non volevo, proprio non volevo».
Accanto a me un giovane bruno, forse un nostro dipendente, disse:
«Sarebbe il caso di andare a controllare».
Entrammo e salimmo le scale fino al primo piano.
«Vado a vedere di qua», disse il giovane e s’incamminò a sinistra lungo il corridoio.
Invece io aprii la prima porta, che si trovava proprio davanti a me, in cima alla rampa. Superata la soglia gettai un’occhiata a sinistra e non scorsi nulla. Guardai a destra e ai piedi della parete in fondo, con il fianco poggiato sul pavimento e la schiena contro il muro, giaceva mio padre. Era stato ucciso.

Il sogno mi ha molto colpito, è ovvio, senza però provocarmi alcuna angoscia. Non so interpretare i sogni e nemmeno ci provo mai. In questo caso, chissà perché, mi si è formata la convinzione d’aver compiuto – nella realtà, mica nel sogno – qualcosa che a mio padre non sarebbe piaciuta.
Quel giorno, in effetti, attraverso salaci messaggi di posta elettronica avevo un po’ preso in giro un mio editore. Il tizio mi ha pubblicato un libro stampandolo con un micragnoso corpo 11, ossia a caratteri microscopici, e lo ha messo in vendita a un prezzo esagerato. Volumetti del genere potrebbero sì e no vendersi in edicola a pochi soldi e non all’esoso prezzo di copertina da lui stabilito. Giudico la sua una totale mancanza di riguardo nei confronti dei lettori, oltre che una scelta tutt’altro che scaltra sul piano commerciale. Morale della favola, non perdo mai l’occasione di punzecchiarlo come meglio posso.
Be’, mio padre non avrebbe affatto apprezzato il mio spiritello vendicativo e, in vita, mi avrebbe rimproverato in tono deciso. Ecco perché da quel sogno, se a ragione o meno non importa, ho colto un suo rimprovero.
Comunque, ieri notte l’ho sognato di nuovo. Si chiacchierava amabilmente di cose allegre.



venerdì 19 settembre 2014

L'editore americano

Il primo aprile ricevetti una mail da una casa editrice americana, l’America Star Books, che si dichiarava disposta a tradurre e pubblicare i miei libri negli Stati Uniti.
Pensai subito al famigerato pesce, vista la coincidenza con il giorno appositamente dedicatogli. Provai a domandare ad alcuni colleghi se avessero pure loro ricevuto una simile missiva. Mi risposero di no, ma uno non mancò di ricordarmi che era il primo d’aprile.
Appunto.
Ciò malgrado la curiosità è femmina. E benché io non lo sia – femmina, intendo – non posso però sostenere di non essere curioso. (Eh, sì, diciamo la verità, certe frasi fatte sono proprio malfatte). Insomma, senza troppi giri di parole, cercai di scoprire se l’America Star Books esisteva o meno.
Esisteva.
O meglio, esiste.
A quel punto chiesi loro di mostrarmi un contratto tipo. Non si fecero pregare due volte e me lo spedirono a tambur battente. La cessione dei diritti avrebbe avuto la durata di tre anni. Il mio compenso sarebbe stato calcolato in percentuale al prezzo di vendita (sales price) del libro, che non penso corrisponda però a quello che noi chiamiamo prezzo di copertina (retail price). Qualora non avessero tradotto e pubblicato il libro entro un anno, il contratto andava considerato rescisso.
Mi parvero proposte accettabili e gli cedetti così i diritti per due miei libri, ‘‘Commedia all’italiana’’ e ‘‘Un buon sapore di morte’’, pubblicati in Italia in versione elettronica da Giuseppe Meligrana, il quale aveva comunque lasciato a me i diritti di traduzione.
Il diciotto agosto America Star Books m’inviò la copertina del primo libro tradotto, ‘‘Italian comedy’’, e le bozze. Per correggerle ci misi quasi una settimana. E devo riconoscere che il libro, nel limpido idioma di Al Capone, non ha perso nulla delle caratteristiche che lo caratterizzano nell’originale. Cattura e si fa leggere d’un fiato in entrambe le lingue. Segno che la traduzione è stata fatta come Dio comanda.
Questo piccolo episodio qualche soddisfazione me l’ha data, certo, ma non credo comunque d’avere adesso il diritto di vantarmi d’alcunché. Solo se i miei libri verranno venduti in America in quantità degne di nota mi sarà consentito provare un ragionevole orgoglio. Un autore è condannato al successo. Se non ha successo deve solo abbassare la cresta.
E’ la legge del mercato letterario, bellezza, che è uno dei più terribili mercati esistenti al mondo.
Vedremo cosa succederà.



