sabato 25 maggio 2013

Capitali freschi

Lunedì, 21 aprile
Come le rondini la mafia a Civita arrivò in un giorno di primavera. Non era uno stormo, erano solo due e più che a rondini somigliavano a ippopotami, data la stazza. Logicamente non viaggiarono sospinti dalle ali, ma in Lancia Thema targata Torino.
Uscirono dall’autostrada e seguendo le frecce puntarono dritto in centro. In viale Corradino di Svevia si accostarono al marciapiede e chiesero a una vecchina come si arrivasse a via Castello. La vecchina, che era forse un po’ sorda, non capì e dovettero ripeterle la domanda.
La donnetta fornì delle spiegazioni più complicate che utili. Ringraziarono, un po’ delusi, e proseguirono. Adocchiarono però un segnale turistico che indicava la direzione del castello.
Percorsero viale della Croce Rossa. Salirono in via Ovidio, passando davanti alla grotta dov’era ingabbiata una coppia di aquile. Quello al volante le notò di sfuggita.
«Minchia», esclamò, «le aquile».
«Dove?».
«Là, dentro una specie di grotta. Non le vedesti?».
«No».
Sbucarono in piazza Battaglione Alpini. Alla loro sinistra, immersa nel verde del grande parco, baluginò la sagoma di granito della fortezza.
«Ecco il castello», disse quello che guidava.
Girarono intorno alla Fontana Luminosa e si fermarono ai bordi del parco. Domandarono a un vigile dove fosse via Castello.
«È quella lì», additò il vigile.
«Ma c’è il divieto d’accesso», obiettò il guidatore.
«Sì. Vi conviene andarci a piedi».
Scesero dalla macchina. L’uno era un metro e sessantacinque per novanta chili. Il compagno un metro e ottanta per centoventi chili. Misurando a occhio.
Dal bagagliaio ciascuno prelevò una ventiquattrore. Quella del bassotto era in pelle di coccodrillo. L’altro ce l’aveva in pura plastica.
Tagliarono per il parco. L’aria di montagna era frizzante e leggera, imbevuta di luce d’oro, e profumava di resina. Il chiattone, camminando, scrutava la bianca mole del forte spagnolo apparire e sparire tra i rami dei pini.
«Bel posto», disse.
In via Castello cercarono il civico 51. Corrispondeva a un palazzetto fin de siècle restaurato da poco. La tinta avana sembrava fresca, come se avessero appena finito di darla. Sullo stipite c’era la targhetta d’ottone dell’impresa Giuliani. Secondo piano, diceva.
Niente ascensore. Lenti lenti, uno avanti e uno dietro, scalarono le quattro rampe avvinghiati al passamano. Su una porta di cristallo, a caratteri adesivi, trovarono scritto “Impresa Giuliani”.
Entrarono.
Una ragazza batteva a macchina. Sollevò il visino troppo truccato e disse: «Buongiorno».
«Buongiorno. Siamo Carmine Randazzo e Massimo Puleo della SerFin», la informò il chiatto. «Abbiamo un appuntamento con l’ingegnere Giuliani».
«Un momento, prego».
La ragazza si alzò. La gonna era troppo corta e le gambe troppo storte. Volse la schiena agli uomini e traversò la stanza. Carmine Randazzo ammiccò a Puleo, scuotendo il capo all’indirizzo di quelle gambe: uno schifio.
La giovane scomparve in un corridoio. Di lì a poco le sue brutte gambe la riportarono indietro.
«Prego, si accomodino».
La segretaria fece loro strada e li introdusse nell’ufficio del principale.
«Buongiorno!», squillò Randazzo dalla soglia.
«Buongiorno».
Alfonso Giuliani strinse le grasse manone dei suoi ospiti.
«Carmine Randazzo, piacere».
«Alfonso Giuliani. Molto lieto».
«Puleo. Piacere».
«Piacere mio. Prego, accomodatevi».
Si sfilarono i soprabiti mostrando impeccabili divise da uomini d’affari: Randazzo un doppio petto blu e Puleo un doppio petto grigio, ma Giuliani rimase impressionato soprattutto dall’accento siciliano. Si era rivolto a una finanziaria torinese e si aspettava due piemontesi; o almeno gente di lassù, lombardi magari, o tutt’al più veneti, non due pasciutissimi tizi di laggiù. Glielo disse. Randazzo gli rispose con un sorrisetto.
«La Sicilia è bella, ma non dà da vivere a tutti. Emigrammo».
«Da molto?».
«Dieci anni».
«Io dodici», disse Puleo.
«E a Torino vi trovare bene?».
Randazzo ostentò una faccia afflitta. «No. Torino mica è la Sicilia. È...».
«... Torino», concluse Puleo e fece una smorfia.
«Capisco», disse Giuliani, che avrebbe comunque preferito trattare con gente del nord. Della Sicilia e dei siciliani se ne sentivano di cotte e di crude e lui, pur senza averne un motivo preciso, personale, diffidava. Così, per partito preso.
«Fetusa è la vita dell’emigrante», sospirò Randazzo e aprì la ventiquattrore di coccodrillo. Ne estrasse una penna stilografica e un bloc notes, e sorrise. «Allora, ingegnere, ce lo dice per cortesia cosa può fare la SerFin per lei?».
Parlarono fino all’una. O meglio, parlò quasi sempre Giuliani. Di fidi revocati. Di inchieste sulle tangenti che avevano paralizzato gli appalti pubblici. Di villette a schiera che non si sarebbero potute terminare senza un’iniezione urgente di capitali freschi. Disse tutto, senza ritegno, malgrado la diffidenza, malgrado la vergogna, perché era disperato.
Randazzo ascoltò, prese appunti, e pose la domanda cruciale: «Ingegnere, ci dica chiaro e tondo quanto le serve».
«Quattrocento milioni».

Martedì, 29 luglio
Una macchina correva sulla stradina sterrata che portava su a Colle Fiorito. Le gomme raspavano la breccia e innalzavano turbini di polvere. Dall’alto di un’impalcatura Alfonso Giuliani la vide accedere nel recinto del cantiere e bloccarsi sotto l’ombra di una quercia. Riconobbe l’uomo alla guida e gli venne l’impulso di nascondersi. Ma nascondersi dove? All’inferno? Mentalmente imprecò contro la mamma del bambin Gesù e si apprestò a scendere per una scala a pioli.
«Ingegnere», dal basso lo chiamò un operaio, «un signore la cerca».
«Sì, arrivo subito», replicò e mise la scarpa sul primo piolo.
Nino Masciovecchio lo aspettava ai piedi della scala.
«Ciao, Nino».
«Ciao».
