venerdì 26 settembre 2014

La morte in sogno

Notti fa ho sognato mio padre. Lo sogno spesso, devo dire, e ogni volta al risveglio mi sento felice. E’ venuto a mancare da un quarto di secolo, ormai, ma gli sono sempre vicino e non passa giorno che non penso a lui.
Ma il sogno di alcune notti fa è stato diverso da tutti gli altri.
Era sera, imbruniva, e mi trovavo nel piazzale dell’azienda appartenuta un tempo alla mia famiglia. Aspettavo che mio padre uscisse dallo stabilimento per tornare insieme a casa. Mi si avvicinò mia madre, anche lei in attesa nel piazzale, e disse:
«Ma perché tuo padre tarda tanto? Vallo a chiamare».
Mi avviai verso la porta degli uffici e, proprio allora, ne uscì un uomo. Era corpulento, biondastro, tra i cinquantacinque e i sessant’anni e teneva in testa un berretto di lana di colore avana. Non lo conoscevo. Sembrava agitato, sconvolto.
«L’ho ucciso», disse. «L’ho ucciso, però non l’ho fatto apposta. Io non volevo, proprio non volevo».
Accanto a me un giovane bruno, forse un nostro dipendente, disse:
«Sarebbe il caso di andare a controllare».
Entrammo e salimmo le scale fino al primo piano.
«Vado a vedere di qua», disse il giovane e s’incamminò a sinistra lungo il corridoio.
Invece io aprii la prima porta, che si trovava proprio davanti a me, in cima alla rampa. Superata la soglia gettai un’occhiata a sinistra e non scorsi nulla. Guardai a destra e ai piedi della parete in fondo, con il fianco poggiato sul pavimento e la schiena contro il muro, giaceva mio padre. Era stato ucciso.

Il sogno mi ha molto colpito, è ovvio, senza però provocarmi alcuna angoscia. Non so interpretare i sogni e nemmeno ci provo mai. In questo caso, chissà perché, mi si è formata la convinzione d’aver compiuto – nella realtà, mica nel sogno – qualcosa che a mio padre non sarebbe piaciuta.
Quel giorno, in effetti, attraverso salaci messaggi di posta elettronica avevo un po’ preso in giro un mio editore. Il tizio mi ha pubblicato un libro stampandolo con un micragnoso corpo 11, ossia a caratteri microscopici, e lo ha messo in vendita a un prezzo esagerato. Volumetti del genere potrebbero sì e no vendersi in edicola a pochi soldi e non all’esoso prezzo di copertina da lui stabilito. Giudico la sua una totale mancanza di riguardo nei confronti dei lettori, oltre che una scelta tutt’altro che scaltra sul piano commerciale. Morale della favola, non perdo mai l’occasione di punzecchiarlo come meglio posso.
Be’, mio padre non avrebbe affatto apprezzato il mio spiritello vendicativo e, in vita, mi avrebbe rimproverato in tono deciso. Ecco perché da quel sogno, se a ragione o meno non importa, ho colto un suo rimprovero.
Comunque, ieri notte l’ho sognato di nuovo. Si chiacchierava amabilmente di cose allegre.



venerdì 19 settembre 2014

L'editore americano

Il primo aprile ricevetti una mail da una casa editrice americana, l’America Star Books, che si dichiarava disposta a tradurre e pubblicare i miei libri negli Stati Uniti.
Pensai subito al famigerato pesce, vista la coincidenza con il giorno appositamente dedicatogli. Provai a domandare ad alcuni colleghi se avessero pure loro ricevuto una simile missiva. Mi risposero di no, ma uno non mancò di ricordarmi che era il primo d’aprile.
Appunto.
Ciò malgrado la curiosità è femmina. E benché io non lo sia – femmina, intendo – non posso però sostenere di non essere curioso. (Eh, sì, diciamo la verità, certe frasi fatte sono proprio malfatte). Insomma, senza troppi giri di parole, cercai di scoprire se l’America Star Books esisteva o meno.
Esisteva.
O meglio, esiste.
A quel punto chiesi loro di mostrarmi un contratto tipo. Non si fecero pregare due volte e me lo spedirono a tambur battente. La cessione dei diritti avrebbe avuto la durata di tre anni. Il mio compenso sarebbe stato calcolato in percentuale al prezzo di vendita (sales price) del libro, che non penso corrisponda però a quello che noi chiamiamo prezzo di copertina (retail price). Qualora non avessero tradotto e pubblicato il libro entro un anno, il contratto andava considerato rescisso.
Mi parvero proposte accettabili e gli cedetti così i diritti per due miei libri, ‘‘Commedia all’italiana’’ e ‘‘Un buon sapore di morte’’, pubblicati in Italia in versione elettronica da Giuseppe Meligrana, il quale aveva comunque lasciato a me i diritti di traduzione.
Il diciotto agosto America Star Books m’inviò la copertina del primo libro tradotto, ‘‘Italian comedy’’, e le bozze. Per correggerle ci misi quasi una settimana. E devo riconoscere che il libro, nel limpido idioma di Al Capone, non ha perso nulla delle caratteristiche che lo caratterizzano nell’originale. Cattura e si fa leggere d’un fiato in entrambe le lingue. Segno che la traduzione è stata fatta come Dio comanda.
Questo piccolo episodio qualche soddisfazione me l’ha data, certo, ma non credo comunque d’avere adesso il diritto di vantarmi d’alcunché. Solo se i miei libri verranno venduti in America in quantità degne di nota mi sarà consentito provare un ragionevole orgoglio. Un autore è condannato al successo. Se non ha successo deve solo abbassare la cresta.
E’ la legge del mercato letterario, bellezza, che è uno dei più terribili mercati esistenti al mondo.
Vedremo cosa succederà.