venerdì 12 settembre 2014

L'appetito vien mangiando

Dopo il rientro dalle ferie i dipendenti pubblici vorrebbero, tramite il rinnovo dei loro contratti di lavoro attualmente bloccati, un aumento dello stipendio. E’ chiaro che la riduzione d’imposta di ottanta euro al mese, appena elargita anche a loro dal governo, non gli basta. Pretendono di più.
L’appetito, come c’insegnano i nutrizionisti, vien mangiando.
Hanno le loro richieste una pur minima possibilità d’essere accolte?
La risposta è no. Il massimo che il presidente in carica del consiglio dei ministri, l’ex sindaco Renzi, concederà loro saranno promesse, in quanto le chiacchiere non costano niente, e qualche striminzito contentino più simbolico che concreto.
Le ragioni sono ovvie.
Un aumento della spesa corrente necessaria per pagare aumenti salariali ai dipendenti pubblici dovrebbe essere coperta da un corrispondente aumento della pressione fiscale. Non ci è possibile infatti sforare i limiti di bilancio del tre per cento imposti dal patto europeo di stabilità, né potremmo sottrarci al rientro concordato del deficit pubblico per raggiungere il pareggio tra entrate e uscite previsto dal cosiddetto patto di bilancio (fiscal compact, per chi parla come Al Capone). Poiché la pressione fiscale, che include fisco e parafisco, è pari ora al cinquantacinque per cento del reddito nazionale, un ulteriore aumento determinerebbe una compressione dell’economia, con inevitabile crescita del numero di disoccupati, e dunque degli introiti erariali.
Se per ipotesi il governo italiano provasse a trasgredire i trattati internazionali sottoscritti per far parte dell’unione monetaria (patto di stabilità e patto di bilancio), saremmo poi costretti, per non essere cacciati fuori dall’euro, ad accettare una specie di commissariamento da parte dell’Unione europea. In altri termini, a Roma verrebbe la troika a comandare.
«E allora usciamo dall’euro!», potrebbero a questo punto sostenere in tanti.
Potrebbe essere una soluzione, se effettuata in maniera appropriata, ma nel momento attuale nessun governo la attuerà mai. Con interessi sui titoli del debito pubblico così bassi come adesso, tanto da sembrare ridicoli, uscire dalla moneta unica viene considerata, dai capi di governo, una pazzia.
In conclusione, leviamoci dalla testa di poter godere di un po’ di respiro. Immensi oceani di lacrime ancora ci aspettano.



venerdì 5 settembre 2014

Fisco, spesa pubblica ed equità

Tra gli obiettivi assegnati ormai da lungo tempo allo stato rientra pure il perseguimento di una più equa redistribuzione del reddito e della ricchezza. Fissando e realizzando un tale compito si dà, in buona sostanza, pratica attuazione al concetto di stato sociale. Di pertinenza dei pubblici poteri non sono dunque solo difesa, ordine pubblico, politica estera, giustizia e moneta, ma anche equità e protezione sociale.
Gli strumenti utilizzabili per raggiungere lo scopo sono due. Da un lato la leva fiscale e dall’altro la spesa pubblica.
Un fisco equo deve conformarsi a criteri di progressività, come non a caso stabilisce il secondo comma dell’articolo 53 della costituzione italiana. Coloro che possiedono e guadagnano di più devono contribuire ai fabbisogni finanziari dello stato in misura più che proporzionale al crescere delle loro sostanze. E’ un assunto apprezzabile che presenta però dei limiti. Con le imposte indirette, com’è ovvio, il criterio non può essere attuato in pieno. Alle imposte sui redditi e a quelle patrimoniali possono invece essere facilmente applicate aliquote via via crescenti. L’esperienza storica ha tuttavia mostrato che imposte eccessivamente progressive riducono lo stimolo a investire e provocano così effetti sociali opposti a quelli desiderati. Una ridotta propensione agli investimenti in capitale fisso causa infatti, a lungo andare, un aumento della disoccupazione. Tirando le somme, una tassazione dei profitti e dei patrimoni troppo pesante si rivela perciò un pessimo affare.
Mezzi ben più efficaci per perequare la ricchezza scaturiscono dalla spesa pubblica. Sussidi di disoccupazione, pensioni, assistenza sanitaria offrono a tal proposito risultati immediatamente evidenti. Cosi come la politica del pubblico impiego consente a tanti di riscuotere un reddito sicuro che dal mercato forse non avrebbero potuto avere, mentre l’istruzione in scuole statali gratuite o poco costose permette a tutti, almeno in astratto, di migliorare la produttività. Le superiori condizioni di vita raggiunte negli ultimi decenni da ampie fasce di popolazione si devono, e non poco, alla spesa pubblica.
Gli inconvenienti, comunque, non mancano. La creazione di enti pubblici inutili, l’elargizioni di privilegi a questa o a quella categoria, per esempio stipendi e pensioni d’oro, producono effetti perversi e, in concreto, antisociali. Il medesimo discorso vale pure quando i servizi resi dallo stato sono di pessima qualità. In Italia è divenuta proverbiale l’inefficienza del sistema giudiziario, inefficienza dalle conseguenze nefaste, perché riduce lo spirito di legalità.
Lo spreco e l’uso inefficiente di risorse pubbliche c’impoverisce, non ci arricchisce. E correggere le distorsioni, purtroppo, risulta tutt’altro che semplice. Le incrostazioni sono dure da scalfire.
Esistono soluzioni?
In teoria sì. In pratica chissà.