Masciovecchio aveva la faccia sudata. Ciocche umide gli si erano incollate alle tempie. Tirò fuori un fazzoletto e si strofinò la fronte e la nuca. Accennò con il muso alle villette in costruzione. «Le avete quasi finite».
Giuliani annuì.
Per qualche istante Masciovecchio rimase a osservare la squadra di muratori che, in fila sull’ultimo ponteggio, intonacavano le pareti esterne, poi sbottò: «Senti, con quelle fatture come la mettiamo?».
«Sei passato in ufficio?», disse Giuliani. «Hai parlato con Randazzo?».
«Ci sono passato, sì». Masciovecchio ripiegò il fazzoletto e se lo cacciò in tasca. «Vuoi sapere che mi ha detto?».
Naturale che non voleva saperlo. Cioè, se l’immaginava benissimo.
«Lei non mi deve scassare la minchia, ecco che mi ha detto. Alfo’, di’ a quel trippone che se non mi paga io metto tutto in mano all’avvocato».
«Ssst, abbassa la voce».
«E no che non l’abbasso. Cavolo, ormai avanzo quasi dodici milioni, ce l’avrò pure il diritto di alzare la voce, no?».
Giuliani lo prese per un braccio e lo spinse verso la quercia dove Masciovecchio aveva posteggiato l’auto.
«Parla piano, per favore, ci sono gli operai».
«E be’? Mi frega tanto a me se sentono».
«Ma non capisci, sono siciliani. È tutta gente loro».
Masciovecchio lo fissò stupito. «Pure gli operai?».
Giuliani confermò con un colpetto di ciglia.
«Tutti?».
«Tutti».
«E quelli che tenevi prima?».
«Licenziati».
Masciovecchio scosse la testa. Una goccia di sudore in bilico sulla punta del naso cadde a terra. «Alfo’, ma che razza di soci ti sei trovato?».
«Non lo so. Ti giuro su mia figlia che non lo so».
«Non lo sai, o fai finta di non saperlo?».
«Che vorresti dire? Tu mi conosci da vent’anni. Ti sembro tipo io da...».
«Sì, ti conosco, però...».
«Però?».
«Niente, solo che...». Masciovecchio infilò una mano in tasca e impugnò il fazzoletto. «Pensavo a Ludovici».
«E adesso che c’entra Ludovici, scusa».
«Gliel’avete pagata la sabbia? Sii sincero».
Giuliani non rispose.
Masciovecchio si passò il fazzoletto sulla fronte e sulle guance. «È venuto pure lui a bussare a quattrini? Di’ la verità».
«Be’...».
Masciovecchio si passò il fazzoletto dietro la nuca. «Domenica notte a Ludovici hanno bruciato un camion».
«Sì, l’ho saputo».
Masciovecchio ripiegò il fazzoletto. «Non è che è stata una pensata di questi amici tuoi, eh?».
«Un momento, un momento. Adesso esageri».
«Esagero?». Rituffò il fazzoletto in tasca. «Preghiamo Dio che sia così».

Mercoledì, 24 settembre
La notizia era stampata in prima pagina. RIPRENDE A PALERMO LA GUERRA DI MAFIA. “Massimo Puleo, 38 anni, è stato ucciso ieri sera a Palermo, nella centralissima via Maqueda, raggiunto alla testa da tre colpi di pistola sparatigli a distanza ravvicinata da un killer che ha agito a bordo di una moto di grossa cilindrata. Il Puleo, nativo di Polizzi Generosa e dipendente di una società finanziaria con sede a Torino, secondo gli inquirenti era da ritenersi personaggio vicino alla cosca delle Madonie...”. L’articolo era corredato da una fototessera della vittima e da una fotografia notturna del suo voluminoso cadavere, ammonticchiato sul marciapiede di via Maqueda al riparo di un lenzuolo bianco.
Alfonso Giuliani lesse il servizio fino in fondo. Lesse le didascalie. Levò gli occhi dal giornale e rivolse uno sguardo spento allo spettacolo incorniciato nella finestra. Il castello di Civita, acquattato nel lago verde dei pini, sfolgorava nella luce settembrina. Alle spalle del forte la cresta del Corno Grande fendeva l’azzurro del cielo. Sì, una lama conficcata in cielo era la montagna grigia. E una lama seghettata, simile a quella, trucidava in quei momenti le viscere dell’imprenditore.
Semplice, semplicissimo, era la fine: l’azienda era andata. Kaputt.
Vide che ora fosse. Le lancette segnavano le nove e mezzo. Uscì dalla stanza, attraversò il corridoio.
«Randazzo non è ancora venuto?», domandò alla segretaria.
«No».
Se l’è squagliata, il verme”. O magari avevano ammazzato pure lui. L’idea gli piacque. Era giusto quel che si meritava, maledetto panzone.
«Vado al cantiere», disse alla ragazza.
Lei annuì.
Prese la macchina e corse a Colle Fiorito.
Si meravigliò di trovare gli operai al lavoro. Non sapevano nulla? Non avevano ricevuto istruzioni? O forse loro, chissà, non c’entravano niente: poveracci sfruttati dai boss.
«Per caso, s’è visto il signor Randazzo?», chiese a due manovali impegnati alla betoniera.
«No».
Veloce, ispezionò il cantiere, tanto per salvare la forma, e rimontò in macchina, deciso a colpire duro. Dopotutto, cos’altro gli rimaneva da perdere? Zero, se non la reputazione di uomo onesto. Dunque, l’avrebbe tutelata.
Raggiunse il tribunale, che era l’edificio pubblico più brutto e moderno della città, e salì negli uffici della procura.
«Desidera?», lo intercettò un usciere.
«Dovrei sporgere una denuncia».
«Vada in fondo al corridoio, oltre quella vetrata».
Avanzò lungo il corridoio e superò la vetrata. “Sezione di polizia giudiziaria”, avvisava una targhetta. Alla prima porta aperta chiese: «Permesso?».
Un giovanotto biondo, in giacca beige e cravatta gialla, sedeva a una scrivania. Gli buttò addosso un’occhiata scostante.
«Sì, desidera?».
«Vorrei sporgere una denuncia».
Il giovanotto sollevò le ciglia. «Ha preparato un esposto?».
«No».
«Allora scriva un esposto e ce lo invii. Oppure, se vuole, può rivolgersi alla questura, o ai carabinieri».
«Guardi, si tratta di mafia».
Il giovanotto non gli negò un’espressione divertita. «Addirittura!». E poi, sempre con lo stesso tono: «Ma ne è sicuro?».
«Se non fossi sicuro non sarei qui».
Lo esaminò dubbioso. «Lei come si chiama?».
«Alfonso Giuliani».
Lo appuntò su un foglietto.
«Risiede a Civita?».
«Sì. Via Cadorna 5».
«Professione?».
«Imprenditore edile».
