sabato 26 ottobre 2013

I vizi e le illusioni

Ho letto ormai da alcune settimane il romanzo d’esordio di Carmen Scotti, intitolato ‘‘Il vizio’’(Aliberti Editore, 2008), e, detto in tutta sincerità, mi risulta difficile togliermelo dalla testa. La ragione è piuttosto semplice e si condensa in una manciata di parole. La Scotti, giovane e fresca autrice messinese, possiede qualità letterarie tutt’altro che comuni.
Premetto che ho qui usato l’aggettivo “letterarie” senza alcuna intenzionalità offensiva. Benché sia assolutamente vero che di solito il termine “letterario” indica per me non una qualità bensì un difetto, stavolta sono incappato nell’eccezione che conferma la regola. Insomma, il fatto che la Scotti scriva in maniera gradita ai critici non è di nessun ostacolo al mio meditato apprezzamento.
Il successo di critica, per altro, non si è lasciato attendere. Basti pensare che Gian Paolo Serino, su ‘‘La Repubblica’’, elogiando i pregi del romanzo non ha avuto remore a presagirne le inevitabile conseguenze. E cioè che ‘‘Il vizio’’ diventerà forse un “caso editoriale”. I critici, naturalmente, da quei solerti compilatori di etichette che sono, non sono riusciti neanche stavolta a controllare le loro ancestrali pulsioni, sbizzarrendosi in slogan parecchio coloriti, tipo “Scerbanenco del postmoderno” e “piaceri à la japonaise”. Di risonanze noir, come pure di risonanze erotiche, il libro della Scotti non è scevro, e se i critici lo hanno impacchettato contemporaneamente in due generi diversi il vantaggio è grosso, a ben vedere, in quanto tutta la narrativa è “di genere”. Quella che ama definirsi letteratura ‘‘tout court’’ appartiene in realtà al genere peggiore, il genere che il giallista Gianni Biondillo chiama, con elegante oggettività, “letteratura da salotto”. Ad ogni buon conto ‘‘Il vizio’’, per la felicità dei lettori, tutto è meno che letteratura da salotto.
Ma tralasciamo le boutade dei critici, siano esse “noir” o “à la japonaise”, e volgiamo gli occhi alla nostra giovane autrice. Della sua scrittura fascinosa avevo già avuto sentore leggendo il racconto ‘‘Pregate che non sia inverno’’, apparso sul settimanale ‘‘Cronaca Vera’’, caratterizzato tuttavia da un grumo di mistero che permane anche a lettura finita. Nel romanzo, invece, alla matura densità dello stile si aggiungono, con impeccabile chiarezza, i valori contenutistici. Il particolare che mi ha maggiormente sorpreso è stato il nitido realismo con il quale viene descritta la sessualità maschile, indubbio segno di una capacità “visionaria” o, per meglio dire, di un vigore immaginativo, scaturito da precise conoscenze che nessuno avrebbe mai sospettato una donna potesse avere. Ad esempio io, che sono maschio, se per assurda, denegata ipotesi, come dicono i legulei in tribunale, dovessi occuparmi di sessualità femminile, non saprei proprio a quale santo votarmi. Il punto di vista femminile, in merito, mi sfugge.
A tal proposito la Scotti, in una lettera privata, mi ha fornito una simpatica spiegazione, affermando che “per la sessualità maschile ho basato tutto sulla mia atavica invidia del pene e, a quanto pare, ci ho preso. Se fossi un uomo sarei peggio del signor Tosi (ossia il personaggio principale, nonché antieroe, del suo romanzo), e sarei un essere spregevole in tutto e per tutto”. L’autoironia rende sicuramente onore all’intelligenza della mia giovane collega, va tuttavia presa cum grano salis. Oltre tutto, i miei trascorsi di studioso di epistemologia della scienza economica, e di assiduo frequentatore del pensiero di Karl Raymund Popper, m’impediscono di prestare ascolto alle panzane pseudoscientifiche di Sigmund Freud. La psicanalisi, Popper docet, è utile solo a farsi quattro risate. O a spennare i polli che ci credono.