venerdì 29 agosto 2014

Potere e libertà

Tutti ricorderanno la celebre battuta di Jean-Jacques Rousseau: l’uomo nasce libero ma la società lo rende schiavo. E’ di sicuro una frase a effetto, però priva di qualunque plausibile significato. Per un animale definito sin dall’antichità come ‘‘sociale’’ vagheggiare il ritorno a un mitico stato di natura è chiaramente un nonsenso e, con buona pace di Rousseau, nessuno nemmeno ci pensa.
Per amor di verità va comunque riconosciuto che all’epoca di Rousseau gli intellettuali cominciarono a rivolgere con insistenza la loro attenzione alle profonde differenze esistenti tra chi stava su e chi stava giù. Ai loro occhi il mondo era senza dubbio popolato da tanti schiavi e pochi padroni, tanti sfruttati e pochi sfruttatori. E così le ingiustizie sociali divennero, per una moltitudine di pensatori, rivoluzionari e politici riformisti, oggetto di lotte accanite. Insomma, qualcosa da abbattere.
La rivoluzione francese rappresentò il primo grande sommovimento volto a realizzare una maggiore uguaglianza fra gli uomini. Altri ne seguirono, finché nel Novecento si affermò e trovò pratica attuazione il concetto di stato sociale. L’azione pubblica avrebbe dovuto prefiggersi di redistribuire più equamente redditi e ricchezza. E nelle opulente nazioni industrializzate d’oggi, ammettiamolo pure, questo obiettivo è stato grosso modo raggiunto. O almeno, ci si è avvicinati.
Nei paesi ricchi il numero di coloro che vivono nell’indigenza si è ridotto, rispetto al passato, in misura sbalorditiva. Le diffuse condizioni di benessere hanno di conseguenza modificato la percezione che abbiamo della società. Ci è ora più difficile considerare l’ambito in cui viviamo diviso in sfruttati e sfruttatori. Certo, le ragioni d’attrito tra chi sta giù e chi sta su non sono venute meno, ma dominano meno d’un tempo i nostri pensieri. Siamo adesso un po’ meno scontenti, ecco.
Ad attirare le maledizioni degli insoddisfatti, e a guadagnarsi così l’epiteto di sfruttatrici, sono oggigiorno le grandi aziende multinazionali, nonché le grandi banche. In altre parole, chi sta giù non digerisce il potere economico dei grandi gruppi produttivi e finanziari. Il potere economico fa ancora paura.
Buone ragioni per diffidare dello strapotere dei giganti industriali e finanziari non mancano e non ho alcuna intenzione di sminuirele. Resta però il fatto che dalle guerre napoleoniche in poi a rilevarsi davvero mortifero è stato il potere politico, il potere degli stati. I grandi crimini di massa sono stati tutti realizzati dai poteri pubblici. O vogliamo forse affermare che le guerre mondiali, lo sterminio dei kulaki, il genocidio degli ebrei, il bombardamento di Dresda o quelli di Hiroshima e Nagasaki sono stati innocenti scherzetti di politicanti un po’ pazzerelloni?
Le potenzialità criminali dei poteri pubblici sono ovviamente superiori nei sistemi assolutistici e totalitari e inferiori, per nostra fortuna, in quelli democratici. Purtroppo, però, la perniciosità della politica abbonda anche nelle democrazie. Quello che negli ultimissimi anni è accaduto in taluni paesi d’Europa aderenti alla moneta unica ce ne fornisce cruda e amara prova. In questi paesi i governi hanno difatti adottato deliberatamente, nella speranza di non farsi cacciare dall’euro, politiche economiche distruttive, le quali hanno peggiorato le condizioni di vita di ampi strati della popolazione, ampliato le masse di disoccupati e fatto salire come non mai il debito pubblico. L’arte dei pazzi assurta a dottrina di governo.
Lo slogan coniato da Rousseau va quindi leggermente corretto.
L’uomo nasce libero ma la politica lo rende schiavo e, più spesso che no, lo ammazza.



venerdì 22 agosto 2014

A Berlino il gelo arriva ad agosto

Il quattordici agosto 2014 l’istituto tedesco di statistica ha reso pubblici i dati congiunturali. Si è così appurato che nel secondo trimestre dell’anno il prodotto interno lordo della Bundesrepublik Deutschland, altrimenti nota con l’affettuoso nomignolo di ‘‘locomotiva europea’’, è calato dello zero virgola due per cento rispetto al trimestre precedente, flessione dovuta al contrarsi delle esportazioni e degli investimenti.
Il dato in sé non è catastrofico. Se la tendenza al rallentamento dell’economia tedesca dovesse però confermarsi anche nei mesi seguenti si aprono scenari davvero interessanti. In molti diranno infatti: «Te l’avevo detto io!», riferendosi a quanto da loro previsto quattro anni fa. Ossia che la crisi artificiale imposta dalla Germania ai paesi cicala dell’eurozona, costretti ad adottare politiche economiche procicliche per non farsi buttare fuori dall’euro, avrebbe presto o tardi danneggiato l’export tedesco.
Se il raffreddore dell’economia germanica dovesse perdurare, la graziosa Kanzlerin Angelina Merkel non potrà impedire alla Banca centrale europea di effettuare le operazioni di mercato aperto – o quantitative easing, nell’idioma di Al Capone – annunciate all’inizio di giugno dal governatore Mario Draghi. L’istituto d’emissione acquisterà cioè titoli privati e pubblici immettendo liquidità nel sistema.
Un’eventuale e paventata fuga degli investitori dalle obbligazioni pubbliche italiane, se la Bce ne sosterrà i corsi tramite acquisti sul mercato secondario, dunque non si verificherà e i loro rendimenti si manterranno bassi. Tutto ciò, se l’eurozona fosse un angolo di mondo libero e normale e non una quasi colonia tedesca, offrirebbe ai governanti dei paesi in crisi la possibilità di attuare politiche economiche anticicliche per favorire la ripresa e riassorbire così la stupefacente disoccupazione prodotta dalle dannose medicine fabbricate a Berlino e obbligatoriamente somministrate a tutti.
La ricetta per invertire il ciclo e puntare alla crescita è nota. Bisogna ridurre la pressione fiscale, aumentare la spesa in investimenti pubblici e tagliare quella corrente del tutto improduttiva (enti inutili, stipendi e pensioni d’oro, sperperi nelle amministrazioni centrali e locali). E’, a ben vedere, più o meno quello che l’ex sindaco Renzi, nostro attuale presidente del consiglio, cerca di fare. O almeno, dichiara di voler fare.
Ci riuscirà?
Sì, se il gelo sceso in agosto a Berlino durerà anche in autunno. E non accusatemi per favore d’essere cinico. Non è colpa mia se due più due fanno quattro.



