sabato 28 settembre 2013

Produttività, salari, occupazione

Verso la fine del Settecento – per l’esattezza a far tempo dal 1776 – Adamo Smith insegnò ai suoi contemporanei, come anche alle generazioni future, che la causa della ricchezza delle nazioni risiede nella divisione del lavoro.
Grazie alla divisione del lavoro cresce infatti la quantità di prodotto per lavoro impiegato. Ossia, se più vi aggrada, cresce la produttività. Vale a dire il valore della produzione per addetto.
Nel lungo periodo gli effetti dell’aumentata produttività sono stati socialmente strepitosi. Il popolo lavoratore, come lo si chiamava un tempo, ha smesso di morir di fame e d’essere sfruttato dai biechi capitalisti. Il salario reale ha superato il livello di mera sussistenza e l’orario di lavoro si è accorciato di quasi la metà. Le profezie ottocentesche di un barbuto filosofo tedesco, che molti avevano scambiato per oro colato, sono così diventate risibili elucubrazioni di un miope storicista.
Nel lunghissimo periodo l’accresciuta produttività ha dunque consentito un miglioramento consistente delle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti. E’ un fatto positivo che non va messo in discussione in nessun modo. La crescita della produttività può però presentare un aspetto negativo. Se difatti la produttività sale più della domanda aggregata, cioè del totale della spesa in beni di consumo e in beni d’investimento, si verificherà uno spiacevole aumento della disoccupazione.
Negli ultimi decenni si è provveduto a contrastare la disoccupazione per mezzo di politiche economiche di sostegno della domanda aggregata attraverso un aumento della spesa pubblica. Tuttavia il salire delle spese statali ha alla lunga prodotto, come contraltare, un aumento della pressione fiscale. Ossia qualcosa di sfavorevole ai produttori. Dunque, agli investimenti. Dunque, alla domanda di lavoro.
Ciò spiega perché il pieno impiego sia diventato una chimera. Un sogno irrealizzabile.
Viviamo così in una situazione paradossale. Redditi pro capite tanto alti da non conoscere uguali nella storia si accompagnano a una disoccupazione alta e insopprimibile. Qualcosa, perciò, non funziona.
Posto che la disoccupazione rappresenta la maniera più brutale per peggiorare la distribuzione del reddito, va da sé che ogni misura atta a ridurla debba essere ricercata a pié sospinto.
La soluzione, in un’economia di mercato aperta agli scambi internazionali di merci, capitali e forza lavoro, è una sola. Gli ingenui potrebbero forse credere che essa consista nel ridurre i salari. Ma questo convincimento è falso. La riduzione dei salari avrebbe quale effetto la discesa dei consumi, quindi degli investimenti, quindi della domanda di lavoro. Tradotto in soldoni, la disoccupazione aumenterebbe. Affinché la riduzione della domanda interna dovuta al calo dei consumi sia più che compensata da un incremento delle esportazioni bisognerebbe infatti far scendere il costo del lavoro al livello dei paesi del terzo mondo. Impossibile.
Per spingere le aziende a investire, e a impiegare quindi quantità aggiuntive di forza lavoro, è invece necessario ridurre in misura vistosa la pressione fiscale. Troppe tasse falcidiano i profitti, che sono il motore degli investimenti, e deprimono i consumi. Se le prospettive economiche rimangono negative perché il governo taglieggia investitori e consumatori, le imprese si trasferiscono all’estero e il numero dei disoccupati si moltiplica.
Tutto ciò, nell’ultimo lustro, si è verificato nei paesi dell’Europa mediterranea, ai quali i tedeschi, al fine di danneggiarne gli apparati produttivi, hanno imposto politiche economiche procicliche. I tedeschi conoscono bene l’economia e sanno che più tasse significano più povertà.
Volete diventare più poveri? Chiedete ai politicanti che vi governano di aumentare le tasse.
Amen.




sabato 21 settembre 2013

Sulle ali dell'emozione

Per gli autori di racconti, e per i loro lettori, internet sta cambiando le regole del gioco. Chi oggi ama leggere narrativa breve dispone, grazie al computer, di una sovrabbondante messe di testi di ottima qualità a costo zero.
E d’altro canto, scrittori fino a ieri del tutto ignorati hanno la possibilità, sempre grazie al computer, di raggiungere un proprio pubblico di appassionati. I più attivi, fra tali scrittori, aprono un blog.
A uno di loro ho voluto rivolgere alcune domande. Si chiama Enrico Aldobrandi e il suo blog è intitolato ‘‘La conquista dell’emozione’’. Un titolo che mi ha colpito, così come pure mi ha colpito la maturità della sua prosa. Dai suoi racconti, popolati di bambini, adolescenti e adulti feriti dalla vita, traspare un’estrema sensibilità, con l’aggiunta di un pizzico di mistero.