Chiarimenti ben più ponderati, e illuminanti, Carmen Scotti li ha resi al blog della rivista ‘‘Grazia’’, sia pur schermando la propria cultura con un pizzico di brio giovanile. “Mi intrometto per dirvi – ha dichiarato al blog – che è uscito il mio primo romanzo e che si intitola ‘‘Il Vizio’’. Il libro prende spunto da ‘‘La casa delle belle addormentate’’ di Yasunari Kawabata e parla di un bordello dove le prostitute sono delle quindicenni tenute addormentate da sonniferi e i clienti sono dei vecchi e facoltosi uomini d’affari. Ho provato a tradurre l’erotismo giapponese nella Milano d’oggi e a capire cosa poteva scatenare, nella mente di un ricco uomo d’affari milanese, il contatto con il corpo di una ragazzina addormentata. Il libro mi è costato tantissima fatica, ma l’emozione che si prova a vederlo sugli scaffali delle librerie è impagabile”.
Sappiamo così da quali raffinati lidi si è mossa la creatività della Scotti e a quali approdi, emotivi ed esistenziali, ha puntato la densa scioltezza del suo fraseggio. Tutto ciò realizzato attraverso una struttura narrativa abbastanza complessa. Il romanzo è infatti diviso in due parti, ognuna delle quali utilizza una diversa voce narrante. La prima parte, in terza persona, racconta le avventure dell’anziano satiro, il signor Tosi. La seconda dà voce alla piccola siciliana Angela Catena, la prostituta ragazzina che confida al diario le vicende della propria sorte e i suoi miseri desideri. Dal punto di vista tecnico scrivere in questa maniera è dannatamente difficile. Personalmente lo evito come la peste, perché bisogna essere in grado di cambiare punto di vista e voce narrante, creando differenti universi psicologici e stilistici. Una fatica di Sisifo che richiede una bravura da mostri. Bravura che la Scotti sfoggia con invidiabile disinvoltura.
‘‘Il vizio’’, naturalmente, non è soltanto un romanzo redatto con il sapiente impiego di una signora penna. E difatti le eccellenti qualità tecniche che spiccano nelle sue pagine non rimangono per niente prive di quelle istanze morali che a mio parere, come ho avuto più volte occasione di ripetere, rappresentano la sostanza profonda delle opere di narrativa. Lo squallore della vicenda, lo squallore dei personaggi, del vecchio vizioso e benestante, come pure della ragazzina schiava di perniciosi sogni consumistici da raggiungere a prezzo della propria innocenza, definiscono con amarezza le anime corrotte e perdute che infestano la società d’oggi. Una società per la quale una lacrima appare sempre ben spesa. Sperando che alla commozione si unisca altresì, nel lettore, una migliore e proficua consapevolezza della realtà che lo circonda.
Tirando le somme, dunque, non mi resta che riconoscere con sincera obiettività che Carmen Scotti appartiene a quella razza di scrittori main stream al cui cospetto noi, e quando dico “noi” intendo gli onesti autori popolari, ci togliamo d’istinto tanto di cappello. Non vi è dubbio alcuno che noi autori popolari sappiamo scrivere assai meglio della pletora di guastamestieri che ammorbano gli scaffali delle librerie, però la Carmen scrive persino meglio di noi, c’è poco da discutere, e al riguardo mi è facile esprimere l’ovvia profezia che i suoi testi entreranno a buon diritto nel cuore dei lettori.