venerdì 15 agosto 2014

La lotta per Cristina

Avevo dodici anni quando mi battei per una ragazza. Si chiamava Cristina. Era bionda e aveva il nasino spruzzato di lentiggini. Non ricordo se avesse gli occhi chiari. Forse erano nocciola.
Successe al mare, a Pineto, piccolo centro della costa teramana, dove l’estate la mia famiglia villeggiava. Era il 1968. Fu l’ultimo anno che passammo a Pineto le vacanze estive.
Cristina, i suoi genitori, un fratellino e un merlo erano alloggiati in una villetta di fianco alla nostra. Il merlo lo tenevano all’aperto, in giardino, con una zampetta legata a una catenella in cima a un trespolo.
Venivano da Subiaco.
Dal pomeriggio alla sera il padre di Cristina, di professione come la madre maestro elementare ma appassionato di pittura, seduto vicino al merlo dipingeva. Non che facesse il ritratto all’uccello. Qualcosa sulle sue tele ci metteva, ma il merlo no. Almeno, che io ricordi.
Davanti alle villette correva uno stradone ghiaiato. Oltre lo stradone c’era una vigna abbandonata. Per arrivare in spiaggia bisognava attraversare quella vigna.
Le due abitazioni vicine, e di conseguenza i vicini ombrelloni, facilitarono la nostra conoscenza. Tutti e due avevamo finito quell’anno la prima media e perciò parlavamo più che altro di scuola.
Cristina piaceva anche a un altro ragazzino. Non lo conoscevo, né lo conosceva lei. Comunque, con lui qualche parola ce la scambiava. Aveva i capelli rossi, e così lo chiamavamo il Rosso.
Un pomeriggio Cristina e io stavamo in acqua e si tornava verso riva. Non a nuoto, camminando sul fondale basso. A un cero punto sulla spiaggia comparve il Rosso. Ci vide e venne verso di noi. Avevamo quasi raggiunto la battigia quando lui si avvicinò e cominciò a darmi degli spintoni nell’intento di buttarmi giù.
Cristina si allontanò e andò ad accoccolarsi sulla sabbia per godersi lo spettacolo.
Il Rosso aveva suppergiù la mia età, era però più robusto e più alto di me. Non avevo speranza di batterlo. Ciò malgrado ci riuscii. Lo scontro finì con lui sotto di me, la schiena distesa sulla rena bagnata, e io sopra di lui che lo inchiodavo tenendogli le spalle ferme a terra.
Ammise la sconfitta, si rialzò e andò via. Cristina, sorridendo compiaciuta, venne a complimentarsi con il vincitore.
Moltissimi anni più tardi m’incontrai per motivi di lavoro con un impiegato del comune di Subiaco. Gli raccontai l’episodio e gli chiesi se la conosceva. Mi disse che i genitori, i due maestri, avevano divorziato e lei era diventata regista alla Rai.

A distanza di tanti decenni quello rimane di sicuro il fatto meno esaltante della mia vita. Battersi come galli per una donna è infatti per me la peggiore delle insensatezze. E’ pur vero che gli uomini, dicono alcuni, sono fatti per battersi, non per amare, ed è altrettanto vero che il valore di un uomo si misura dal suo coraggio. Il coraggio con il quale affronta i suoi avversari, il coraggio con il quale affronta le asprezze della vita, il coraggio con il quale affronta la morte. Ma battersi da galletti per una donna è un’insensatezza.
Naturalmente, in quel caso fui provocato, a me toccò soltanto difendermi. La responsabilità dello scontro non fu mia. I motivi del duello, però, furono e rimangono squallidi.
Le esigenze del basso ventre non meritano tanto.



venerdì 8 agosto 2014

Profeti di sventura

Stormi d’uccellacci del malaugurio si sono alzati in volo e oscurano con le più fosche previsioni gli estivi cieli dorati della penisola.
Finita l’estate dovremmo aspettarci, a loro dire, una sfilza di tragici eventi, quali ad esempio una manovra finanziaria da dieci miliardi, se non addirittura venti, per evitare che il deficit pubblico sfori il tetto del tre per cento in rapporto al pil, reperiti magari attraverso un prelievo forzoso sui risparmi; la caduta del governo presieduto dall’ex sindaco Renzi; l’arrivo della famigerata troika (Ue, Bce, Fmi); nonché la fine anticipata della legislatura.
Questa è la musica che i profeti suonano ed è una brutta musica. Non sono un veggente e non possiedo dunque la benché minima facoltà di sapere fin d’ora se questa marcia funebre la ascolteremo soltanto o se invece si tradurrà in avvenimenti concreti. E’ però già possibile adesso indicare, se non le probabilità, almeno i limiti oggettivi di ogni singolo presagio.

Cominciamo dall’ultima profezia, quella che prevede le elezioni anticipate.
Be’, va subito detto che in Italia, per una norma esistente e rispettata pur se non scritta, una legislatura non può mai durare meno di due anni e mezzo. Ciò perché i parlamentari acquisiscono il diritto alla pensione solo se rimangono in carica per almeno due anni e mezzo.
Le camere attuali, scaturite dal voto del febbraio 2013, rigurgitano di parlamentari di prima nomina e costoro tuteleranno con le unghie e con i denti i propri interessi economici. Basta quindi fare un calcolo facile facile per capire che prima dell’autunno 2015 nuove elezioni politiche non appaiono plausibili. Dopo, forse sì. Ma solo se il partito di maggioranza relativa, varata la nuova legge elettorale, avrà la certezza di vincere, altrimenti no.

Passiamo alla penultima, l’arrivo della troika.
Affinché il vaticinio si verifichi sarebbe necessario che il nostro paese richieda un finanziamento al fondo salva stati (Meccanismo europeo di stabilità) e al Fondo monetario internazionale.
Naturalmente, come sappiamo, a questo mondo tutto è sempre possibile, sta però il fatto che aumentando all’impazzata dal 2012 a oggi il debito pubblico, il tesoro dispone ora di circa cento miliardi di liquidità. Una cifra che sebbene non assicuri in caso di bufera la salvezza – e per bufera intendo una nuova fuga degli investitori dalle nostre obbligazioni pubbliche e una flessione improvvisa del gettito fiscale – allontana comunque il timore di un’indesiderata visita, a breve termine, della troika in casa nostra.