venerdì 12 settembre 2014

L'appetito vien mangiando

Dopo il rientro dalle ferie i dipendenti pubblici vorrebbero, tramite il rinnovo dei loro contratti di lavoro attualmente bloccati, un aumento dello stipendio. E’ chiaro che la riduzione d’imposta di ottanta euro al mese, appena elargita anche a loro dal governo, non gli basta. Pretendono di più.
L’appetito, come c’insegnano i nutrizionisti, vien mangiando.
Hanno le loro richieste una pur minima possibilità d’essere accolte?
La risposta è no. Il massimo che il presidente in carica del consiglio dei ministri, l’ex sindaco Renzi, concederà loro saranno promesse, in quanto le chiacchiere non costano niente, e qualche striminzito contentino più simbolico che concreto.
Le ragioni sono ovvie.
Un aumento della spesa corrente necessaria per pagare aumenti salariali ai dipendenti pubblici dovrebbe essere coperta da un corrispondente aumento della pressione fiscale. Non ci è possibile infatti sforare i limiti di bilancio del tre per cento imposti dal patto europeo di stabilità, né potremmo sottrarci al rientro concordato del deficit pubblico per raggiungere il pareggio tra entrate e uscite previsto dal cosiddetto patto di bilancio (fiscal compact, per chi parla come Al Capone). Poiché la pressione fiscale, che include fisco e parafisco, è pari ora al cinquantacinque per cento del reddito nazionale, un ulteriore aumento determinerebbe una compressione dell’economia, con inevitabile crescita del numero di disoccupati, e dunque degli introiti erariali.
Se per ipotesi il governo italiano provasse a trasgredire i trattati internazionali sottoscritti per far parte dell’unione monetaria (patto di stabilità e patto di bilancio), saremmo poi costretti, per non essere cacciati fuori dall’euro, ad accettare una specie di commissariamento da parte dell’Unione europea. In altri termini, a Roma verrebbe la troika a comandare.
«E allora usciamo dall’euro!», potrebbero a questo punto sostenere in tanti.
Potrebbe essere una soluzione, se effettuata in maniera appropriata, ma nel momento attuale nessun governo la attuerà mai. Con interessi sui titoli del debito pubblico così bassi come adesso, tanto da sembrare ridicoli, uscire dalla moneta unica viene considerata, dai capi di governo, una pazzia.
In conclusione, leviamoci dalla testa di poter godere di un po’ di respiro. Immensi oceani di lacrime ancora ci aspettano.



venerdì 5 settembre 2014

Fisco, spesa pubblica ed equità

Tra gli obiettivi assegnati ormai da lungo tempo allo stato rientra pure il perseguimento di una più equa redistribuzione del reddito e della ricchezza. Fissando e realizzando un tale compito si dà, in buona sostanza, pratica attuazione al concetto di stato sociale. Di pertinenza dei pubblici poteri non sono dunque solo difesa, ordine pubblico, politica estera, giustizia e moneta, ma anche equità e protezione sociale.
Gli strumenti utilizzabili per raggiungere lo scopo sono due. Da un lato la leva fiscale e dall’altro la spesa pubblica.
Un fisco equo deve conformarsi a criteri di progressività, come non a caso stabilisce il secondo comma dell’articolo 53 della costituzione italiana. Coloro che possiedono e guadagnano di più devono contribuire ai fabbisogni finanziari dello stato in misura più che proporzionale al crescere delle loro sostanze. E’ un assunto apprezzabile che presenta però dei limiti. Con le imposte indirette, com’è ovvio, il criterio non può essere attuato in pieno. Alle imposte sui redditi e a quelle patrimoniali possono invece essere facilmente applicate aliquote via via crescenti. L’esperienza storica ha tuttavia mostrato che imposte eccessivamente progressive riducono lo stimolo a investire e provocano così effetti sociali opposti a quelli desiderati. Una ridotta propensione agli investimenti in capitale fisso causa infatti, a lungo andare, un aumento della disoccupazione. Tirando le somme, una tassazione dei profitti e dei patrimoni troppo pesante si rivela perciò un pessimo affare.
Mezzi ben più efficaci per perequare la ricchezza scaturiscono dalla spesa pubblica. Sussidi di disoccupazione, pensioni, assistenza sanitaria offrono a tal proposito risultati immediatamente evidenti. Cosi come la politica del pubblico impiego consente a tanti di riscuotere un reddito sicuro che dal mercato forse non avrebbero potuto avere, mentre l’istruzione in scuole statali gratuite o poco costose permette a tutti, almeno in astratto, di migliorare la produttività. Le superiori condizioni di vita raggiunte negli ultimi decenni da ampie fasce di popolazione si devono, e non poco, alla spesa pubblica.
Gli inconvenienti, comunque, non mancano. La creazione di enti pubblici inutili, l’elargizioni di privilegi a questa o a quella categoria, per esempio stipendi e pensioni d’oro, producono effetti perversi e, in concreto, antisociali. Il medesimo discorso vale pure quando i servizi resi dallo stato sono di pessima qualità. In Italia è divenuta proverbiale l’inefficienza del sistema giudiziario, inefficienza dalle conseguenze nefaste, perché riduce lo spirito di legalità.
Lo spreco e l’uso inefficiente di risorse pubbliche c’impoverisce, non ci arricchisce. E correggere le distorsioni, purtroppo, risulta tutt’altro che semplice. Le incrostazioni sono dure da scalfire.
Esistono soluzioni?
In teoria sì. In pratica chissà.