sabato 19 ottobre 2013

Il ritorno di Ela

1.
La mattina di lunedì sette gennaio uscii in terrazza per stendere il bucato. Avevo avviato la lavatrice la sera prima, com’è mia abitudine.
Grigio e basso era il cielo, però non pioveva. Il mare era calmo.
«Signor Gabriele, buongiorno».
Gettai uno sguardo in basso. Il saluto proveniva dal giardiniere del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’, un rumeno dalla grande pancia, la fronte bassa, i piedi piatti e, dulcis in fundo, le labbra bavose. Doveva essere da poco tornato a San Leonardo. Aveva infatti passato le festività in Romania. Da circa un anno lo avevo soprannominato il Pappone. Ossia dal giorno che si era permesso di chiedermi se mi serviva una donna. Serviva per... Be’, ci siamo capiti.
«Buongiorno, Gregorio, e buon anno».
«Buon anno. Senta, quella sabato mattina mi ha telefonato per dirmi che viene a stare con lei».
Con l’elegante epiteto di ‘‘quella’’ si riferiva a Mihaela, la sua sfruttatissima convivente, cedutagli in comodato d’uso, sia pur parziale, da un certo Giosuè Zanchiello, proprietario di night, meglio noto come il Bullo di Casacalenda.
«Eh, vorrebbe».
«E lei la fa venire?».
Quella stessa mattina, prima ancora di tirar fuori i panni dalla lavatrice, avevo già spedito a Ela – suo vezzeggiativo da bambina con il quale la trentatreenne rumena desiderava la chiamassi – un sms dal seguente tenore: ‘‘Tra due settimane avrò cinquantasette anni, sono troppo vecchio per te. E se non hai un lavoro è inutile che torni in Italia’’.
«Vuole venire a vivere con me come una moglie, dice, non come un’ospite. E questo non è possibile».
«Per carità, non la faccia venire. Se la fa venire quella dopo due giorni se ne va con qualcun altro. Non è donna da accontentarsi di un uomo solo. Con me così ha fatto. Io l’ho tolta dal night e lei mi ha tradito con tutti».
Me la risi sotto i baffi. Perderla gli rodeva. Uh, se gli rodeva.
«Stia tranquillo, Gregorio, non la farò venire».
Nei giorni immediatamente successivi, puta caso lo incrociavo lungo i vialetti del villaggio, ripeteva petulante lo stesso ritornello:
«Non la faccia venire, per carità, quella se ne va con tutti».
A un certo punto mi scocciai e affinché la piantasse di rimestare di continuo la solita solfa e si convincesse una volta per tutte, gli dissi:
«Senta, già da un pezzo ho spedito a Ela un sms che diceva: ‘‘Tra due settimane avrò cinquantasette anni, sono troppo vecchio per te. E se non hai un lavoro è inutile che torni in Italia’’. Da quel giorno non si è fatta più sentire. Perciò...».
«Ma ce l’ha un lavoro. E’ tornata. Lavora a un night di Larino. Un night di Giosuè».
«E allora lei, Gregorio, di che si preoccupa? Il discorso è chiuso, mi pare».

2.
La mattina di lunedì ventotto gennaio alzai l’avvolgibile della portafinestra e uscii in terrazza per stendere il bucato. Eh, sì, sono abitudinario peggio d’un gatto e metto in moto la lavatrice sempre la domenica sera.
Cielo grigio e basso. Niente pioggia. Mare calmo.
Scorsi sotto la terrazza, di spalle, Ela che risaliva in tutta fretta il viale principale del villaggio. Dunque, era tornata. Tornata dal suo convivente magnaccia che la condivideva in società con il Bullo di Casacalenda.
Nei mesi successivi tenni nei suoi confronti un comportamento estremamente prudenziale. Nel senso che non la guardai mai in faccia né scambiai con lei una parola. Tanto meno un semplice ciao.
Anche con il Pappone mi vidi presto costretto ad assumere il medesimo atteggiamento. Un paio di settimane dopo il ritorno della donna ebbe infatti l’infelice idea di dirmi:
«Non è vero che Mihaela ha lavorato al night di Larino, mi avevano dato un’informazione sbagliata. Ai night non ha mai lavorato. Mai».
«Be’, ma a me il Bullo di Casacalenda ha detto che l’hanno scorso Ela lavorava in un night di Vasto».
«Gliel’ha detto per gelosia. Per invidia. Perché lui alla ragazza non piace. Mihaela non ha mai lavorato nei night. Mai».
Quel ridicolo tentativo di trasformarla di colpo in una verginella, di cui il Bullo era tra l’altro un ottimo cliente, s’interpretava senza sforzo. Il Pappone cercava, reclamizzando la merce, d’esercitare il lenocinio con me. Merce che lui stesso, la mattina del sette gennaio, mi aveva descritto in termini tutt’altro che lusinghieri.
Da quel dì non l’ho più guardato in faccia né gli ho più consentito di rivolgermi la parola. Ora diventa, quando mi vede, nero di bile e a me scappa, insopprimibile, un sorrisetto divertito.