E arriviamo così alla terz’ultima profezia.
L’ex sindaco Renzi lascerà palazzo Chigi? Fino al trentuno dicembre di quest’anno ciò sarà matematicamente impossibile, nemmeno se lui volesse, e la ragione è chiara. Il presidente della repubblica non accetterà mai che il governo in carica si dimetta durante il semestre di presidenza italiana dell’Unione europea. Sarebbe una figuraccia storica e saremmo sommersi dal ridicolo. Quindi, non succederà.
Da capodanno in poi ogni giorno sarà invece buono per una eventuale crisi di governo. Ma l’ex sindaco perderà la poltrona solo se saranno i suoi compagni di partito a desiderare di togliergliela (i minuscoli alleati no, in quanto non ne ricaverebbero alcun vantaggio, anticiperebbero anzi la loro scomparsa), e non si vede come e perché. La pazzia degli uomini è illimitata, d’accordo, ma in politica la pazzia non confligge mai con la convenienza.
Certo, potrebbe essere l’ex sindaco in persona a decidere un bel dì di dimettersi, ma lo farà soltanto se dovesse a un dato momento convincersi che conservare il pesante incarico di presidente del consiglio possa nuocere alla sua immagine di giovane statista dal luminoso avvenire.

E infine, la manovra.
Va premesso che il governo italiano aveva concordato con la commissione europea di ridurre nel 2014 il deficit pubblico al 2,6% del pil, confidando in una crescita dello 0,8%. Ciò non succederà. Il pil non crescerà oltre lo 0,3%, stando alle stime più favorevoli, e perciò il gettito fiscale non salirà nella misura sperata e il rapporto deficit/pil si aggraverà, non migliorerà. Né la privatizzazione di quote d’azienda in mano allo stato sta procedendo nella misura e ai ritmi programmati. La revisione della spesa, poi, pur se resa oltremodo chic denominandola in americano di Harvard, la si predica ma non la si pratica.
In sostanza, i presupposti per una manovra ‘‘lacrime e sangue’’ sembrerebbero esserci tutti. Per di più l’Europa dice no – o meglio, ‘‘nein’’, perché l’Europa parla tedesco – alla richiesta di maggiore ‘‘flessibilità’’, ossia di superare i limiti stabiliti per il deficit pubblico, tanto sognata dall’ex sindaco Renzi.
E allora?
Eh, cosa volete che vi dica? Con i grossi guai della finanza pubblica – o, se vogliamo chiamarli con il loro nome, con i problemi creati dall’Unione monetaria europea – qualcuno finirà per rompersi il grugno.
Sarà forse una lunga agonia.



venerdì 1 agosto 2014

Senza più bandiere

Con la fine delle ideologie – o, per meglio dire, con la morte del marxismo perito sotto le macerie del muro di Berlino – agli elettori senza più vessilli non rimane che votare in base alla propria convenienza, al proprio utile, visto ormai che i megafoni degli ideologi di tutte le risme si sono completamente sfiatati.
Non per niente i partiti oggi si dividono, al pari dei loro votanti, in statalisti e antistatalisti. Il propendere per l’uno o l’altro schieramento ha però ben poco a che fare con le elucubrazioni teoriche imbastite dagli intellettualoidi. Dipende invece da pure condizioni esistenziali. Scaturisce cioè dai più ruspanti interessi economici.
Ciò è dovuto a un motivo molto semplice. La spesa pubblica, per chi la riceve, rappresenta un reddito, o comunque un’entrata. I beneficiati (dipendenti pubblici, pensionati, fornitori di beni e servizi allo stato) sono dunque, per loro stessa natura, statalisti a prescindere, come direbbe Totò. Chi ricava al contrario il proprio reddito dal mercato e non dallo stato sarà più propenso a maledire il carico fiscale cui viene assoggettato e vorrebbe meno stato, non più stato.
Stato e mercato costituiscono pertanto le due potenti realtà che condizionano le scelte elettorali di ognuno di noi.

Stato e mercato non sono però entità l’una all’altra alternative. Storicamente abbiamo assistito all’esistenza di sistemi economici collettivisti le cui capacità produttive sono risultate meno efficienti dei sistemi di mercato. La riprova ci è offerta dalla Cina. Non appena i cinesi hanno buttato alle ortiche Carlo Marx la loro economia è fiorita crescendo a ritmi stupefacenti. D’altro canto, un libero mercato privo delle tutele giuridiche e dei meccanismi di sicurezza interna ed esterna garantiti dallo stato sarebbe impensabile. Senza i poteri pubblici che la sorreggano l’economia di mercato non esisterebbe.
Inoltre, per quanto possa sembrare paradossale, lo statalismo incuba i germi antistatalisti nel suo stesso ventre. L’aumento della spesa pubblica non dona infatti rose e fiori a tutti. Al di là degli effetti nefasti di sprechi e inefficienze ad opera dei sempre più vasti apparati politico-burocratici, è la forza stessa dei numeri a porre limiti invalicabili alla finanza allegra e a provocare contraccolpi.
Per capirlo basta gettare un veloce sguardo a quanto accaduto negli ultimi cento anni.
Fino ai primissimi anni del Novecento le spese pubbliche ammontavano a malapena al quindici per cento del reddito nazionale, eccezion fatta per i periodi di guerra. Oggi, incluse le pensioni, si supera tranquillamente il cinquanta per cento. Le maggiori spese sono state finanziate accrescendo via via la pressione fiscale, nonché il debito pubblico.
Nessuno stato ha però una capacita indefinita di indebitarsi, come dimostrano le recenti vicissitudini di Argentina e Grecia. Né si possono aumentare illimitatamente le tasse senza sconquassare i sistemi economici e moltiplicare il numero dei disoccupati, e la prova ce la forniscono le recenti cronache di Spagna, Italia, Francia, Irlanda, Portogallo.
Se gli stati attuano politiche di bilancio dannose per gran parte dei loro cittadini, costoro prima o poi vengono assaliti dalla nausea e cominceranno a porsi domande angosciose. Con il tempo sapranno anche darsi delle risposte. Si convinceranno cioè che il miglior modo per proteggersi da troppo stato è meno stato, e voteranno di conseguenza.