Lo aggiunse al nome e all’indirizzo e si alzò. «Mi aspetti, torno subito».
Il “subito” durò venti minuti e spiccioli.
«Quando riapparve ordinò: «Venga con me, prego».
Percorsero il corridoio a ritroso. Il giovanotto bussò a una porta. La targhetta annunciava: “Dott.ssa Ida Squarciapini. Sostituto procuratore”.
Era secca e nera, sulla trentina, con un naso a pinna di squalo. Sulla scrivania microfono e registratore erano già in attesa.
Alfonso Giuliani raccontò quanto era successo. Il magistrato assorbì la storia senza muovere un pelo. Il registratore, con ogni probabilità, si emozionò più di lei.
«Bene», disse infine la donna, «vedremo cosa possiamo fare».
Tre giorni più tardi, all’alba, sette poliziotti piombarono in casa dell’ingegnere muniti di un mandato di perquisizione e di un mandato di arresto.

Giovedì, 13 novembre
«Si accomodi», disse il secondino.
Gli spalancò la porta di metallo e l’avvocato Properzi entrò nel parlatorio.
La porta venne richiusa e la serratura scattò quattro volte.
La stanza non era grande. Sulla parete opposta, due finestre a vasistas, con le inferriate. In mezzo al locale, un tavolo con il piano di formica verde, tipo quelli che si usano nelle mense aziendali. Alla parete di destra, una seconda porta di metallo. Nella parete a sinistra, un vetro. Al di là del vetro, un agente di custodia sorvegliava il parlatorio. Vicino al tavolo, Alfonso Giuliani, avvolto in un cardigan di lana blu. Teneva le mani infilate sotto le ascelle e batteva i piedi. Sicuro, faceva freddo. Non c’erano termosifoni.
L’avvocato poggiò sul tavolo la borsa di pelle.
Si scambiarono una stretta di mano e sedettero uno di fronte all’altro. L’avvocato non si tolse né la sciarpa né il loden. Non si tolse nemmeno i guanti.
«Come va, ingegnere?».
«Male. Da una settimana mi perquisiscono la cella ogni tre ore, giorno e notte». Abbassò le palpebre. «È da impazzire».
«Deve tener duro».
«Sì, ci provo, ma è una tortura». Non si radeva da chissà quanti giorni e la tintarella presa al cantiere si era ormai scolorita. Era dimagrito. «Senta, ma è legale tutto questo?».
«Il regolamento glielo consente, quindi è legale. Naturalmente non lo farebbero se la Squarciapini non gliel’avesse... raccomandato».
Alfonso Giuliani domò l’impulso di gridare una bestemmia. Con un gesto brusco sollevò il bavero del cardigan, serrandoselo intorno al collo.
«Stia calmo».
«Sì, sì. Scusi». Si passò una mano sulla fronte. «Ci sono novità, vero?».
L’avvocato Properzi gli rispose con un cenno affermativo.
«Buone?».
Con la testa l’avvocato fece segno di no. Alfonso Giuliani strinse i pugni.
«Hanno scarcerato Randazzo».
«...!».
«Si è pentito».
«...?».
«È diventato un collaboratore di giustizia. Ne è uscito fuori, capisce? Adesso gli pagano uno stipendio e lo portano a zonzo sotto scorta».
«Gesù».
«Non solo, ma l’ha messa nei guai. Guai seri, dico».
«A me?».
L’avvocato annuì.
«Un momento, un momento. Io sono andato a denunciarlo, santo Iddio».
«D’accordo, ma la Squarciapini la interpreta come una mossa da lei tentata per salvarsi in extremis».
«Ma è scema?».
«No, scema no. È ambiziosa. Vedesse i giornali come la incensano. È l’eroina che ha stroncato le infiltrazioni mafiose».
«E il mafioso sarei io? Ma sono usciti pazzi?».
L’avvocato estrasse un fascicolo dalla borsa e squinternò i fogli finché non ritrovò quello che cercava. «Ecco cosa ha dichiarato Randazzo. A febbraio lei si sarebbe recato a Palermo per...».
«A Palermo? Io? Ma se non ci sono mai stato in vita mia. Glielo giuro su mia figlia, avvocato. Mai stato in Sicilia».
«Randazzo invece non solo sostiene il contrario, ma aggiunge che a Palermo lei avrebbe incontrato un certo...», fece scorrere un dito sul foglio, «Aricò. Michele Aricò».
«E chi è?».
«Stando ai verbali sarebbe un personaggio di spicco della cosca delle Madonie».
«Gesù. E come l’avrei conosciuto?».
«Randazzo questo non lo spiega. Dice però che lei avrebbe offerto ad Aricò la disponibilità dei suoi conti bancari per consentirgli il riciclaggio di denaro sporco».
«Assurdo. Le banche mi avevano già bloccato i conti correnti. Non sarebbe stato tecnicamente possibile».
«Sì, tuttavia resta il fatto che lei è entrato in società con loro».
«Con loro... con la SerFin».
«Appunto».
«Ma scusi, dovevo sognarmelo che dietro la SerFin si nascondeva la mafia? Ricevetti un dépliant pubblicitario, come se ne ricevono tanti. Spedito da Torino, badi bene, da Torino. Telefonai e a fine aprile si presentarono Randazzo e Puleo. Come potevo immaginare che erano mafiosi? Si dichiararono disponibili a finanziare la mia impresa, purché gli cedessi il cinquanta per cento delle quote. Certo, era un accordo tutto a loro vantaggio, ma non avevo scelta, le banche stavano per saltarmi addosso. Oltretutto, quando andammo dal notaio per la cessione delle quote e deliberare l’aumento di capitale, Randazzo si presentò con tanto di certificato antimafia».
L’avvocato radunò i fogli sparsi sul tavolo e li rimise nella borsa. «Presenterò al gip istanza di scarcerazione. Secondo me possiamo convincerlo, ma servono argomenti solidi». Strofinò ripetutamente il pollice contro l’indice, occultando la mano con la borsa, di modo che la guardia carceraria che stava al di là del vetro non potesse vedere. «Sa, il giudice Flati ha il vizio delle carte».
Alfonso Giuliani posò uno sguardo immobile in faccia al suo difensore. «E quanto servirebbe?».
«Bastano dieci milioni. Guardi, parlo per esperienza diretta».
«Dieci milioni, eh? E dove li prendo, li vinco al lotto?».
«Be’, forse suo suocero...».
«No, no».
«Ma perché? Avremmo la garanzia di ottenere almeno gli arresti domiciliari».
«No, no. Mio suocero già paga i suoi onorari. Non posso chiedergli anche questo».
L’avvocato sospirò. «Come vuole». Fece un cenno all’agente seduto oltre il vetro per avvertirlo che il colloquio era concluso. «La saluto. E mi raccomando, tenga duro».