3.
Il pomeriggio del quattro luglio si verificò una novità.
Ero andato a buttare l’immondizia negli appositi cassonetti, posti all’ingresso del villaggio. Da qualche anno a San Leonardo hanno introdotto la raccolta differenziata. Grazie a questa bella pensata si dispone adesso, dove una volta ce n’era uno solo, di una batteria multicolore di cassonetti: quello giallo, quello nero, quello bianco, quello marrone, quello blu. La gente butta così l’immondizia, rigorosamente non separata, come meglio crede. A scelta nel colore preferito. Se vi saltasse perciò in mente d’aprire il cassonetto riservato in teoria al vetro, cioè quello blu, sareste subito assaliti dal tanfo di pesce. Noi italiani, si sa, abbiamo un senso civico che c’invidiano persino in Svizzera.
Scaricato il pattume notai, nel riavvicinarmi a casa, Ela strappare l’erba ai piedi della scarpata della statale sedici, grosso modo all’altezza della mia porta. Non stava da sola ma in compagnia di una ragazzina.
Quell’erba, sapevo, era destinata al coniglietto che i rumeni tenevano in una gabbia accostata alla baracca degli attrezzi, giù verso il mare. Con tutta l’erba che cresceva vicino alla baracca, Ela doveva venire a coglierla proprio davanti casa? Prima domanda.
La seconda domanda era scontata. Riguardava la bambina. E, com’è ovvio, anche la risposta era scontata.
Proprio in quel momento, guarda caso, la donna e la piccola vennero verso di me, senza dir nulla, Ela reggendo un fascetto d’erba nel braccio ripiegato. A quel punto, spinto da un pizzico d’umanità, chiesi:
«E’ lei? E’ Joana Gabriela?».
Rise con la bocca sdentata, sollevando al cielo il viso, felice forse più d’ogni altra cosa nel sentirsi rivolgere da me, dopo mesi e mesi, la parola.
«Sì, è lei. E’ Joana».
La bambina, sua figlia, non potevo non riconoscerla. L’anno prima Ela mi aveva mostrato una foto. Era molto magra e piuttosto piccola per la sua età. Il quattro maggio, se la memoria non m’ingannava, aveva compiuto undici anni. Qualunque sua coetanea italiana sarebbe stata più alta, più robusta e più in carne.
«Sei andata a prenderla tu?».
«Sì, siamo arrivate ieri sera».
«E’ davvero graziosa».
La madre apprezzò il complimento e pronunciò qualcosa in rumeno, al che Joana mi porse la mano, che le strinsi sorridendo.
«Noi ci siamo parlati al telefono. L’anno scorso e quest’anno ai primi di gennaio».
La mamma tradusse. La figlia rimase zitta. E fu tutto. Si avviarono per portare l’erba al coniglietto. Dopo pochi passi Ela si fermò e voltandosi disse:
«Hai sbagliato, Gabi».
«Sì, ho sbagliato».
Tuttavia non intendevamo affatto esprimere lo stesso concetto. Nella sua affermazione era sottinteso: ‘‘a non farmi venire a vivere con te come una moglie’’. Nella mia: ‘‘a non essere riuscito a toglierti dalla testa l’illusione di poter diventare la mia mantenuta’’.

