mercoledì 16 aprile 2014

Il senso del peccato

Che noi umani si abbia la capacità di far del male al prossimo è un fatto incontrovertibile. Può darsi benissimo che a tanti non importi un emerito fico secco, me ne rendo perfettamente conto. Invece a me la cosa provoca non pochi problemi e ho cominciato a rifletterci su.
Se si esclude il sadico, che gode a far soffrire gli altri e per il quale dunque la questione non si pone, noi comuni mortali siamo in genere portati a far del male sotto l’influsso di sentimenti come la rabbia, l’invidia, l’ingordo egoismo, la superbia o anche per reagire ai torti subiti.
Volenti o nolenti le cose stanno così e poiché tutto ha un prezzo, il più delle volte, se non addirittura sempre, quando coltiviamo pensieri peccaminosi o compiamo atti a danno di altri proviamo poi un pungente rimorso.
Il rimorso è la ferita che il peccato c’infligge.
Il rimorso non dà né allegria né felicità, tutt’altro. Ciò non significa però che sia un sentimento distruttivo. Chi ha la capacità di provarlo è una persona sensibile, una persona che non ha perduto il senso del peccato.
Se peccare ci rende infelici, se peccare suscita in noi il rimorso, a ben vedere abbiamo già la soluzione a portata di mano. Per sfuggire all’infelicità basta non peccare. Non che sia facile, per carità, non affermo questo. Però l’introspezione, ossia un onesto e pignolo esame di coscienza, riportandoci alla mente le nostre azioni vergognose, può aiutarci a correggere i comportamenti malsani e a sviluppare un efficace autocontrollo.
La vera espiazione del male recato agli altri consiste quindi in un processo di maturazione che ci conduce al dominio di noi stessi e a non ripetere gli errori commessi in passato. E la padronanza di sé, sottolinearlo non nuoce, consente di vivere in armonia con la propria coscienza e con gli altri esseri umani.
Sì, diciamola tutta, vincere le nostre debolezze ci rende gioiosi.



venerdì 4 aprile 2014

Stanno al Verano

Mio marito è caduto a Mentone. Successe il 22 giugno 1940. Lo seppi i primi di luglio, quando dal ministero della guerra mi arrivò un raccomandata con i ringraziamenti del duce eccetera. Per la verità, il brutto presentimento lo covavo già da qualche giorno. Le operazioni contro la Francia erano finite il 25 giugno e mi sembrava strano che Giacomo, sottotenente di complemento della divisione Cosseria, non riuscisse in qualche modo a farmi avere sue notizie.
A gennaio aveva compiuto venticinque anni. Il tredici gennaio. Nell’autunno del ’38 si era laureato in legge e a marzo dell’anno dopo ci eravamo sposati. Due settimane più tardi era partito per la scuola ufficiali.
Verso la fine di luglio – il ventisette, per l’esattezza – la sua bara arrivò alla stazione Tiburtina. La scaricarono, assieme a quelle di altri quattro ufficiali, da un vagone merci. Un picchetto dei granatieri di Sardegna rendeva gli onori. Un manipolo di gerarchi in uniforme salutò romanamente. Un cappellano militare le benedì.
Ero incinta di quattro mesi. Aspettavo Alberto, un figlio che non avrebbe mai conosciuto il padre.
Uno dei gerarchi tenne un breve discorso. Parlò di gloria, di patria riconoscente, di sacrificio e di vittoria. Alla fine sbatté i tacchi, alzò il braccio e urlò:
«Eia eia eia alalà».
Caricarono le casse di Alberto e degli altri sui carri funebri e il triste corteo si avviò verso il Verano.

Mio figlio Alberto è caduto il 2 luglio 1993, a Mogadiscio, al checkpoint Pasta.
Prima di partire venne a salutarmi, dicendomi che andava in missione in Somalia.
«In Somalia? Ma laggiù c’è la guerra».
Aveva sorriso. «Non preoccuparti, mamma, gli ufficiali superiori muoiono a letto, non in combattimento».
Era colonnello della Folgore. Il grado, però, non lo ha salvato dalle pallottole.
Rimpatriarono la salma in aereo. A Ciampino l’accolsero deferenti il presidente della repubblica, il ministro della difesa, un mucchio di generali. Dissero a mia nuora Anna, a me e a mio nipote Andrea, il figlio unico di Alberto e Anna, belle parole commosse. Poi la caricarono sul carro funebre e via per il Verano.
In camera, in un portaritratti posato sul comò, ho sempre tenuto una foto di Giacomo, scattata appena avuta la nomina a sottotenente, in posa con tanto di sciarpa azzurra e sciabola. Alberto, da bambino, rimaneva a volte intere mezz’ore a fissarla. Spesso mi sono chiesta se il desiderio di diventare militare non gli si fosse infilato a poco a poco in mente rimirando quella foto, dove il papà sorrideva in divisa. Fatto sta che finito il liceo mi disse:
«Non m’iscrivo all’università, presento la domanda per l’accademia di Modena».
«L’accademia? Questa sì che è da ridere».
«Mamma, voglio essere anch’io un ufficiale, così come lo è stato papà».
«Ma tuo padre ha indossato l’uniforme per obbligo, non per scelta. Se in guerra non l’avessero ammazzato avrebbe fatto l’avvocato».
Niente, non volle sentir ragioni.

Mio nipote Andrea, tenente degli alpini, è caduto il 4 marzo 1997, a Gradac, in Bosnia.
Lui è caduto nel vero senso della parola. Non me l’hanno cioè ammazzato in combattimento, come m’ammazzarono il nonno e il padre. La camionetta sulla quale viaggiava s’è rovesciata in un burrone e...
Insomma, è morto così, per un incidente.
Pure lui in Italia l’hanno riportato in aereo, ma ad aspettarlo a Ciampino non sono andata. Ogni tanto vado a trovarli al Verano, dove stanno tutti e tre nella cappella di famiglia.
Oh, cari, presto verrò anch’io.