Enrico, quanti anni hai?
Quarantanove.

Dove vivi?
Firenze.

Sei sposato?
Si.

Hai bambini?
Tre maschi.

Quali sono le tue competenze professionali?
Ho un panificio. Faccio il fornaio.

Da quanto tempo hai il blog?
L’ho aperto a marzo di quest’anno.

Quando hai cominciato a scrivere racconti?
A scrivere racconti ho iniziato tre anni fa. Mi piacerebbe poterti dire “scrivo da sempre, da quando ho imparato a tenere una penna in mano”, come vedo che è capitato praticamente a tutti. Ma non è così. Ho passato trent’anni inseguendo la forma artistica sbagliata. Credevo di poter diventare un chitarrista.

Dove prendi lo spunto per scriverli?
Immagazzino particolari, frammenti di conversazioni, sensazioni e stati d’animo. Restano così, a maturare da qualche parte, poi quasi senza preavviso vengono fuori. Posso partire da uno scorcio di conversazione ascoltata al bar, oppure dal passo stentato di un vecchietto visto per strada. Quando escono, escono prepotentemente, quasi come storie già scritte, e a me non resta da fare altro che usare un po’ di mestiere e sistemare il tutto, che è senza dubbio la parte più complicata e faticosa.

Inserisci nelle trame qualche traccia autobiografica o no?
Quasi mai. Cerco sempre di annullarmi il più possibile. Credo che un bravo scrittore debba prima di tutto riuscire a fare quello. Io, proprio perché non lo sono, devo sempre sforzarmi di ricordarlo per non cadere in tentazione. Ci sono qua e là tracce di vita vissuta, ma davvero poche. Invece nei personaggi e nel tenore delle storie che racconto, si sente forte il disagio che m’ha accompagnato per lunghi tratti e con il quale ho sancito un armistizio non molto tempo fa. Non posso farci niente e forse è giusto così. Tempo fa lessi i consigli di una scrittrice famosa che raccomandava a chi le chiedeva come si fa a scrivere qualcosa di decente: ‘‘Scrivete dove fa male’’, diceva lei, e forse è proprio questo che c’è alla base di quell’armistizio.

Quali sono gli autori di racconti che più apprezzi e leggi?
Sicuramente Salinger. “Nove racconti” è senza dubbio un punto di riferimento per quanto mi riguarda. Poi mi piacciono Buzzati, Hubert Selby Jr, Joyce (‘‘Gente di dublino’’), Wallace.

Hai l’abitudine, prima di pubblicarli sul blog, di far leggere i tuoi racconti a qualcuno?
No. Sono una persona estremamente riservata per quanto riguarda la sfera dell’intimo, quando voglio far leggere quello che ho scritto, internet, con la sua sterminata platea di amici sconosciuti, è il modo migliore per farlo. Pochi tra i miei conoscenti stretti sanno di questa passione.

T’è mai saltato in mente di scrivere un romanzo o preferisci, come Raymond Carver, rimanere legato alla narrativa breve?
Ho già scritto due romanzi, che poi sono la forma letteraria che preferisco. I racconti mi servono più che altro per allontanarmi e tornarci sopra più tardi, con maggiore distacco, quando riesco a vedere gli errori, i refusi, etc. Uno è in fase di riscrittura, e dovrei riuscire a finirlo entro il prossimo anno. Sono purtroppo anche maledettamente pignolo. Per l’altro, vedremo.

Bene, Enrico, ti auguro di finirli quanto prima e di farceli leggere. Però, mi raccomando, non smettere mai di scrivere racconti. Mi piacciono troppo.