4.
Nelle settimane successive la rumena, se il Pappone non era in vista, quando mi vedeva mi lanciava con la mano un cenno di saluto, che ricambiavo.
La mattina del tredici agosto accesi il cellulare e mi arrivò un messaggino. L’operatore mi avvisava che un numero a me sconosciuto mi aveva chiamato alla undici e ventidue della sera precedente.
‘‘Mah’’, pensai, ‘‘qualcuno che avrà sbagliato numero. Oppure...’’.
Già, oppure...
Insomma, m’insinuò in testa un piccolo sospetto, ragion per cui non cancellai quel messaggio contenente il numero misterioso.
La mattina di domenica diciotto il mio telefonino squillò. Mi chiamava ‘‘quel numero’’.
«Ciao, Gabi, sono io».
«Ciao, Ela».
«Senti, voglio parlare con te».
«Va bene, parla».
«No, usciamo. Ti aspetto alle quattro al cancello. Vieni, sì?».
Di qualcosa aveva bisogno, sennò non mi avrebbe chiamato. Per soddisfare la mia curiosità, un solo modo avevo.
«D’accordo».
Al pomeriggio lei e Joana, entrambe in pantaloncini, mi aspettavano all’ingresso del villaggio. Salirono a bordo. Ela aveva uno zigomo gonfio. M’immisi sulla statale e presi per San Leonardo.
Le portai a passeggio nei vicoli dell’antico borgo medievale, che si erge su uno sperone a picco sul mare e la bambina non aveva ancora visitato. Nella gelateria della piazzetta del Duomo presi due coni, uno per Joana e uno per me. Per Ela no, il freddo le dà fastidio ai denti cariati.
Aveva lo zigomo gonfio, mi spiegò, a causa d’un cazzotto tiratole dal Pappone. Glielo aveva sparato la sera del dodici agosto. Si era rifiutata di soddisfare le voglie del Bullo di Casacalenda che, in presenza di Joana, le aveva afferrato un braccio, cercando di spingerla verso la camera da letto nell’alloggio di proprietà del condominio concesso ai rumeni.
Lei, con la bambina, era scappata fuori. Mi aveva telefonato per chiedermi ricovero, ma il mio cellulare era spento, e dunque già dormivo. Avevano passato quasi l’intera nottata all’aperto, sedute vicino alla baracca degli attrezzi e alla gabbia del coniglietto. Circostanza in seguito confermata dalla guardia giurata che di notte ispeziona il villaggio. Le aveva infatti notate, chiedendosene fra sé e sé il motivo.
Leccati i gelati e finita la passeggiata le riaccompagnai al villaggio.
«Gabi, usciamo stasera».
«Pure stasera?».
«Sì, pure stasera».
A quelle parole la sua strategia mi apparve chiara. Voleva innescare il casus belli, provocare il Pappone, certa ormai che pur nella peggiore delle ipotesi lei e la figlia le avrei ospitate io.
«E va bene. Ceno e vi vengo a prendere».

5.
E così, alle dieci uscimmo di nuovo tutti e tre. Ela non si era cambiata. La bambina al posto degli shorts indossava invece una gonnellina.
Tanto per cambiare, andammo a San Leonardo, stavolta sul lungomare, rigurgitante di gente. Scovato a fatica un buco per la macchina, ci mettemmo in cerca di una balera. La prima che trovammo, all’aperto, si chiamava ‘‘La cala sveva’’. Coppie di mezz’età ballavano il tango. Le dame su tacchi a spillo e i cavalieri in pantaloni scuri e camicia. Noi, in calzoncini e mocassini, avremmo sfigurato. Io poi avrei sfigurato comunque. Non so ballare. Morale della favola, ci defilammo.
Tornammo sui nostri passi e proseguendo sul lungomare fummo attirati dalla musica di un’altra balera, ‘‘Il maestrale’’. Non era altro, in verità, che il bar di uno stabilimento balneare, protetto da un tendone. La pista da ballo non mancava, né mancavano i presunti ballerini, però erano tutti impegnati a chiacchierare e a bere. Noi li imitammo.
Di tanto in tanto qualcuno scendeva in spiaggia, sedeva su una sdraio dello stabilimento e accendeva una canna.
«Vedi», mi diceva Ela, «si drogano».
«Vedo».
E lei, sollevando il bicchiere di birra che teneva in mano:
«La mia droga è questa».
A quella constatazione preferivo tacere, saltellavo insieme a Joana, scimmiottando un accanito frequentatore di discoteche.
Alle due si tornò al villaggio.
«Gabi, stanotte non spegnere il telefono».
«Sta’ tranquilla, non lo spengo. Qualunque cosa succeda, tu chiamami».
Ma la notte, contrariamente alle previsioni, trascorse serena. Neanche il lunedì successe niente. La sera, suppergiù alle otto e mezzo, mentre stavo per infilare una pizza napoletana nel forno a microonde, il mio telefono suonò.
«Gabi, vieni, ci ha cacciato».
‘‘Mh, vendetta a scoppio ritardato’’, pensai.
«Vengo subito».
Scesi in garage, salii in macchina, misi in moto e raggiunsi l’ingresso del villaggio, dal quale si accede all’alloggio del giardiniere. Ela, Joana e bagagli mi aspettavano lì. Caricammo le valigie e portai le due tristi sfrattate a casa.
Madre e figlia dormirono quella notte nel divano letto che arreda il soggiorno. L’estate dell’anno passato, quando ritinteggiai le stanze, mi disfeci dei vecchi materassi. Comprai i nuovi solo per la mia camera, non per quella degli ospiti.
La mattina di martedì venti le accompagnai all’agenzia di viaggi, dove si procurarono i biglietti per il pullman dell’Atlassib che le avrebbe ricondotte in Romania. Partenza, quattro e mezzo di quella stessa notte dalla piazza della stazione ferroviaria di San Leonardo.
La sveglia trillò alle tre e mezzo. Loro due erano già pronte. In macchina andammo alla fermata. Pioveva. La corriera arrivò in anticipo. Mi baciarono e salirono su.
Malgrado la levataccia, ero contento. Se non altro, avevo aiutato una donna a liberarsi del suo magnaccia. Una piccola opera di bene.
Addio, Ela. Tieniti alla larga dai papponi.



