venerdì 31 ottobre 2014

Per i nostri cari

Il due novembre è dedicato ai defunti. E’ per me una festa della nostalgia, il sentimento più tenero e commovente che siamo in grado di provare.
In tale data, a esser sincero, mi tengo alla larga dai cimiteri. Non certo per scaramanzia o per altri inconfessabili timori. Piuttosto per un’innata insofferenza verso un rito che ha tutto il sapore di un dovere sociale. Perché in realtà ho l’abitudine, ogni volta che posso, di visitare e intrattenermi a lungo con miei cari, benché le loro tombe si trovino a duecento chilometri da dove abito.
Non passa inoltre giorno che non pensi a loro. Li ho pertanto sempre con me, vicini. Sì, è così, in verità non sono mai solo. Ricordi e nostalgia animano i nostri continui colloqui.
Mi hanno lasciato, d’accordo, ma non li ho perduti.
E dunque la mia è una lieta nostalgia.



venerdì 24 ottobre 2014

Il barometro segna tempesta

Agli inizi di giugno 2014 la riunione del consiglio direttivo della Banca centrale europea fece esultare i cuori di tutti gli speculatori finanziari del globo. La riduzione del tasso ufficiale di sconto allo 0,15 per cento (abbassato ancora a settembre allo 0,05), decisa proprio in quell’occasione, e l’annuncio di nuovi prestiti a lungo termine alle banche a tassi dello 0,15 per cento, nonché la promessa di un robusto alleggerimento quantitativo (quantitative easing, nel limpido idioma di Al Capone; noi, se volessimo parlare come mangiamo, diremmo ‘‘operazioni di mercato aperto’’) diedero agli speculatori la certezza che nuova abbondante liquidità, buona per giocare in borsa, avrebbe presto inondato i mercati finanziari.
Si dava soprattutto per scontato che la Bce avrebbe anche avviato un programma d’acquisti di titoli pubblici emessi dagli stati dell’unione monetaria. Insomma la prosperità – per gli speculatori, si capisce, non per gli altri – era dietro l’angolo.
Le cose, però, non sono andate così. Con il consiglio direttivo tenuto i primi di ottobre a Napoli è arrivata la doccia fredda. Durante la conferenza stampa seguita alla riunione il tanto atteso acquisto di titoli del debito pubblico non è stato neppure menzionato dal governatore Draghi. Risulta evidentemente impossibile superare l’ostacolo insormontabile rappresentato dalla Germania, che si oppone a una tale misura.
Il panico si è subito diffuso tra gli speculatori e gli indici di borsa sono precipitati, mentre i rendimenti delle obbligazioni pubbliche hanno ripreso a salire.
A gettare altra benzina sul fuoco hanno poi provveduto voci relative a un cambio d’atteggiamento, rispetto all’euro, di Syriza, la formazione politica greca che alle lezioni europee di maggio ha attenuto in quel paese il maggior numero di voti. Se nei suoi programmi non rientrava infatti un’uscita dalla moneta unica, ma solo l’attuazione di politiche economiche anticicliche anziché procicliche come finora imposto dalla Bce, dal Fondo monetario internazionale e dall’Unione europea, sembrerebbe invece che Alexis Tsipras, capo del partito, in colloqui privati con i capi di governo europei e con Mario Draghi, abbia affermato di voler portare la Grecia fuori dall’euro e di ripudiare, almeno in parte, il debito di 240 miliardi contratto con il Fondo monetario e con l’eurozona per il cosiddetto ‘‘salvataggio’’ del suo paese.
Syriza, nei sondaggi, guadagna consensi mese dopo mese e poiché la probabilità di elezioni anticipate in Grecia è piuttosto alta, in quanto la maggioranza attualmente al governo dispone in parlamento di numeri appena sufficienti a tenerla a galla, la notizia sulla nuova posizione espressa da Alexis Tsipras, qualora dovesse rivelarsi esatta, provocherebbe il naufragio dell’euro e la conseguente corsa degli speculatori alle scialuppe. Vale a dire una fuga dai titoli di stato dei paesi in bilico dell’eurozona e l’impennarsi dei loro rendimenti.
Un fatto resta comunque innegabile. Se la Bce rimanda all’infinito l’acquisto di titoli di stato, la moneta unica non sopravvivrà a lungo.
Reggetevi forte, forse ci siamo.