sabato 14 settembre 2013

Pomeriggio d'aprile

È la fine d’aprile e le rondini sfrecciano da una grondaia all’altra, nell’orgasmo di riparare i nidi. Nei giardini le rose, inghirlandate di boccioli, eseguono una gaia sinfonia di colori e nugoli di cetonie volteggiano galanti fra i rami spinosi, tubando con le giovani corolle.
Con un quaderno per gli esercizi di latino stretto all’ascella, Flavio si avvita nella spirale della scala a chiocciola e sale in casa di Marta. Lei lo riceve con un sorriso, lo guida in tinello, e gli dice:
«Non è la villa hollywoodiana dove abiti tu, ma io sono affezionata a queste quattro stanzette. Conosci il proverbio, no? Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia per me sei una badia».
Flavio obietta che malgrado non sia una badia è… accogliente. E comunque, aggiunge, la sua non è una villa hollywoodiana.
«Ma se a scuola non parlano d’altro. Di quant’è grande, di come è arredata e…».
«Quelli gonfiano tutto».
Sotto la disinvoltura sfoderata da Marta, Flavio indovina un’ansia repressa. Anche lui del resto è emozionato; quasi trattiene il respiro.
Lei prepara il tè e lo serve nelle tazze di porcellana del servizio buono e Flavio si pente di non aver comperato un mazzolino di fiori o una scatola di cioccolatini. Dal pavimento filtrano i rumori della falegnameria: lo sfrigolio della sega a nastro, i battiti del martello. Sorbiscono il tè inzuppandoci i biscotti e Flavio osserva gli occhi verde smeraldo, la carnagione chiara e liscia, madreperlacea, i capelli castani, folti, lunghi e ondulati.
***
Tre anni prima, varcando il portone del liceo scientifico “Cesare Battisti”, la consapevolezza d’essere un allievo delle superiori e non più un moccioso delle medie lo aveva saturato d’orgoglio. Con le orecchie frastornate dalla baraonda inscenata da cinquecento e passa alunni si accingeva a spiccare il balzo che, attraverso un temibile – oh sì, di questo ne era certo – quinquennio di studi, lo avrebbe elevato dall’adolescenza ai fasti dell’età adulta. Nell’androne si era urtato con una ragazza e quella ragazza era Marta. Aveva biascicato delle scuse, sbigottito dallo sguardo di smeraldo. Poco dopo l’aveva vista entrare nella sua stessa aula. Lei aveva occupato un posto due banchi più avanti, nella fila a sinistra. Si era girata verso di lui e lo aveva fissato. Flavio aveva subito abbassato gli occhi.
Il primo anno di liceo, il secondo anno e buona parte del terzo erano trascorsi senza che accadesse nulla. Flavio era timido e la timidezza lo paralizzava. Al massimo scambiò con lei qualche parola nei minuti di ricreazione. Per lo più commenti sulla ferocia degli insegnanti e banalità sull’inclemenza del tempo. Sapete com’è, no? Fa sempre troppo freddo, o fa troppo caldo. Stabilì svariate decine di volte di invitarla al cinema, ma al dunque la baldanza gli si era puntualmente sgretolata.
Marta intuì, lusingata, che lui si struggeva nel desiderio di corteggiarla. Un desiderio che non portava a nulla di concreto. Di cascamorti lei ne aveva a bizzeffe. Le ronzavano attorno con la stessa petulanza con la quale i libertini di un tempo assillavano le ballerine di can can. Li teneva alla larga con il bastone di bambagia. Garbata e spiritosa con tutti, senza dare spago a nessuno. Non incoraggiava neanche Flavio. Non apertamente. Perché in verità era con lui meno convenzionale e gli riservava un’unghia di simpatia in più. Sfumatura, questa, che arroventava le fantasie di Flavio e nell’intimo gli alimentava la speranza di piacere a Marta. Poco poco, magari, solo un misero pochettino. E le cose stavano così. Flavio piaceva a Marta. Le piaceva perché era timido e arrossiva se lei gli sorrideva, le piaceva perché non era uno spaccone, le piaceva perché non sapeva farle la corte. Le piaceva. E quando lui, radunando briciole di coraggio piovute chi sa da dove, le aveva chiesto se non le fosse dispiaciuto aiutarlo a risolvere gli esercizi di latino, lei lo aveva invitato a casa, sabato pomeriggio ore quindici e trenta.
***
Flavio depone la tazza di tè e la bacia. Senza stupore lei accoglie il contatto delle sue labbra e gli poggia una mano dietro la nuca e per Flavio è bellissimo perché prima d’ora non ha mai baciato nessuna. Assapora lo zucchero di quegli attimi con la gioia di un bambino che, al risveglio, scopre in camera una bicicletta nuova fiammante. Dopo, si gettano a capofitto sulle frasi di latino e le risolvono con facile rapidità.
Passano i mesi, fitti d’incontri extrascolastici e di baci. A scuola Marta diventa “la ragazza di Flavio” e Flavio diventa “il ragazzo di Marta”. La presenta ai genitori e sua madre commenta:
«Sì, è carina, mica lo nego. Un po’ acerba nei modi, forse. Come dire? Un po’ selvatica. D’altronde, cosa vuoi pretendere dalla figlia di un falegname?».
E Flavio odia sua madre per queste parole.