sabato 12 ottobre 2013

Città di provincia

Pioveva. I muri diventavano neri di pioggia. Marisa uscì dal portone dell’istituto di bellezza. L’odore dell’asfalto umido le invase le narici e sentì le goccioline d’acqua infilarlesi nei capelli.
Che seccatura”, pensò.
Il cattivo tempo non le piaceva, senza contare il fatto che la pioggia le rovinava la permanente e lei, sbadata, non s’era nemmeno portato l’ombrello prima di recarsi dalla parrucchiera, pur avendo notato le nuvole ingrossare e incupire. Attraversò in fretta la strada e fu al riparo sotto i portici.
Al di là delle colonne intravedeva i tetri edifici fin de siècle della vecchia città. Lanciò qualche rapido sguardo ai pedoni, che contraccambiavano con occhiate piene di stupida malizia, e osservò le vetrine cariche di oggetti sgargianti che stonavano con le facciate scure dei palazzi.
Giunta in casa, lussuoso appartamento all’ultimo piano di un condominio di via XX Settembre tutto abitato da gente bene in vista e ben fornita di rispettabilità e quattrini, si tolse il soprabito e la collana di perle. Si trattenne alcuni attimi davanti allo specchio. La permanente, in effetti, era riuscita coi fiocchi. Rassicurata sull’aspetto della propria testa, si adagiò su una poltrona del soggiorno con una rivista in mano, mentre la domestica preparava la cena.
Puntuale, il marito rincasò alle otto. Lei quella sera non aveva voglia di cenare, mise scusa di un’emicrania e se ne andò a letto. I due durante il giorno si vedevano in pratica a pranzo e a cena, e poiché questi dolori di capo erano frequenti, ogni volta lui ci restava male.
L’avvocato Ludovisi e Marisa dormivano in camere attigue arredate in maniera identica e comunicanti per mezzo di una porta laccata di bianco perennemente chiusa a doppia mandata. Ogni camera aveva il suo bagno, in tal modo la loro indipendenza si estendeva anche alle personali necessità igieniche. I letti erano bassi e di colore bianco e azzurro, come i grandi guardaroba. Azzurri erano i tappeti e bianchi i tendaggi, che coprivano un’intera parete. Nella camera dell’avvocato, a fianco al letto, si ergeva un vecchio inginocchiatoio butterato dai tarli. Non armonizzava con gli altri mobili, però l’avvocato rifiutava di privarsene, malgrado le insistenze della moglie.
Marisa tirò su il cuscino, sistemandolo dietro la schiena. Aprì un giallo e cominciò a leggere. Presto si distrasse e lasciò scivolare il volume sulle coperte. La prese a un tratto il solito senso d’insoddisfazione. Persino suo marito riscuoteva più stima, quell’imbecille, mentre lei la gente la chiamava puttana, poco ma sicuro. Ecco, a che era servita la sua vita? A nulla. E la sua intelligenza? Ah sì, perché era intelligente e lo sapeva. E il suo fascino? Tutto era andato sprecato grazie a quel matrimonio inutile con quell’imbecille odioso. Colpa della sua famiglia, naturalmente, che le aveva imposto di sposare un uomo di dodici anni più anziano di lei, e un po’ colpa sua che non si era ribellata. Ma era così giovane lei, allora, e così indifesa, e così ingenua.
Intanto l’avvocato, nella stanza accanto, pregava in pigiama sull’inginocchiatoio, sgranando la corona del rosario fra le dita.
***
Si svegliò verso le nove. L’avvocato era già uscito. Lei sarebbe uscita su per giù alle dieci, per le compere. Beveva in cucina il suo bicchiere di latte gelato, come ogni mattina, quando la donna di servizio l’avvertì che la volevano al telefono.
«Chi è?».
«Boh, non l’ha detto. Uno».
Stupida”.
«Pronto?».
«Ciao, Marisa, sono Franco».
«Franco! Quando sei tornato?».
«Ieri sera tardi. Purtroppo».
«Perché purtroppo? Tanto bella è la Spagna?».
«Meravigliosa. Da San Sebastiano ti ho spedito una cartolina, l’hai ricevuta?».
«Sì. “A colei che sospirando mi attende e d’amor si strugge”. Bello spirito di patata».
«Be’, voleva essere un pensierino delicato».
«Oh, ne sono commossa. Mi piange il cuore».