venerdì 17 ottobre 2014

Curve pericolose

La potestà fiscale dello stato è infinita? O esiste invece un limite oggettivo oltre il quale la voracità statale non può spingersi?
All’angoscioso quesito ha risposto Arthur Laffer, un economista americano. I presupposti del suo discorso sono molto semplici. Primo, se le aliquote d’imposta fossero uguali a zero, anche il prelievo sarebbe uguale a zero. Impossibile dargli torto, d’altronde. Lo zero per cento di qualunque grandezza corrisponde a zero, è matematico. Secondo, la stessa cosa succederebbe però anche se le aliquote raggiungessero il cento per cento. Nessuno sarebbe infatti più disposto a lavorare, e dunque a produrre, se l’intero reddito gli venisse prelevato dallo stato.
Se ne deduce che, tra zero e cento, esiste un livello massimo di pressione tributaria oltre il quale il gettito erariale comincia a scendere, fino ad annullarsi quando la pressione tocca il cento per cento del reddito nazionale, che in fin dei conti rappresenta per lo stato la base imponibile.
Tale relazione tra pressione e gettito può essere raffigurata graficamente per mezzo di una curva parabolica, nota appunto come curva di Laffer. Disgraziatamente la forma esatta della parabola, ossia il punto esatto dove le entrate fiscali raggiungono il massimo e poi, all’aumento delle aliquote, cominciano a ridursi, rimane sconosciuto. Quel limite lo si può stabilire a priori solo in via ipotetica, a meno che l’esperienza concreta non ce lo sbatta in faccia, come sta avvenendo oggi.
Non vi è alcun dubbio che l’incentivo a evadere e a eludere le imposte cresce con il crescere del loro numero e delle loro aliquote. In Italia, stando a quanto indicato dalla corte dei conti, l’imponibile sottratto al fisco ammonta ogni anno a circa centottanta miliardi. L’azione di contrasto operata dagli uffici erariali e dalla polizia tributaria può sì recuperare una parte più o meno consistente delle somme evase, ma mai tutte.
Vi è inoltre un altro aspetto da considerare. Taluni contribuenti, anziché mettersi contro la legge, possono decidere di andare a investire e produrre all’estero, dove le tasse sono molto più basse. Tale fenomeno sempre più frequente viene definito delocalizzazione. Le fabbriche chiudono da noi e aprono i battenti altrove.
Risultato? Troppe imposte provocano prima una contrazione del reddito nazionale e poi un calo delle entrate tributarie. E dobbiamo riconoscere con obiettività che la repubblica italiana questo bel capolavoro è riuscita di recente a realizzarlo. A partire dal 2011, a furia d’introdurre nuove imposte e innalzare le aliquote di quelle già esistenti, il reddito nazionale si è contratto, finché non ci si è infilati nella pericolosa curva di Laffer. Non per niente le entrate tributarie dei primi otto mesi del 2014 sono diminuite dello 0,4% rispetto a quelle incassate nello stesso periodo dell’anno precedente.
I grandi statisti che ci governano hanno così dimostrato d’essere sordi agli insegnamenti di un celebre imperatore romano, da tutti conosciuto con il vezzeggiativo di Caligola, le cui raffinate concezioni di scienza delle finanze le riassumeva in poche parole:
«Il popolo è una pecora. Lo puoi tosare ogni anno ma scuoiare una volta sola. Il mio gregge preferisco tosarlo, non scuoiarlo».