venerdì 25 luglio 2014

La solitudine di Silvia

Un mio amico, si chiama Daniele, ha ricevuto dalla sorte un tiro davvero mancino. Il giorno prima delle nozze la ragazza che l’indomani sarebbe dovuta salire con lui sull’altare per scambiarsi a vicenda l’agognata promessa si gettò da una finestra e si uccise.
Dopo la perdita della sposa Daniele prese l’abitudine di andare ogni domenica mattina al cimitero e trattenersi in intimi e silenziosi colloqui con la sua cara chiusa nella tomba. Poi, per il pranzo domenicale, puntava sempre dai mancati suoceri. La visita al cimitero e il pranzo dai suoceri divennero rituali, quasi fossero celebrazioni liturgiche.
Non ho mai conosciuto la fidanzata di Daniele, l’amicizia tra me e lui si fece stretta in un tempo successivo alla disgrazia, né ne ricordo il nome, benché lui me lo abbia sicuramente detto. Mi diede da leggere le poesie d’amore che scriveva per lei e mi mostrò alcune foto. La giovane vi compariva insieme a lui sotto un ombrellone in riva al mare. Una bella ragazza, devo dire. Una bella ragazza che però non sorrideva. Soffriva di depressione.
Un pomeriggio di un lontano solstizio d’estate, durante un giro in bici, Daniele volle che conoscessi i suoceri putativi. Abitavano a Preturo, vicino alla pista d’atterraggio dell’aeroclub, in una bella casa nuova di loro proprietà, divisa in tre appartamenti. Uno occupato da padre e madre della defunta, uno dall’altra figlia sposata, e uno vuoto. Quello vuoto sarebbe stato destinato a Daniele e consorte, se la futura consorte non si fosse suicidata.
Ci presentammo in bicicletta e sudati, ma fummo ciò malgrado accolti con estrema cortesia. A me offrirono un succo di frutta. Il volto della madre della sposina scomparsa non mi pareva del tutto ignoto. Almeno di vista la conoscevo, e glielo dissi.
«E’ possibile», rispose. «Lavoravo all’ufficio postale di via Urbani. Adesso sto in pensione».
Il padre, molto magro e, a giudicare dall’aspetto, non proprio in perfetta salute, apprezzò i miei complimenti per la bella casa e mi mostrò le grigie e distanti vette del Gran Sasso, visibili dalle finestre. Ulteriore pregio dell’abitazione, quella spettacolare veduta.
Comparve a un certo punto, sollecitata credo da Daniele, anche la figlia sposata. Si chiamava Silvia e aveva partorito da due o tre mesi una bambina. S’intravide pure il marito. Un bel fusto diplomato all’Isef, istruttore di nuoto in una piscina.
Silvia era un’appassionata ciclista e decise così di venire a pedalare con noi. Si ripartì dunque in tre e percorsi sì e no un paio di chilometri lei disse:
«Be’, tu adesso, Danie’, te ne puoi pure andare».
Mi chiesi quale interesse potesse avere a voler rimanere sola con un perfetto sconosciuto quale io ero per lei. Ma a sconcertarmi ancor di più fu la reazione di Daniele. Ubbidì senza nulla obiettare all’ordine e quieto quieto ci salutò e prese la strada per L’Aquila.
Noi due arrivammo a San Marco e cominciammo a salire verso Casaline. La bicicletta di Silvia era vecchia, però le sue gambe giravano a dovere. Mi raccontò, del resto, che aveva scalato, fin su ai campi di sci, la montagna di Campo Felice, un’arrampicata che richiede allenamento, testardaggine e il fisico a posto.
Cominciò a parlarmi della sorella morta. Dei disturbi psichici della sua povera sorella suicidatasi il giorno prima del matrimonio.
«A me dispiace che sia morta», concluse, «ma forse è meglio così, perché soffriva troppo», e aggiunse qualcosa che mi rimase incomprensibile: «Siamo soli».
Non le domandai di chiarirmi il significato di quelle due, per me, misteriose parole. Di certo non si riferivano alla sua situazione particolare di madre e moglie. Esprimevano, supposi, un concetto universale. Un concetto nel quale non ho mai creduto, né mi aveva mai sfiorato la mente.
Raggiungemmo Casaline e tornammo indietro. Lei doveva allattare la bimba. Si era fatto tardi.