Franco ridacchiò e chiese a bruciapelo: «Senti, Marisa, quando c’incontriamo?». Abbassò la voce: «Non vedo l’ora di... Per quanto, forse, farei meglio a studiare».
«Me l’immagino la tua voglia di studiare», lo schernì. Tuttavia aggiunse: «Fa’ una cosa. Passa a prendermi fra un’ora, un’ora e mezzo. Ce ne andremo in qualche posto. Ti va?».
«Magnifico».
***
Alle undici e un quarto l’avvocato Ludovisi lasciò il tribunale, situato piuttosto in periferia, e s’incamminò verso il centro, diretto al suo studio. Aveva da percorrere un chilometro abbondante. L’avvocato faceva sempre la strada a piedi, pure d’inverno, se non pioveva, perché anche lui, come Marisa, non amava il brutto tempo.
Il cielo era di un celeste splendido e il sole rendeva scintillanti le lamiere delle auto che congestionavano il traffico. Si sentiva di buon umore e muoveva con agilità le gambe allontanandosi dal palazzo di giustizia, un avveniristico ammasso di cemento armato, l’edificio pubblico più moderno della città.
Quel giorno, in un’udienza civile terminata prima del previsto, si era prodigato invano nel sostenere gli interessi di un agricoltore. L’agricoltore, proprietario di un terreno espropriato, aveva presentato ricorso contro il decreto d’esproprio, emesso a favore di un industriale. L’industriale aveva richiesto al comune la cessione di un lotto per costruirci una fabbrica di mobili e la richiesta gli era stata accordata. La causa era persa in partenza, su ciò l’avvocato non aveva mai nutrito dubbi, poiché il terreno in questione era stato destinato dal piano regolatore a insediamenti industriali. Dopo che il giudice aveva letto la sentenza, il cliente aveva annunciato di voler ricorrere in appello. Per l’avvocato questo significava perdere di nuovo in appello, in compenso avrebbe intascato altri soldi e ciò non gli dispiaceva.
Stava per salire la rampa di scale che conduceva al suo studio e si ricordò di aver dimenticato quel mattino una pratica in casa. Il suo appartamento non si trovava lontano e pensò di farci un salto per recuperare le scartoffie.
***
Sarebbe stato meglio se quell’idea non gli fosse venuta. Sul divano del salotto sua moglie e “un uomo” giacevano intrecciati in una posizione che a un osservatore disinteressato sarebbe parsa un tantino buffa. Ma il legittimo consorte non è mai un osservatore disinteressato, in casi del genere, e perciò non poté cogliere i lati comici della vicenda. Anzi, tutto il suo buon umore svanì e rimase quasi paralizzato alla vista di Marisa e di Franco aggrovigliati come spaghetti serviti scotti.
Anche quei due lo fissarono con occhi increduli. Sua moglie si rese conto che era stata una sciocchezza aver permesso a Franco d’entrare in casa. Abbozzò un sorrisetto ipocrita e disse:
«Caro, t’è successo qualcosa?». E pensò: “Mio Dio, perché quest’idiota è così in anticipo oggi?”.
L’avvocato si avvicinò al divano, muto. Afferrò il grosso posacenere di cristallo che stava sul tavolino da fumo e s’avventò sul giovane. Franco tentò di ripararsi sprofondando nei cuscini a faccia in giù, ma l’avvocato lo colpì più volte alla testa, urlando bestemmie. Nella stanza accorse la domestica, venne su il portiere, qualcuno chiamò l’ambulanza, salì nell’appartamento un mucchio di gente. Marisa ebbe l’emicrania, questa volta sul serio.
Ogni cosa fu messa a tacere, nel senso che non fu sporta nessuna denuncia, ma il giorno dopo l’intera città ne parlava. Nei bar, negli uffici, nelle bottegucce degli artigiani, nei salotti, dove al pomeriggio grasse signore si riunivano per giocare a canasta, si parlò dell’avvocato, di sua moglie e dello studente. «Ha pescato la Marisa con un universitario. Non l’ha ammazzato per un pelo». A tutti lo scandalo offrì l’occasione di beffare la noia con succose risate.
Marisa ogni sera andava in ospedale a trovare Franco, salutando cordialmente i medici stupefatti.