venerdì 10 ottobre 2014

L'ineffabile monsieur Hollande

Gli effetti delle elezioni europee di fine maggio 2014 cominciano finalmente a farsi sentire in maniera fragorosa, traducendosi in atti politici concreti.
Come si ricorderà, in quella tornata elettorale il risultato eclatante si registrò in Francia, dove il Front National, formazione nel cui programma figura al primo posto il riacquisto della sovranità monetaria per liberare il paese dal giogo tedesco che ne danneggia l’economia, ottenne il 25% dei suffragi.
Appena terminato lo spoglio, l’ineffabile monsieur Hollande, président de la république française, il cui partito socialista era sceso a un misero 14%, dichiarò che era giunta l’ora, per l’Unione europea, di puntare alla crescita e all’occupazione, anziché al puro e semplice restringimento dei deficit pubblici, come preteso dai tedeschi. Si manifestò in tal modo la prima crepa nell’asse Parigi Berlino. Infatti i governanti francesi avevano fino a quel giorno assecondato, da fidi valletti, tutti i capricci della graziosa kanzlerin Angelina Merkel, consentendole di sottomettere con facilità, a partire dal 2010, l’eurozona al Reich germanico.
Da fine maggio l’ineffabile monsieur Hollande ha più volte ribadito la necessità di sostenere in Europa la crescita economica, senza comunque insistere troppo e, men che mai, agire di conseguenza, come se temesse d’irritare la graziosa kanzlerin, la quale dal canto suo ha mostrato di non prestare il benché minimo ascolto a monsieur le président.
Il 23 agosto a Parigi è però scoppiata una vera bomba.
In un’intervista rilasciata al quotidiano ‘‘Le Monde’’, il ministro dell’economia Arnaud Montebourg si scagliava contro l’austerità di marca teutonica, definendola «un’aberrazione economica in quanto aggrava la disoccupazione, un’assurdità finanziaria poiché rende impossibile il risanamento dei conti pubblici e un flagello politico in quanto getta gli europei nelle braccia dei partiti estremisti che vogliono distruggere l’Europa».
Impossibile dargli torto, in effetti. Ciò malgrado il primo ministro Manuel Valls, poco desideroso di creare attriti con i tedeschi, presentò subito le dimissioni, ricevendo immediatamente dall’ineffabile monsieur Hollande l’incarico di formare un nuovo governo. Cosa che avvenne il 27 dello stesso mese e consisté in un rimpasto nel quale Montebourg e altri due o tre che condividevano le stesse idee vennero sostituiti con persone meno sanguigne.
Ma un’altra bomba sarebbe scoppiata, sempre a Parigi, i primi di settembre. Il governo Valls bis ottenne sì la fiducia dell’assemblea nazionale, all’appello mancarono tuttavia una quarantina di voti ottenuti a suo tempo dal Valls uno. Segno che i dissidenti à la Montebourg si stavano moltiplicando anche tra i deputati della gauche, e non solo tra l’elettorato che simpatizza sempre più per il Front National guidato da Marine Le Pen.
Da tale circostanza l’ineffabile monsieur Hollande ha saputo trarre le inevitabili, nonché lapalissiane, conclusioni. E’ ben consapevole che alla scadenza del mandato le sue probabilità di essere rieletto président de la république française equivalgono a zero. A parte ciò, presiedere fino al 2017 un governo con l’appoggio di una maggioranza risicata nell’assemblea nazionale (ricordo che in Francia il presidente della repubblica presiede il consiglio dei ministri) è una seccatura da evitare come la peste. Gli è stato perciò giocoforza adeguarsi ai tempi.
Essere, o non essere, contro la graziosa kanzlerin?
Meglio essere, a questo punto, è stata la risposta.
Ciò spiega perché il primo ottobre il ministro delle finanze Michel Sapin, nel presentare la legge di bilancio per il 2015, ha detto chiaro e tondo che la Francia non rispetterà né il patto di stabilità né il patto di bilancio (fiscal compact), rinviando in pratica a data da destinarsi gli aggiustamenti imposti e concordati con la commissione europea.
«Nessun ulteriore sforzo sarà richiesto alla Francia», recita il comunicato che accompagna la legge di bilancio illustrata da Sapin, «perché il governo – assumendosi la responsabilità di bilancio di rimettere sulla giusta strada il paese – respinge l’austerità».
In parole povere, l’asse Parigi Berlino si è spezzato.
E’ una splendida notizia, giacché presto o tardi anche le altre nazioni tartassate dell’eurozona imiteranno l’esempio francese e cominceranno ad attuare politiche economiche anticicliche, alleviando le sofferenze recate ai propri popoli per obbedire agli ordini distruttivi diramati da Berlino. Nella migliore delle ipotesi, non va nemmeno esclusa l’eventualità che la moneta unica si spappoli.
Europei sì, ma fessi no. Dico bene? E se del resto i francesi possono permettersi certi lussi, perché noi non dovremmo?
Non ci resta quindi che esprimere tutta la nostra gratitudine all’ineffabile monsieur Hollande. Nel suo piccolo, è un grande. Ci ha dato, magari non volendo, il buon esempio.
Merci, monsieur le président.