sabato 7 settembre 2013

Gli amori e i rancori

La Sicilia, verità a nessuno ignota, è un’isola fuori norma. Nel senso che è straordinaria. Lo è in modo incredibile. Sic et simpliciter, direbbero le personcine istruite. Con ogni probabilità ciò ha a che fare con la sua storia e la sua geografia. Posta nel cuore del Mediterraneo, culla di antiche e ormai defunte civiltà, nel corso dei secoli ha visto il proprio suolo via via calpestato da fenici, greci, romani, arabi, normanni, spagnoli, garibaldini e piemontesi. I penultimi e gli ultimi, mi sa, avrebbero fatto meglio a rimanersene a casa loro. La malasorte, purtroppo, lo ha impedito e piangere lacrimoni di coccodrillo serve ora a un bel niente .
Dall’unità d’Italia a oggi l’isola ha offerto allo storia dell’umanità due speciali contributi. Il primo e più originale è costituito dalla mafia, un maleficio che la repubblichina italiana non è all’altezza di estirpare. Il secondo è rappresentato da una serie di scrittori formidabili: De Roberto, Verga, Capuana, Pirandello, Sciascia, Bufalino, Camilleri e, come lui stesso dice, ‘‘scodinzolando con la lingua penzoloni provando a seguire’’, Corrado S. Magro.
Corrado Sebastiano Magro è autore altrettanto straordinario quanto la sua isola, da lui abbandonata in giovinezza. Vive infatti a Schwerzenbach, piccolo comune del cantone di Zurigo, sul cui stemma appare una trota, pesce non impossibile da pescare nelle limpide acque dei dintorni.
Magro scrive racconti (vedi la raccolta ‘‘Il ruggito del Fuoco’’, babyloncafe.eu, in parte dispinibile su liberolibro.it), cioè prose brevi nelle quali scandaglia un ampio universo tematico; romanzi, dai quali emerge in particolar modo la sua giovinezza sicula; satire, dove getta uno sguardo sconfortato su quell’esserino deludente che si fa chiamare homo sapiens.
‘‘Le Chiappe del Demiurgo’’ è il suo più gustoso romanzo satirico. E’ però con ‘‘All’ombra degli aranci’’ e ‘‘Lunedì di Pasqua’’ (parzialmente inediti), l’uno seguito dell’altro e riuniti sotto il titolo di ‘‘Amori e rancori’’, che sfoggia le qualità del narratore di razza. Nessuno avrà pertanto da meravigliarsi se ho voluto sottoporre uno scrittore tanto raro a un coscienzioso interrogatorio.