venerdì 4 ottobre 2013

Cristiano senza Dio

Da qualche settimana, tutte le volte che ci si sente al telefono, un mio zio – abitiamo a duecento chilometri l’uno dall’altro e non abbiamo altra possibilità di parlarci se non telefonando – mi suggerisce con la massima serietà di farmi prete.
L’idea gli è venuta perché, su un periodico cattolico, ha letto di un uomo, nato nel 1955, ordinato sacerdote in una diocesi dell’alta Italia.
«Tu sei del ’56, hai una buona cultura, non ti sarà difficile sostenere gli studi necessari, e dunque...», mi sprona.
La sua è però una proposta inaccettabile. Non accettabile da me, almeno. E per un motivo elementare. Non sono credente.
«Ma sarebbe una frode», gli rispondo. «Come potrei esercitare il sacerdozio, con quale faccia potrei rivolgermi ai fedeli, se sono ateo?».
«Sì, ma tu hai molto da dare agli altri», obietta lui. «E poi, studiando teologia, la fede ti verrà».
Un altro, al posto mio, si metterebbe a ridere. Io invece provo orgoglio. Orgoglio e riconoscenza nei riguardi di mio zio per la stima mostrata verso di me. Stima che, in tutta sincerità, non credo proprio di meritare.
Le ragioni del mio ateismo sono molteplici e se volessi elencarle con puntiglio vi ucciderei di noia. La mia malvagità non arriva a tanto. Preferisco riassumere l’intera questione affermando che la penso come Ludwig Feuerbach. Non è stato Dio a creare l’uomo ma è stato l’uomo a creare Dio.
Ciò nonostante, il rispetto e la considerazione che nutro per il cristianesimo sono alti. Non sono sordo agli insegnamenti di Gesù. Anzi, cerco di seguirli. Aspiro anch’io a essere un cristiano. A comportarmi da buon cristiano, se possibile. L’unica cosa che mi divide dal credente sta nel fatto che io considero Cristo uomo ma non figlio di Dio, mentre il credente ne riconosce la natura divina. Non mi manca inoltre la consapevolezza che la vita, senza Dio, perde ogni significato. Rimane solo il nulla che finirà nel nulla.
So però che esiste anche un ateismo comico, professato dalle macchiette. Tanti anni fa una defunta astronoma dichiarò in televisione di aver a lungo cercato Dio tra le stelle con il suo telescopio ma di non averlo trovato. Ne deduceva che non esistesse. La scienziata aveva l’aspetto di una vecchia megera, occhi allucinati, nonché lunghi capelli grigiastri da elemosinante di fine Ottocento, e non era nemmeno all’altezza di esprimersi in italiano. Parlava uno squallido e rozzo dialetto, dando così prova d’essere salita in cattedra per puri meriti di partito.
Sghignazzai a non finire.
Se la minorata psichica or ora citata avesse letto ‘‘Anna Karenina’’ di Leone Tolstoj avrebbe appreso che quello religioso è un sentimento, una folgorazione dell’anima, e non il risultato di un esperimento. Nessuno sarà mai in grado di provare con metodi scientifici l’esistenza o l’inesistenza di un’entità divina. Sarà tutt’al più possibile ricorrere ad argomentazioni logiche, ma di tipo metafisico, non scientifico in senso popperiano.
Sono sicuramente un cristiano senza Dio, non discuto né me ne compiaccio. Ma meglio essere senza Dio che senza cervello. Chi non ha cervello merita solo una pernacchia.
A ciascuno il suo.