Alfonso Giuliani trovò la forza di abbozzare un sorriso. «Sì, stia tranquillo».
S’impiccò quella notte, legando alle sbarre della finestra una striscia di lenzuolo attorcigliata. La forca era rudimentale ma funzionò a dovere. Mentre dimenava gli arti negli ultimi sussulti credette di vedere sua figlia in lacrime. «Perdonami», le disse, senza accorgersi che dalla bocca non gli usciva alcun suono.









sabato 18 maggio 2013

Il potere e la legge


L’Italia, si vocifera, sarebbe la patria del diritto. Al punto che, sostengono i buontemponi, da noi le norme s’interpretano però non si applicano. Ma troppa scienza, si sa, uccide il buonsenso.
Scherzi a parte, nello stivale la giustizia gode del raro privilegio d’essere considerata uno dei più scadenti servizi resi dalla repubblica italiana ai suoi cittadini. Ciò ha effetti sociali devastanti, giacché l’inefficiente tutela dei diritti affievolisce lo spirito di legalità. Mafia, stidda, ’ndrangheta, camorra e sacra corona unita, ovviamente, ringraziano.
Le ragioni, come al solito, sono di squisita natura tecnica e nulla hanno a che fare con una non meglio precisata avversità della sorte.
Armiamoci di un pizzico di pazienza e analizziamo il problema. Non ci vuole molto, basta saper leggere. Basta soprattutto saper leggere il secondo comma dell’articolo centouno della nostra carta costituzionale, che recita: ‘‘I giudici sono soggetti soltanto alla legge’’.
Qual è il significato di tale principio?
Le personcine istruite risponderanno in massa che la norma stabilisce l’indipendenza della magistratura, poiché al di sopra del giudice c’è solo la legge. La legge e nient’altro. La legge e nessun altro.
Risposta non sbagliata ma incompleta. A voler essere pignoli, infatti, non sarebbe male ricordare che l’indipendenza della magistratura è in realtà sancita dal primo comma dell’articolo centoquattro (andatelo a leggere, se non ci credete), mentre l’indipendenza di ogni singolo magistrato è assicurata dal primo comma dell’articolo centosette, che ne dispone l’inamovibilità.
‘‘E allora, sapientone’’, mi chiederanno con sarcasmo le personcine istruite, ‘‘quale sarebbe il vero significato del secondo comma dell’articolo centouno?’’
La risposta li lascerà di stucco. Se i giudici sono soggetti soltanto alla legge vuol dire che non sono soggetti al precedente giurisprudenziale. Il che, tradotto in termini terra terra, significa che ogni giudice è libero d’interpretare soggettivamente le norme. Ossia, tradotto in termini ancor più terra terra, il potere conferito dalla nostra costituzione al giudice è il massimo possibile, avendogli concesso piena libertà nell’interpretare la norma e nella conseguente applicazione.
Intendiamoci, in tutto ciò non vi è niente di scandaloso. E’ infatti tipico della tradizione giuridica romano germanica, cui noi apparteniamo, svincolare il giudice dal precedente, essendo invece caratteristico del sistema giuridico anglosassone sottoporre il giudice alla regola del precedente.
Gli effetti di questa scelta non sono tuttavia innocui. Viene infatti meno la cosiddetta certezza del diritto. E cioè, in soldoni, la piena libertà d’interpretazione delle norme determina decisioni, a parità di fattispecie, non sempre coincidenti, bensì variabili da tribunale a tribunale.
Già mi sembra d’udire l’obiezione dei grandi scienziati che insegnano diritto nelle nostre università: ‘‘Ma noi abbiamo la corte di legittimità’’, mi rinfacceranno.
Ma il punto è proprio questo. Neanche la corte di cassazione è vincolata al proprio precedente e non sempre, oltre tutto, la sua giurisprudenza è costante.
La soluzione a questo grosso problemino appare dunque semplice. E’ indispensabile vincolare la corte di cassazione al proprio precedente e obbligare le corti inferiori ad attenersi al precedente della corte di cassazione. Insomma, il secondo comma dell’articolo centouno va riscritto, aggiungendoci qualcosa.
Se poi tanto ci piace l’incertezza del diritto, lasciamo tutto com’è.



sabato 11 maggio 2013

Satana e Cristo


Si erano messi in viaggio alle tre del mattino. Subito dopo l’alba il sole aveva cominciato a rovesciare calore abbagliante sul deserto, smorzando la frescura della notte. Il largo strato d’asfalto, diviso a metà da quella interminabile striscia bianca, fuggiva su lunghi rettilinei e ampie curve rare. Ai bordi, semisepolte dalla sabbia, lamiere arrugginite di automobili e carcasse di animali accoglievano sconfortate le occhiate dei viaggiatori. La Land Rover ronzava veloce.
«Ti spiace prendere la fiaschetta?».
Il ragazzo tirò fuori dal ripostiglio del cruscotto la fiaschetta del cognac, svitò il tappo e la porse a Satana.
«Prima tu».
Il ragazzo sorseggiò qualche goccia.
Satana strizzò l’occhio e a sua volta mandò giù un sorso robusto, tenendo nella mano destra la fiaschetta e il volante con la sinistra. Le ascelle della sua sahariana erano zuppe di sudore.
«Una cinquantina di chilometri e ci siamo», disse. Si lisciò la barba grigio rossa.
Quando arrivarono Satana accostò la Land Rover sul ciglio e scese calcandosi in testa un cappellaccio a tese larghe. Non distante dalla strada, su una duna, si scorgeva la punta di una tenda affondata nel silenzio e nella solitudine.
Camminarono sulla sabbia e s’inerpicarono sulla duna seminando una scia d’impronte. Non lo videro subito perché stava dall’altra parte, all’ombra della tenda, seduto sui talloni e le mani sulle ginocchia. I suoi capelli erano lunghi e sporchi e la faccia era arrostita dal sole e incipriata da una sottile patina di polvere gialla. Indossava una lurida camicia sfilacciata e blue-jeans logori. Straordinariamente le sue mani lunghe e senza nodi erano pulitissime.
Gli si pararono davanti, ma Cristo non sollevò gli occhi castani, non grandi e molto incassati nelle orbite, che continuarono a fissare lontano qualcosa d’invisibile. Satana fece cenno al ragazzo, come per dirgli: “Non far rumore, non dobbiamo disturbarlo”. E aspettarono accovacciati a terra dieci o quindici minuti prima che Cristo parlasse:
«Perché sei qui? Che vuoi?».
A quella voce stridula il ragazzo sussultò.
«Be’...», rispose Satana con un sorrisino di circostanza e si carezzò la barba.
