venerdì 5 settembre 2014

Fisco, spesa pubblica ed equità

Tra gli obiettivi assegnati ormai da lungo tempo allo stato rientra pure il perseguimento di una più equa redistribuzione del reddito e della ricchezza. Fissando e realizzando un tale compito si dà, in buona sostanza, pratica attuazione al concetto di stato sociale. Di pertinenza dei pubblici poteri non sono dunque solo difesa, ordine pubblico, politica estera, giustizia e moneta, ma anche equità e protezione sociale.
Gli strumenti utilizzabili per raggiungere lo scopo sono due. Da un lato la leva fiscale e dall’altro la spesa pubblica.
Un fisco equo deve conformarsi a criteri di progressività, come non a caso stabilisce il secondo comma dell’articolo 53 della costituzione italiana. Coloro che possiedono e guadagnano di più devono contribuire ai fabbisogni finanziari dello stato in misura più che proporzionale al crescere delle loro sostanze. E’ un assunto apprezzabile che presenta però dei limiti. Con le imposte indirette, com’è ovvio, il criterio non può essere attuato in pieno. Alle imposte sui redditi e a quelle patrimoniali possono invece essere facilmente applicate aliquote via via crescenti. L’esperienza storica ha tuttavia mostrato che imposte eccessivamente progressive riducono lo stimolo a investire e provocano così effetti sociali opposti a quelli desiderati. Una ridotta propensione agli investimenti in capitale fisso causa infatti, a lungo andare, un aumento della disoccupazione. Tirando le somme, una tassazione dei profitti e dei patrimoni troppo pesante si rivela perciò un pessimo affare.
Mezzi ben più efficaci per perequare la ricchezza scaturiscono dalla spesa pubblica. Sussidi di disoccupazione, pensioni, assistenza sanitaria offrono a tal proposito risultati immediatamente evidenti. Cosi come la politica del pubblico impiego consente a tanti di riscuotere un reddito sicuro che dal mercato forse non avrebbero potuto avere, mentre l’istruzione in scuole statali gratuite o poco costose permette a tutti, almeno in astratto, di migliorare la produttività. Le superiori condizioni di vita raggiunte negli ultimi decenni da ampie fasce di popolazione si devono, e non poco, alla spesa pubblica.
Gli inconvenienti, comunque, non mancano. La creazione di enti pubblici inutili, l’elargizioni di privilegi a questa o a quella categoria, per esempio stipendi e pensioni d’oro, producono effetti perversi e, in concreto, antisociali. Il medesimo discorso vale pure quando i servizi resi dallo stato sono di pessima qualità. In Italia è divenuta proverbiale l’inefficienza del sistema giudiziario, inefficienza dalle conseguenze nefaste, perché riduce lo spirito di legalità.
Lo spreco e l’uso inefficiente di risorse pubbliche c’impoverisce, non ci arricchisce. E correggere le distorsioni, purtroppo, risulta tutt’altro che semplice. Le incrostazioni sono dure da scalfire.
Esistono soluzioni?
In teoria sì. In pratica chissà.



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