Svariati anni appresso, nella sala d’aspetto di un dentista, captando non volendo i discorsi di altre due clienti in attesa al pari mio di sottoporsi alle torture odontoiatriche, scoprii che cosa in quel lontano ventuno giugno Silvia avesse voluto dirmi.
«Siamo soli», uscì dalla bocca di una delle due clienti. «Su questa Terra un Dio non c’è».
Era dunque la mancanza di un Dio misericordioso che ci aiuti ora e qui che Silvia aveva lamentato. La mancanza di uno spirito divino che ci conforti e dia sollievo nell’immediato. Una divinità che risolva, se necessario anche materialmente, i nostri guai.
E capii la sua profonda angoscia. La sua delusione tanto più amara se credente, dal momento che un ateo non può sentire la mancanza di colui a cui non crede.
Ma sebbene umana, la solitudine di Silvia non è condivisibile, perché forse a Dio chiediamo troppo. Gli chiediamo molto più di quanto chiediamo a noi stessi.



venerdì 18 luglio 2014

Per un euro in più

Grazie alle testimonianze di chi vi ha assistito in prima persona, oggi noi italiani finalmente sappiamo come e perché nel novembre del 2011 abbiamo perduto la sporca guerra dell’euro, umiliati con scherno da francesi e tedeschi.
Gli studiosi di sociologia del pettegolezzo ritengono che il casus belli del conflitto iniziato nel 2010 tra il nostro governo e quelli d’oltralpe vada individuato in un goliardico apprezzamento espresso dal noto femminista Silviuccio B. sul cospicuo cofano posteriore appartenente alla graziosa Kanzlerin Angelina Merkel.
Benché seducente, e benché da molti condivisa, la tesi è però destituita di ogni fondamento. A smentirla oltre ogni ragionevole dubbio hanno provveduto i libri scritti da Lorenzo Bini Smaghi, all’epoca membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea, da Timothy Geithner, all’epoca segretario al tesoro del governo Usa, e da José Luis Zapatero, all’epoca primo ministro del regno di Spagna. A confermare e rafforzare le testimonianze rese per iscritto dai tre illustri personaggi or ora citati ci ha poi pensato Giulio Tremonti, all’epoca ministro dell’economia del governo di Roma, intervistato al riguardo.
La causa che scatenò il confronto a muso duro con i nostri partner europei risiede per intero nel superiore principio etico, religiosamente rispettato da francesi e tedeschi, in base al quale per arraffare dal prossimo tuo un euro in più è lecito ammazzare chi ti pare. La gente seria, si sa, non guarda in faccia a nessuno e procede dritto per la sua strada.
Insomma, fu una volgare faccenda di quattrini e la venustà della graziosa Kanzlerin, non adeguatamente apprezzata dal noto femminista, non c’entrò per niente.

Nella primavera del 2010, scoppiata con il caso Greco la crisi dei debiti sovrani, si ritenne necessario approntare un fondo salva stati per sostenere i paesi dell’eurozona dalle finanze pubbliche dissestate e non più in grado di collocare a tassi d’interesse accettabili sui mercati mobiliari i titoli del proprio debito.
Nel corso di quell’anno i primi aiuti alla Grecia, forniti per impedirle di dichiarare bancarotta e consentirle così di pagare i debiti in scadenza, vennero erogati dal Fondo monetario internazionale e dai singoli stati dell’Unione europea per mezzo di prestiti bilaterali. Il fatto determinante, quello che delineava gli aspetti cruciali della situazione, consisteva nella forte esposizione delle banche tedesche e francesi nei confronti della Grecia, pari a circa la metà dell’intero debito pubblico ellenico. Le banche italiane, invece, ne detenevano una modesta percentuale.
Nel dicembre di quell’anno apparve sul ‘‘Financial Times’’ un articolo a firma di Jean Claude Juncker, allora presidente dell’eurogruppo, e del ministro italiano Giulio Tremonti nel quale i due autori proponevano, al fine di salvaguardare l’unione monetaria, di affiancare al fondo salva stati anche un’agenzia europea del debito che emettesse obbligazioni per conto dei paesi dell’eurozona (eurobond) e dagli stessi congiuntamente garantite.
La repubblica federale tedesca rigettò la proposta, sia perché, se attuata, i paesi cicala non avrebbero corretto la loro viziosa passione per la finanza allegra e sia perché temeva che gli eurobond sarebbero stati collocati a tassi superiori a quelli con i quali riusciva a piazzare le proprie obbligazioni, e dunque per la Germania non convenienti.
Il ‘‘nein’’ teutonico provocò un serio dissidio con il governo di Roma, che via via s’inasprì man mano che la crisi aggrediva altri paesi, quali Irlanda, Portogallo e Spagna. L’esposizione delle banche italiane verso questi paesi non superava il cinque per cento, una misura modesta se confrontata all’esposizione delle banche del nord Europa.
Il governo di Roma si dichiarò disponibile a contribuire al fondo salva stati per il diciotto per cento circa, che rappresentava la quota del pil italiano in rapporto a quello dell’intera eurozona, solo se veniva contemporaneamente accettato e reso operativo anche il progetto degli eurobond, altrimenti Roma non avrebbe scucito più del cinque per cento.
Parigi e Berlino, in virtù del supremo principio etico che ho ricordato all’inizio – per arraffare un euro in più dal prossimo tuo ti è lecito ammazzare chiunque – non erano affatto d’accordo con un tale criterio di ripartizione delle spese. Poiché l’esposizione delle loro banche nei riguardi dei paesi in bilico era di gran lunga maggiore di quel misero cinque per cento dell’Italia, avrebbero dovuto sborsare loro le somme da capogiro, mentre al contrario nutrivano sì il proposito di salvare le proprie banche, ma con i soldi degli altri, piuttosto che con i propri.
Roma, come scrive Lorenzo Bini Smaghi nel suo libro ‘‘Morire di austerità’’, minacciò addirittura di uscire dall’euro, affrancando in tal modo l’Italia dall’obbligo di contribuire al finanziamento del fondo salva stati. Bini Smaghi giudica comunque quella mossa poco redditizia, in quanto ‘‘la minaccia di uscire dall’euro non sembra una strategia negoziale vantaggiosa (...). Non è un caso che le dimissioni di Berlusconi siano avvenute dopo che l’ipotesi di uscita dall’euro era stata ventilata in colloqui privati con governi di altri paesi’’.
La reazione non si fece attendere e fu davvero terrificante.