Cristo annuì più volte con la testa, lentamente, avanti e indietro, e sembrava che tutta la rassegnazione e l’infelicità del mondo si fossero concentrate in quel gesto, avanti e indietro.
«Ti presento un amico», gli disse Satana e il ragazzo e Cristo si strinsero la mano.
Poi tutti e tre smontarono la tenda, aiutarono Cristo a riempire lo zaino e s’avviarono alla jeep.
Ripercorsero la strada infuocata nel senso inverso. Sotto i loro occhi scivolarono i lunghi rettilinei e le carcasse di macchine e di cammelli e l’interminabile striscia bianca. Satana offrì il cognac a Cristo.
«Cognac cognac o brandy?».
«Cognac cognac».
Allora bevve e disse: «Buono».
Ogni tanto appariva un camion, una volta incrociarono un’autocolonna militare. “Mai nessuno gli ha parlato così”, pensò il ragazzo. “Che vuoi? A lui? Che vuoi? Che vuoi?”. Il brontolio del motore tappò loro le orecchie.
Dopo diverse ore il deserto si dileguò e la Land Rover salì serpeggiando su colline addobbate dal verde degli agrumi e degli olivi. Cristo sonnecchiava e Satana gli scosse con delicatezza il braccio perché gustasse, dalla sommità delle colline, lo spettacolo della chiazza rossa del sole che naufragava nelle acque lisce del mare. La strada si tuffò in basso, verso la città.
Satana abitava nella periferia di lusso, dove i ricchi costruivano le ville sul limite della spiaggia. La governante, allegra e scherzosa, uscì loro incontro.
Prima di cena fecero una doccia. Mangiarono in silenzio legati da un imbarazzo contro il quale s’infrangeva il brio solitario della governante. Dopo cena Cristo e il ragazzo andarono a letto. Cristo nella camera che gli era stata preparata e il ragazzo, che era il figlio della governante, nella foresteria.
Satana fumò al buio, seduto nella veranda che dava sul mare. La sottile linea della risacca, argentea ai raggi della luna, canticchiava con voce lieve una ninna nanna e, al largo, una catena di lampare tramava il suo inganno ai pesci. Si passò le dita fra i peli grigio rossi della barba.
***
Scavalcando le finestre aperte la luminosità del nuovo giorno si riversò nella stanza. Si svegliò e sbatté più volte le ciglia prima che gli occhi si abituassero alla luce. Allungò la mano sul comodino, dov’era l’orologio da polso. Le lancette segnavano le otto e venti.
Alle otto e mezzo scostò il lenzuolo e si alzò. Sul mare calmo danzavano, a miriadi, pagliuzze d’oro. Si lavò nel bagno personale, attiguo alla camera. Rimase alcuni istanti davanti al guardaroba e alla fine si decise per una giacca a doppio petto blu e un paio di pantaloni bianchi.
Nel soggiorno lo attendeva la colazione già pronta.
«Lui non c’è», gli disse la governante.
Satana notò che l’indistruttibile allegria della donna quel mattino era del tutto spenta.
«Ah sì?». L’aroma del caffè gli solleticò le narici.
«Si è alzato presto e è uscito».
«Ha detto niente?».
«No. Ha bevuto un bicchiere di latte e è andato via».
«Mh».
«Io non ci perderei tanto tempo con quello».
Satana stette per un po’ sovrappensiero, poi disse: «Perché? Che ti ha fatto?».
«Non mi piace».
«Ma se nemmeno lo conosci».
«Lo so. Però non mi piace».
Nel garage montò sulla grossa berlina blu. “Al diavolo”, si disse, “ci si mette pure lei”. Non gradiva essere contraddetto, specie in certe faccende. Prima di partire lasciò girare il motore a basso regime, per scaldarlo. Si diresse verso il centro nello scarso traffico della domenica.
Un’oretta dopo fu di ritorno, con un fascio di giornali e un vassoio di paste. Si sfilò la giacca e allentò il nodo alla cravatta. Lasciò le paste nel frigorifero e prese alcune bottiglie di birra e se le portò assieme ai giornali sulla veranda, dove sedette su una delle poltroncine di vimini.
Il figlio della governante pescava i cannolicchi e Satana udiva lo sbatacchiare delle pinne quando il ragazzo s’immergeva e vedeva lo spruzzo zampillare dal respiratore nel momento che risaliva a pelo d’acqua. Al largo gli scafi da diporto scivolavano sulla trasparente distesa celeste.
Lesse i giornali e sorseggiò la birra. Lo chiamarono per il pranzo e lui si alzò dalla poltroncina di vimini per trasferirsi al tavolo apparecchiato in soggiorno e dopo pranzo tornò sulla veranda, per sprofondare di nuovo nella sua inviolabile abitudine domenicale, tra il fruscio dei giornali e il tintinnare delle bottiglie di birra.
Smise quando il sole con il suo ampio mantello di fuoco s’inabissò dietro l’orizzonte e la luce divenne troppo fioca perché si potesse leggere. Si annodò la cravatta e nel salotto raccolse la giacca dalla poltrona dove l’aveva lasciata al mattino. Chiamò il ragazzo.
«Di’ a tua madre che stasera ceni con me».
Partirono sulla berlina blu, verso la città, mentre il residuo chiarore del giorno si spegneva completamente. Posteggiò davanti alla cattedrale e scese, ordinando al ragazzo di aspettare un momento.
Rastrellò con gli occhi la semioscurità delle navate. Non era ora di funzione e non c’era quasi nessuno. Lo intravide inginocchiato a un banco di fronte all’altare. Si tirò con dolcezza i peli della barba rossiccia e gli si avvicinò badando di non far rumore. Il giovane si reggeva le tempie con le mani affusolate. Ancora una volta Satana attese che Cristo gli si rivolgesse per primo.
«Non molli, eh?».
«Be’...».
Sbalordito il ragazzo li vide uscire dal grande portale. Entrando in macchina Cristo lo salutò con un «Salve» e un sorriso di ghiaccio.
«Ce ne andiamo in un posticino chic», disse Satana, «dove si mangia pure bene».
Traversarono la città correndo verso le colline dell’entroterra. “Mette paura”, pensò il ragazzo. “Mette proprio paura”. Per mezz’ora i fari illuminarono i muretti di sostegno e il fondo sdrucciolevole di una salita stretta e ripida. Nessuno aprì bocca, prigionieri del solito imbarazzo.
Poco prima della cima Satana accostò la berlina dietro a un serpente di auto in sosta. Un panorama di mille luci galleggianti su un velo di delicata nebbiolina offrì ai loro occhi la mappa fosforescente della città notturna.