venerdì 3 ottobre 2014

Una lucina in fondo al tunnel

Le prospettive economiche rimangono fosche. Il prodotto interno lordo continua a deprimersi e di conseguenza la disoccupazione non cala. La riduzione d’imposta di ottanta euro sui redditi dei lavoratori dipendenti e l’irap tagliata del dieci per cento alle imprese non ha sortito gli effetti desiderati dall’ex sindaco Renzi, attuale presidente del consiglio dei ministri. Consumi e investimenti non hanno affatto invertito la rotta discendente.
D’altronde, dalle misure adottate dal governo non potevamo aspettarci nulla di diverso. Per provocare un’intensa e rapida inversione del ciclo economico tramite l’abbassamento delle imposte, la pressione fiscale dovrebbe scendere in misura davvero significativa. Almeno del dieci per cento, a voler esser precisi. Ma una tale scelta di politica economica ci è preclusa dal patto di bilancio (fiscal compact, come dicono i poliglotti, benché l’anglofono Regno Unito si sia ben guardato dall’aderirvi), in base al quale bisogna puntare, vivi o morti, al pareggio di bilancio e a ridurre il debito pubblico.
Poiché, in mancanza di meglio, abbiamo l’euro, e poiché oggi come oggi nessun governante dei paesi aderenti alla moneta unica ritiene ragionevole riacquistare la sovranità monetaria, in quanto gli interessi sui titoli di stato sono scesi a livelli infimi e se tornassimo alle monete nazionali i governi perderebbero questo paradossale vantaggio, non ci rimane che sperare. Si tratta, fra altro, di una speranza dal valore ben determinato, pari a trecento miliardi di euro.
La cifra non l’ha sparata un pinco pallino qualsiasi. E’ uscita dalla mente di Jean-Claude Juncker, presidente della nuova commissione europea, vale a dire l’esecutivo dell’Unione europea. Tale somma, prelevata dal Meccanismo europeo di stabilità, fondo salva stati istituito nel 2011 e operativo dal 2012 in sostituzione del precedente Fondo europeo di stabilità finanziaria, dovrebbe sovvenzionare gli investimenti pubblici nei paesi in crisi dell’eurozona e avviare così un processo di crescita economica.
La proposta, ammettiamolo senza remore, non ha nulla di scandaloso. Sarebbe anzi quanto di più sensato si possa immaginare per contrastare la dura crisi che ci attanaglia. Magari non sarà una panacea, dato che l’importo andrebbe diluito tra più paesi e forse non sarà sufficiente a invertire il ciclo a ritmo sostenuto. Ma rappresenterebbe comunque un mutamento di rilievo alle distruttive politiche economiche finora adottate nell’eurozona.
Si pone però un problema. La Germania darà il suo assenso? Dal 2010 a oggi i tedeschi hanno fatto il possibile e l’impossibile per danneggiare le economie degli altri stati aderenti all’unione monetaria. Una strategia, la loro, che ha incrementato gli attivi della propria bilancia commerciale e ha visto scendere come non mai i propri tassi di disoccupazione. Se ‘‘mors tua vita mea’’ è stata la loro filosofia di successo, poiché ogni danno che infliggi ai tuoi concorrenti rappresenta per te un vantaggio, qualche dubbio che siano di punto in bianco disposti a cambiarla appare più che lecito.
Sapremo la risposta tra alcune settimane, quando la nuova commissione si sarà insediata. Nel frattempo non ci rimane che sperare. E’ pur sempre una speranza grande trecento miliardi.