Cominciamo dai luoghi. Sicilia e Svizzera, due mondi così diversi l’uno dall’altro.
La Svizzera è il paese che mi ha adottato e che io ho adottato. La Sicilia è la terra dove sono nato e cresciuto. Per essa nutro un amore struggente che, nonostante il travaglio che crea, non riesco ad annegare nella fossa dell’Io.
Per spiegarlo meglio ecco uno sguardo sul passato, provando ad essere breve.
Sono nato che il secondo conflitto mondiale bussava alla porta. Un momento di assoluta instabilità e incertezza che, volente o nolente, in parte mi ha condizionato. Ero l’ultimo di sette. Mio padre, profondamente credente e praticante, contadino mezzadro e gran lavoratore, mia madre, credente anche lei ma di spirito più indipendente, casalinga energica in grado di cavarsela riuscendo anche a ripetere ‘‘la moltiplicazione dei pani’’.
A dieci anni mi infilano in un collegio di preti. Apprendere era la sola cosa che mi soddisfaceva. Già allora inziai a cimentarmi con la scrittura: poesie, racconti, giornalino murale. Ricordo che a una mia domanda il redattore della pagina per ragazzi de ‘‘Il Vittorioso’’ (com’era fantastico Jacovitti) mi scrisse che scrittori si diventa verso la terza età. I tempi cambiano e ora si ‘‘scrive’’ nella culla con il ciuccetto in bocca e si scrive come si parla a quell’età. I vecchi sono marciume.
Adolescente, abbandono l’esperienza collegiale disatrosa, con conseguenze che mi sono trascinato dietro per una vita. Da quel momento per me esistevano solo due colori: bianco o nero, onesto o disonesto. Sfumature di grigio? Ci avrei pisciato sopra.
Come poter sopravvivere in Siclia con questi principi senza giocare all’eroe e senza candidarsi alla fame eterna o al martirio? Ma chi ero io a poter recitare questi ruoli? Io che all’uscita del collegio per studiare ho dovuto sempre lavorare?
Poco più che ventenne m’innamoro di una, a dir poco, splendida ragazza. Ci frequentiamo guardandoci a distanza, rubando qualche caldo e raro bacio, pomiciando quando non ci stava nessuno in vista. Le mie cellule cerebrali fumavano. Gli elettroni vorticavano solo ed esclusivamente attorno a lei. Un bel momento il rapporto s’incrina senza che io ne conosca la ragione. Impossibile incontrarla. Lei accetta di allontanarsi seguendo un fratello in Svizzera.
Non inghiotto il rospo e circa un anno dopo rifiuto di partire quale ufficiale dei CC, butto all’aria quasi quattro anni di università, e come uno zombie mi metto sulle sue tracce.
L’incontro (o lo scontro) a Zurigo fu un secondo disastro. Ne uscii prostrato e distrutto, una pezza da piedi. Ormai l’avevo fatta grossa (avevo buttato in aria quasi quattro anni di università) e non c’era da correre ai ripari. Cosciente e conseguente, mi rifiutai di ritornare in Sicilia nonostante i ripetuti inviti dei miei. Avevo sbagliato tutto e non dovevano pagare gli altri per me.
Rimasi in Svizzera a fare l’aiuto manovale: carriola, mazza e pala!
I paesi nordici in generale offrono qualcosa di cui gl’italiani hanno sognato e dovranno sognare anche in futuro se non si stuferanno o se non diventeranno ebeti: se qualcuno ha materia grigia da mettere a profitto, ha solo la difficoltà della scelta per dimostrarlo. Scuole serali e istituzioni di ogni tipo sono pronte ad accoglierti. Paghi fior di quattrini, ma ti danno ben più di quello che investi. Il mio pragmatismo e la chiara visione del futuro mi permisero la giusta scelta: elettronica industriale. Dieci semestri in lingua tedesca (divennero dodici). Un’impresa che oltre al lavoro nel ramo specifico, richiedeva di studiare la notte fino alle due del mattino ed essere di nuovo in piedi alle sei.
Nonostante l’impossibilità di accedere agli esami di stato per motivi vari, finito il corso di studi, il risultato del periodo di prova, di norma quando si cambia datore di lavoro, confermava le conoscenze acquisite e il livello professionale veniva riconosciuto.
Impegni che oltre alla tecnica richiedevano anche conoscenze commerciali e di gestione, mi spingono a frequentare per altri due anni, sempre di sera, corsi di qualifica specifici. Ero quasi sempre l’unico studente di lingua non tedesca. Tenere il passo era una sfida.
Durante questi periodi non posso dire di avere scritto, a parte riempire fogli singoli di appunti, scrivere qualche poesia, qualche satira. Non ho però mai smesso di leggere e di curare con attenzione il mio sviluppo personale.

E la Sicilia?
La Sicilia era ed è ancora la mia meta annuale. Fare le vacanze alle Maldive, alle Canarie o altrove, non mi si addice. Lo rifiuto ritenendolo quasi immorale. Vado in Sicilia per rivedere luoghi e persone che mi hanno visto e che ho visto crescere.

Perché scrivi? E’ una domanda scostumata, lo so, ma sono incorreggibile e te la rivolgo lo stesso.
Scrivere è dare seguito, sbocco a una pulsione che cerca di travasare. Presentare agli occhi di terzi, raccontare tramite eventi veri o immaginari il modo di vedere il mondo con i suoi esseri animati o inanimati. Un modo di far partecipare, di rivivere tutte quelle avventure (lo dico al posto di esperienze) vissute che mi hanno fatto soffrire, gioire, arrabbiare, riflettere. Scrivere mi regala la convinzione (o l’illusione) di comunicare con il mondo. In sintesi, credo di poter dire: scrivere è il connubio tra partecipare e far partecipare.

E i tuoi lettori partecipano, sta’ tranquillo. Scendiamo nei dettagli, iniziando dai racconti.
Mi permettono, senza un impegno prolungato nel tempo, di comunicare in forma variegata seguendo stili e generi diversi. Con essi propongo al lettore una tematica che non si esaurisce dopo il punto di chiusura, ma prova a dargli una spintarella per invogliarlo ad andare più in là.