Salirono i gradini di una scala a lastre d’ardesia che si srotolava fra altissimi fusti di pino. Nel locale la raffinatezza dell’arredo, l’eleganza delle signore sedute ai tavoli, i modi distinti del personale trionfavano in un esplosione di sfarzo. Un cameriere si mise subito a disposizione. Più di un cliente riconobbe e salutò Satana.
«Voglio farti un discorsetto serio», disse Satana a Cristo e gli parlò per tutta la durata della cena.
Parlò con calma e con simpatia. Disse cose dure, ma sempre con cortese simpatia, sempre con tono paziente. Promise a Cristo il suo aiuto. Su due piedi, se solo glielo avesse chiesto, avrebbe potuto procurargli un lavoro. Doveva abbandonare quella vita da vagabondo. Ci voleva coraggio, sissignore, ma Satana lo avrebbe protetto, gli avrebbe fornito un alloggio. Se voleva poteva rimettersi a studiare, poteva scegliere di fare qualsiasi cosa e Satana lo avrebbe aiutato, purché l’avesse smessa con quella vita insensata. Non doveva vergognarsi di se stesso, non era né un fallito né un pazzo. Doveva solo lasciarsi aiutare.
Il ragazzo ascoltò allibito quella preghiera mentre Cristo si rintanava in un mutismo totale.
Quando Satana ebbe concluso la lunga esortazione Cristo ingoiò l’ultimo cucchiaino di macedonia, si asciugò le labbra con il tovagliolo e, scusandosi, si alzò dal tavolo.
Lo videro domandare qualcosa a un cameriere e poi scomparire dietro una porta in fondo alla sala. Allora Satana chiese il conto e dopo aver pagato disse al ragazzo:
«Andiamocene».
Fuori la fragranza della resina s’insinuò nelle loro narici. Ai piedi delle colline la città illuminata dondolava nella sua nebbiolina.
***
Alle nove precise varcò la soglia del suo ufficio, al ventinovesimo piano del palazzo di vetro e acciaio della Società Industrie Chimiche Riunite. La segretaria aveva disposto i quotidiani sulla scrivania e proprio in quel momento stava infilando lo stelo di una rosa, che doveva essere rinnovata ogni giorno, nel piccolo vaso cinese. Lo colpì la grazia spigliata della giovane donna, in tailleur estivo nocciola chiaro, e del suo sorriso.
«Sono la sostituta della signorina Marta, signor presidente».
Me l’hanno scelta con cura”, pensò Satana e le disse: «Benvenuta».
«Grazie, signor presidente», rispose lei marcando il sorriso garbato e uscì dalla stanza.
Sedette alla scrivania e diede uno sguardo all’agenda. Si sentiva pigro, deconcentrato. Sfogliò i giornali, limitandosi a passare frettolosamente in rassegna i titoli. Vide l’ora e lanciò un’altra occhiata all’agenda.
Si alzò e con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni si avvicinò alla finestra. Annunciando l’afa imminente una luce di stagnola si spandeva sui tetti delle case e dei palazzi, sul porto, sulle macchie verdi dei giardini pubblici.
Pensava al giorno prima. Scosse la testa. “Che razza di week-end”, si disse.
Un traffico frenetico di gente e di automobili, minuscole da lassù, congestionava le vie e le piazze. Si carezzò la barba e proprio in quel momento gracchiò il citofono.



sabato 4 maggio 2013

L'attesa


Fuori, ormai, era sorto il sole. Si sedettero e aspettarono.
La prima mattina li avevano picchiati. Dormivano all’ora di colazione.
Con scrupolo Helmut e Wilhelm avevano evitato di farsi cogliere di nuovo in fallo. Si alzavano appena schiariva, si lavavano, indossavano le loro tenute, rassettavano le brande e alle sei in punto sedevano al tavolo, braccia conserte, in attesa.
Distribuivano la colazione dalle sei alle nove, ogni giorno a un’ora diversa. L’attesa poteva quindi durare anche tre ore. Magari alla cella vicina li sentivi andare alle sei, e a te venivano alle nove. Se non volevi le manganellate dovevi aspettare, braccia conserte, seduto al tavolo.
Quel martedì la porta si aprì quasi subito. Il secondino entrò. Non lo seguiva l’inserviente con le tazze di caffellatte, ma un unterscharführer e due soldati della milizia di sicurezza.
«In piedi», ordinò il secondino.
Ubbidirono.
L’unterscharführer reggeva un foglio battuto a macchina. «Helmut Weiss e Wilhelm Lutze», lesse, «c’è un ordine di trasferimento per voi».
Gli misero i ceppi ai polsi e un anello di ferro alle caviglie. Poi li incatenarono, legandoli l’un l’altro mani e piedi con due catene lunghe circa un metro. Il capo di ogni catena venne assicurato ai ceppi e agli anelli da un lucchetto.
«Andiamo», disse l’unterscharführer.
Uscirono nel corridoio e camminarono in un gran rumore di ferraglia fino al cancello in cima alle scale. Un secondino infilò la chiave nella serratura. Si udirono tre scatti. Il cancello cigolò.
Scesero due rampe e giunsero a pianterreno. Altro cancello. Altro secondino. Altra chiave. Oltre il cancello c’era una porta. Oltre la porta, il cortile.
In ventisette giorni di prigionia non li avevano mai condotti all’aperto. Helmut, avvinto dalla brusca potenza di tutta quella luce, ebbe l’impressione d’essere nudo. La frescura del primo mattino gli alitò sulla pelle. Un’avidità golosa per tutto quanto gli si parava davanti gli divorò gli occhi. Rimase stupefatto da come ogni cosa appariva diversa. Persino il cielo aveva un altro sapore dal cielo che filtrava nella sua cella attraverso le sbarre.
«Guarda», mormorò Wilhelm e con un cenno del capo indicò al compagno il muro alla loro destra.
Il plotone d’esecuzione, già schierato, aspettava i condannati.
«Tranquilli», disse l’unterscharführer, «non è per voi».
Li scortarono alla porta carraia, dov’era parcheggiato un cellulare.
L’unterscharführer aprì lo sportello posteriore. «Su, salite», li sollecitò.
Si arrampicarono a bordo con qualche difficoltà, ostacolati dalle catene, e si sistemarono in fondo al sedile. I soldati montarono appresso a loro. L’unterscharführer sbatté lo sportello e salì nella cabina di guida, a fianco all’autista. Il cellulare si mosse.
Il veicolo superò la carraia e discese il vialetto d’accesso. S’immise nella Schillstrasse, prendendo a destra. All’incrocio con la Bockler, mezzo chilometro dopo, si fermò al semaforo.
«Dove ci porteranno?», chiese Wilhelm.
Helmut, gli occhi incollati al finestrino, intravedeva al di là della grata la facciata a mattoncini del Bayernkolleg, in parte nascosta dagli abeti. «Non lo so».