Nel luglio 2011 le banche francesi e tedesche cominciarono a vendere titoli del debito italiano da loro tenuti in portafoglio, facendone calare i prezzi e salire i rendimenti fino al sei per cento.
Il cinque agosto 2011 viene recapitata al governo italiano la famigerata lettera della Bce, firmata da Jean-Claude Trichet, allora governatore della Banca centrale europea, e da Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia in procinto di sostituire il primo alla guida dell’istituto d’emissione europeo.
La coppia di governatori, nella missiva, chiedeva al governo di Roma di tagliare con la massima rapidità il deficit pubblico, portando nel 2012 lo spareggio all’uno per cento del pil, e raggiungere nel 2013 la parità tra entrate e uscite. Suggerivano a tale scopo una lunga serie di tagli, tra i quali brillava la riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici, da attuare con decreto.
La rapidità con la quale si sarebbe dovuti arrivare all’aggiustamento dei conti era talmente eccessiva da risultare comica, più che impossibile. Ciò malgrado quella lettera ebbe effetti devastanti, ampliando a dismisura la fuga degli investitori dai titoli di stato italiani. Le pressanti richieste dei governatori, tra i cui compiti non vi è certo quello d’indicare in maniera dettagliata quali politiche economiche i governi devono attuare, instillarono nei mercati il timore che la repubblica italiana si trovasse ormai sull’orlo dell’abisso finanziario, alla stessa stregua di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna.
Nell’autunno 2011, racconta Timothy Geithner nel suo libro ‘‘Stress test’’, alcuni ‘‘funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere. Volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fondo monetario internazionale all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato’’.
Prestiti, si badi, che Roma non aveva mai chiesto. Ma la sgradita sorpresa sarebbe venuta a galla il 3 e 4 novembre 2011 durante il G20 di Cannes, dove fu recitata la grande scena madre.

A svelare i retroscena di quel vertice è stata la penna di José Luis Zapatero. Nel suo libro ‘‘Il dilemma’’ riferisce che in quei giorni nella città della Costa Azzurra già circolavano voci insistenti che davano per scontato che il vetusto Monti Mario, con la qualifica di podestà forestiero, avrebbe presto sostituito il noto femminista Silviuccio B. a Palazzo Chigi. Ma le più succose parole vergate da Zapatero sono queste:
‘‘Merkel mi salutò cordialmente e avanzò, quasi senza preamboli, una proposta nella quale non avevo mai sentito parlare, né nel vertice dell’eurogruppo di qualche giorno prima, né durante i colloqui immediatamente precedenti all’appuntamento di Cannes. Mi chiese se ero disposto ad accettare una linea preventiva di aiuti da cinquanta miliardi di euro dal Fondo monetario internazionale, mentre altri ottantacinque sarebbero andati all’Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no’’.
Un no altrettanto secco lo pronunciò il noto femminista. E comunque all’Italia sarebbero stati in realtà concessi solo quarantasette miliardi di dollari. Con un coup de téâtre degno della sua consumata esperienza di guitto di lungo corso, non negò però al Fondo monetario internazionale di monitorare i nostri conti pubblici.
Barack Obama, informato dal suo segretario al tesoro Timoty Geithner delle subdole tresche ordite dai governi transalpini per mettere nel sacco il noto femminista, e ben consapevole del nocciolo vero del problema, ossia che l’Italia intendeva versare al fondo salva stati il cinque per cento e non il diciotto, propose una soluzione capace, in teoria, di appianare ogni controversia. Il premio Nobel per la pace consigliò infatti di finanziare il fondo salva stati con i diritti speciali di prelievo, unità di conto convertibile in valuta emessa dal Fondo monetario internazionale e a disposizione, a mo’ di riserva, delle banche centrali.
Il brutto marito della bellissima Carla Bruni, all’anagrafe Sarkozy Nicolas, président de la république française, si dichiarò subito d’accordo. E in verità la proposta risultava davvero allettante, poiché consentiva di tirar fuori i quattrini per il fondo salva stati senza mettere, almeno nell’immediato, mano al portafogli.
Lì per lì neppure la graziosa Kanzlerin riuscì a trovare una scusa plausibile per dire ‘‘nein’’, ma non poteva dire nemmeno ‘‘ja’’, se prima non consultava la Bundesbank. Il premio Nobel per la pace la pregò di telefonare all’istante a Jens Weidmann, boss del suddetto istituto, il quale il ‘‘nein’’ addirittura lo urlò e, con ogni probabilità, aggiunse pure che per devolvere i diritti speciali di prelievo al fondo salva stati fosse necessaria una deliberazione del Bundestag, parlamento della Bundesrepublik Deutschland.
Dunque, fu ‘‘nein’’.
Obama insisté fino a quando, all’improvviso, la graziosa Kanzlerin scoppiò a piangere.
«Non è colpa mia», disse al premio Nobel per la pace, «la nostra costituzione l’avete scritta voi. Non posso suicidarmi. E’ giusto che anche l’Italia paghi».
E l’Italia, come sappiano, pagò e continua a pagare. Il giorno 12 di quello stesso mese di novembre il vetusto Monti Mario, come le voci di corridoio già da tempo sussurravano, sostituì il noto femminista nella poltrona romana di presidente del consiglio e prono firmò, da solerte podestà forestiero, tutti gli atti d’impegno affinché l’Italia contribuisse al fondo salva stati nella misura del diciotto per cento e non del cinque.
Ma poiché il nostro è un paese dove ogni tragedia deve per forza di cose tramutarsi in farsa, il noto femminista votò, insieme alla ex opposizione composta da rottami democristiani e comunisti fusi nel Pd, la fiducia al governo presieduto dal vetusto Monti Mario, rendendosi in tal modo complice dell’impoverimento subito dalla nazione per salvare le banche del nord Europa.
Eh, sì, ci sarebbe da ridere, se non fosse da piangere.