Poi ci sono i romanzi.
Poca roba pubblicata, tanta in cantiere. In essi c’è lo scopo d’informare, far gustare il sapore, sanguigno come i tarocchi sanguinelli, di eventi che si sono avverati, che si avverano ogni giorno o che si avvereranno domani. Passato, presente e futuro sono inscindibili, considerando il tempo come il segmento che descrive l’emissione del guizzo luminoso del fotone che cede energia dentro un sistema, l’universo, senza inizio né fine.

Nei romanzi dai ampio spazio alla tua giovinezza sicula.
Come tacere su questa fase di vita che mi ha scombussolato, plasmato nuovamente e forgiato per la sfida e la lotta senza quartiere con me stesso, il mio più grande amico e nemico?

Infine, la satira.
E’ il risultato di un mix (scusatemi il termine usato nel marketing) tra il piacere della burla, il riso, la rabbia, e la frustrazione fino alle lacrime. E’ una reazione che posso sentire, vivere e manifestare osservando quello che succede a tutte le latitudini terrestri. L’essere, appena può, si regala la licenza di commettere il suo più grande crimine: sacrifica coscienza e conseguenza.

E adesso, se non ti dispiace, dimmi qualcosa della tua vita privata.
Perdonate se la definisco handicappata e non privata. Credo che respirando sia stato contaminato da molti degli elettroni che Immanuel Kant emise durante la propria vita. Una volta deciso di metter su famiglia più per raziocinio che per passione bruciante, ho accettato il ruolo senza ma e senza perché, dedicando tutte le risorse disponibili a chi ha vissuto ed è cresciuto tra le pareti che ho abitato.

Hai figli? E se sì, quanti?
Non so se è merito mio poter essere soddisfatto dei tre maschi che fisicamente oltrepassano di ben oltre un palmo il canuto padre che si arresta a 176 cm, e che professionalmente hanno trovato da tempo le propria strada nei più diversi settori, forse anche per merito di quella Svizzera che ha offerto loro i mezzi per continuare il processo di autorealizzazione che non si arresta mai e si chiuderà quando esaleremo l’ultimo respiro. Non sono mai intervenuto sulle loro scelte mettendomi di traverso, ma ho preteso che tenessero un comportamento conseguente. Fino al presente ne è valsa la pena.

Le loro compagne?
Spose o conviventi, coltivo con loro un rapporto familiare, paritetico, aperto, senza bizantinismi di sorta, senza salamelecchi, e lo stesso pretendo nei miei riguardi.

Nipotini ne sono arrivati?
Qui per il momento devo riferire al singolare. Forse non ho spiegato bene ai figli come e cosa avrebbero dovuto fare e così è stato solo il più giovane che ha osato varcare la linea e mi ha appiccicato i galloni di nonno (come i militari che in pensione diventano generali) regalandomi una nipotina nata a ottobre 2012 e che con la sua curiosità non ha tempo di piangere o di annoiarsi, sempre intenta alla scoperta del nuovo. Ne verranno altri? Non sta a me adoperarmi. Se ne arrivano siano i benvenuti.

Quali attività lavorative hai svolto prima di dedicarti anima e corpo alla scrittura?
Contadino che lavora la terra come nella preistoria, apprendistato di analista chimico, studente lavoratore, breve presenza sui caccia come allievo ufficiale pilota subito defenestrato, aiuto manovale all’estero, operaio elettronico, diploma d’ingegnere in elettronica industriale e relativa attività di sviluppo, costruzione e applicazione di automatismi (robot in senso lato) in campo europeo, gestione di piccole entità industriali, progettazione e vendita di sistemi elettronici professionali per ricerca, automazione, robotica, comunicazione, medicina nucleare, informazione nei vettori dei trasporti pubblici.

Interessi in altri settori?
Sviluppo interpersonale, analisi bio strutturale, programmazione neuro linguistica, neuroplasticità, evoluzione della quantistica, l’energia e il ruolo che assume l’essere umano alla luce delle nuove scoperte. Letture: saggistica, narrativa di vario genere, economia.

Esperienze editoriali?
Credo sia più opportuno tacere, evitare di riferire, descrivere un bubbone pestifero e infetto.

Progetti futuri ne hai?
Sì, ma preferisco tacere, per il momento.

Bene, Corrado, è tutto. Da una vita intensa come la tua potevano scaturire soltanto libri intensi come i tuoi. Nulla, del resto, avviene per caso e ogni parola in più appare superflua.