«Zitti», disse un soldato con voce stracca, «non potete parlare».
Helmut lo guardò. Il militare gli puntava la maschinenpistole.
«Dove ci portate?», chiese Wilhelm all’altro soldato.
Questi si alzò e gli andò vicino. Era un uomo imponente. S’indovinavano, sotto la divisa nera, i muscoli di un gladiatore.
Wilhelm ripeté la domanda: «Dove ci portate? Perché non ce lo dite?».
«Dovete stare zitti», ringhiò il gigante. «Lo capite sì o no?».
«Va bene», disse Wilhelm. «Scusi».
«Bravo», lo lodò il soldato e gli sparò un cazzotto.
La testa di Wilhelm volò all’indietro e con un tonfo urtò il tramezzo di lamiera. Dal naso colò il sangue.
A Helmut l’impulso di protestare gli si strozzò in gola. Il soldato lo minacciò con il pugno.
«Ce n’è anche per te, se fiati».
Intanto il cellulare, venuto il verde, era ripartito svoltando a destra, in direzione del centro. Attraversò il ponte sul Lech e attaccò la salita della Stadtbachstrasse, costeggiando le mura medievali. Alla Frauentor prese a sinistra, verso il duomo. Oltrepassò il duomo e proseguì lungo la Karolinen fino alla Rathausplatz. I fruttivendoli avevano già allestito le bancarelle e le massaie più mattiniere affluivano al mercato. Gli occhi di Helmut corsero dall’una all’altra, nella speranza di scorgere Liselotte. Non la vide. Era comunque un sogno quasi impossibile, perché sua moglie non usciva mai a far la spesa così presto.
Il cellulare imboccò la Maxmilian. Sotto lo sguardo di Helmut sfilarono la farmacia del dottor Kalternbrunner, la tabaccheria della signora Müller, l’albergo Drei Mohren, la banca Fugger. Di seguito alla banca venne la palazzina verde pastello dove al secondo piano c’era il suo appartamento. Adocchiò le finestre. Quella della camera era spalancata. Dentro di sé Helmut pregò, implorò che Liselotte si affacciasse. Il cellulare avanzò veloce e la palazzina verde pastello scomparve.
Alla chiesa di sant’Ulrico il cellulare girò a sinistra e si tuffò giù per la Milchberg. A metà discesa s’imbucò nel cortile del comando provinciale della milizia.
L’unterscharführer aprì lo sportello e i soldati balzarono a terra.
«Forza, fuori», disse l’unterscharführer.
Wilhelm e Helmut scesero, impacciati dalle catene.
Il comando della milizia era un edificio pitturato di grigio. Scorta e prigionieri vi penetrarono per un ingresso secondario. Salirono in ascensore al quarto piano. S’inoltrarono in un corridoio interminabile e, arrivati alla fine, il sottufficiale bussò a una porta.
«Avanti», disse una voce.
L’unterscharführer schiuse la porta. «Trasferimento eseguito», riferì.
«Bene, li faccia attendere».
L’unterscharführer richiuse. Indicò a Wilhelm e a Helmut una panca. «Sedetevi».
L’attesa non fu uno scherzo. Di quando in quando Helmut sbirciava l’orologio e misurò il tempo che rimasero inchiodati sulla panca: due ore e trentacinque minuti. Quella di umiliarti con lunghe attese, rifletté, doveva essere una tecnica studiata ad arte. Come per la colazione in carcere.
I militi, seduti a una panca di fronte, tenevano le maschinenpistole spianate. L’unterscharführer invece se ne stava presso una finestra a guardare il panorama. Ogni tanto nel corridoio rimbombavano i passi di qualche ufficiale che entrava o usciva da una delle porte, calpestando il pavimento con gli stivali lucidi.
Wilhelm era riuscito a tamponare l’emorragia. Aveva frenato il sangue tappandosi il naso con la manica. Il labbro superiore e le narici erano adesso impiastricciate di rosso, come pure la manica della casacca, e alcune gocce gli erano schizzate sul petto.
Helmut avrebbe voluto posargli un braccio intorno alle spalle, ma non poteva. Avrebbe voluto rivolgergli una parola di conforto, ma non osava.
La porta si aprì di colpo e sul corridoio si affacciò un rottenführer. Gettò un’occhiata ai prigionieri. «Sono loro?».
«Sì», rispose l’unterscharführer.
«Fateli entrare».
Entrarono. La stanza era ampia. L’arredamento era costituito da una scrivania di legno scuro e da armadietti di metallo. Accanto alla scrivania stava un tavolinetto con la macchina da scrivere. La poltrona dietro la scrivania era vuota.
Il rottenführer prese posto al tavolinetto. Helmut e Wilhelm vennero fatti sedere davanti alla scrivania, su due sedie affiancate. I soldati e l’unterscharführer restarono in piedi, alle spalle dei detenuti.
Questa volta l’attesa durò meno di un’ora. Cinquantasei minuti, cronometrò Helmut. Le dita del rottenführer li scandirono tamburellando sul tavolinetto.
D’improvviso il graduato scattò sull’attenti. «Ritti», urlò.
Nella stanza era apparso un obersturmführer.
I soldati e l’unterscharführer batterono i tacchi. Wilhelm e Helmut si tirarono su in uno scroscio di catene.
L’ufficiale era giovanissimo. Non dimostrava più di vent’anni. Si tolse il berretto e si accomodò nella sua poltrona.
Disse, rivolto a Helmut e a Wilhelm: «Prego», e con un gesto della mano li invitò a sedere.
Si sfilò i guanti di pelle nera. «Seduto», comandò al rottenführer.
Il rottenführer eseguì fulmineo, da marionetta ben addomesticata.
La faccia di Wilhelm, sporca di sangue, incuriosì l’obersturmführer. «Lei ha avuto un incidente».
«Sì».
L’ufficiale sorrise. «Cose che capitano».
Wilhelm non obiettò nulla.
L’ufficiale trasse un fascicolo da un cassetto e lo sfogliò con metodo, pagina per pagina.
«Chi di voi due è Wilhelm Lutze?».
Wilhelm trasalì. «Sono io».
«Bene. Lei è giornalista, vedo».
«Sì».
«Bene. E lei è Helmut Weiss», disse a Helmut.
«Sì», disse Helmut.
«Giornalista anche lei».
«Sì».
«Bene. Oggi pomeriggio sarete processati».
«Processo?», disse Helmut. «E qual è l’accusa?».
«Non l’immagina?».
«No».
L’obersturmführer sorrise. «Lei conosce l’articolo quattrocentosedici bis del codice penale, vero?».
I muscoli e le ossa di Helmut smisero d’essere muscoli e ossa e divennero una gelatina fredda. Conosceva l’articolo quattrocentosedici bis. E conosceva la pena. Era la prima cosa che t’insegnavano ai corsi di giornalismo.
«Lo conosce?».
«Sì».
L’ufficiale sorrise.
«A… assurdo», balbettò Wilhelm.
«Cosa è assurdo?», gli chiese l’ufficiale.
«L’accusa. Secondo lei noi… io avrei letto o diffuso pubblicazioni proibite?».
«Sì, esatto».
«Ma è ridicolo!».
L’ufficiale sorrise. «Ridicolo? E perché?».
«Perché sono iscritto al partito da ventitré anni. Ventitré. Si rende conto, sì?».
L’ufficiale scosse lievemente il capo, divertito. «E questo cosa c’entra?».
«C’entra eccome. L’anno scorso mi hanno nominato segretario regionale del sindacato giornalisti. Per lei non significa niente?».
L’ufficiale gli piantò addosso uno sguardo celeste così puro da lasciare sgomenti. «Signor Lutze, abbiamo le prove».
«Prove? Quali prove?».
L’obersturmführer sorrise. «Eccole». Tolse dal fascicolo un ciclostilato e lo mostrò reggendolo tra il pollice e l’indice. «Lo riconoscete?».
Wilhelm chinò il capo.
Helmut si mordicchiò un labbro.
«Lo riconoscete?».
«No», mormorò Wilhelm.
«No, eh?».
«No».
«E lei, signor Weiss?».
«No», si affrettò a rispondere Helmut. Non riusciva a spiegarsi come la milizia ne fosse informata.
«Mentite, ma non importa».
Dettò al rottenführer il testo del verbale. Batterlo a macchina fu un’operazione rapidissima. Il testo si componeva di una sola frase: “Gli accusati respingono ogni addebito”. Il rottenführer porse tre copie al superiore.
«Firmate».
Firmarono.
«Conduceteli nella sala delle udienze».
L’unterscharführer batté i tacchi. «Signorsì, obersturmführer».
La sala delle udienze si trovava due piani più sotto. Era un locale vasto quanto una palestra, deserto come una distesa polare. Dalle vetrate fluiva una luce nitida che si spargeva ovunque. Sulla parete in fondo era dipinto un teschio nero e il motto: “Il mio onore si chiama fedeltà”.
I militi rinchiusero Helmut e Wilhelm nella gabbia degli imputati.
Iniziò una nuova attesa.
Helmut non sbirciò l’orologio, nemmeno una volta. Aveva la gola secca, il cuore secco. Fissava il vuoto. Avrebbero potuto tenerlo un secolo in quella gabbia, non se ne sarebbe accorto.
Nell’aula entrò uno sturmführer. I suoi passi risuonarono come colpi di tamburo. Si avvicinò alla gabbia. I soldati e l’unterscharführer batterono i tacchi.
«Sturmführer Ohlendorf», si presentò. Era un giovane bruno, altissimo. «Sono il vostro difensore». E andò a sedersi a un tavolo.
Di lì a poco entrò l’obersturmführer, con il fascicolo in mano. Altri passi decisi. Altro sbattere di tacchi. Pure lui sedette a un tavolo.
Subito dopo nella parete in fondo si aprì una porta. Ne uscì uno sturmbann. «La corte», gridò.
Si misero tutti sull’attenti. Dalla porta comparvero un oberführer e due standartenführer, elegantissimi nelle nere uniformi dal taglio impeccabile. Avevano facce d’acciaio, mascelle d’acciaio, occhi d’acciaio. Sedettero al lungo tavolo loro riservato.
Con sobrie movenze del capo e del braccio l’oberführer consentì agli astanti di rimettersi seduti, e ordinò: «Si dia inizio al dibattimento».
Lo sturmbann spiegò un foglio e lesse: «Procedimento numero duecentoventisette, contro Weiss Helmut e Lutze Wilhelm, imputati dei reati di cui all’articolo quattrocentosedici bis del codice penale».
«L’accusa esponga i capi d’imputazione», ingiunse l’oberführer.
L’obersturmführer si alzò. «L’otto maggio scorso l’ufficio politico di questo comando attuò un’azione di prevenzione. A tutti i redattori del quotidiano “Volks Tageblatt” fu recapitato presso la sede del giornale un plico anonimo contenente una rivista stampata a ciclostile. La rivista, di contenuto letterario e denominata “Fabula”, non recava gli estremi dell’autorizzazione alla stampa rilasciata dal ministero della cultura. Entro le ventiquattr’ore successive tutti i redattori del “Volks Tageblatt”, eccettuati gli imputati, denunciarono il fatto alla polizia, consegnando la copia loro pervenuta. Il giorno nove maggio la signora Liselotte Weiss, consorte dell’imputato Weiss, si recò presso la stazione di polizia di Karlstrasse e consegnò una copia strappata, dichiarando che il marito l’aveva buttata nel secchio delle immondizie dopo aver dedicato un’intera notte a leggerla. Durante l’istruttoria gli imputati, malgrado le prove a loro carico, hanno respinto ogni addebito. Chiedo pertanto, anche in ragione di quest’ultima circostanza, che essi vengano riconosciuti colpevoli dei reati di cui all’articolo quattrocentosedici bis del codice penale e condannati alla pena ivi prevista».
«La parola alla difesa», disse l’oberführer.
Lo sturmführer Ohlendorf si elevò in tutta la sua altezza e dichiarò: «La difesa ritiene che non sussistano elementi a favore degli imputati».
«Bene», disse l’oberführer, «la corte si ritira per deliberare».
«Ritti», strillò lo sturmbann.
I membri della corte scomparvero nella porta in fondo all’aula. Rientrarono dopo cinque minuti.
«La corte», sbraitò lo sturmbann.
Di nuovo tutti sull’attenti.
L’oberführer lesse la sentenza: «Questo tribunale riconosce gli imputati Weiss Helmut e Lutze Wilhelm colpevoli dei reati loro ascritti e li condanna alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena. La sentenza verrà eseguita entro le ore otto di domani. L’udienza è tolta».
Li riportarono in carcere.
Vi giunsero mentre distribuivano la cena. Benché a digiuno dal giorno avanti, non toccarono cibo. Si stesero sulle brande.
Calò la notte.
Non dormirono. Ugualmente la notte se ne scappò in fretta.
Schiarì.
Wilhelm si alzò, andò al lavandino e si sciacquò il viso, imitato da Helmut.
«E pensare», proruppe Wilhelm, «che quella roba nemmeno l’ho letta. L’ho stracciata e l’ho gettata nel cestino».
«Erano poesie», gli disse Helmut. «Nient’altro che poesie».
Fuori, ormai, era sorto il sole. Si sedettero e aspettarono.