venerdì 28 febbraio 2014

Dallo stato sociale allo stato immorale

Le patetiche disavventure degli staterelli disuniti d’Europa (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda) ci offrono un quadro atroce e sconcertante dell’involuzione che ha colpito come una lebbra l’azione pubblica.
Attraverso la sistematica opera di distruzione del reddito nazionale, i politicanti al governo in questi paesi stanno trasformando lo stato sociale, ossia l’economia del benessere garantito a tutti, in stato antisociale, creando cioè un’inedita economia del malessere.
I governi dell’eurozona che infliggono con deliberata intenzione gravi colpi alle condizioni di vita dei propri cittadini perseguono un fine tanto immorale quanto tecnicamente assurdo. A giustificazione delle loro condotte scriteriate vi è la speranza di non farsi cacciare dalla moneta unica. Cercano in sostanza di resistere alle imposizioni tedesche che si concretizzano, nei fatti ma non nelle dichiarazioni ufficiali, nello sforzo di buttar fuori dall’euro i paesi in crisi.
Il problema è sorto nel 2010 con la questione del debito sovrano greco, il cui governo ammise di trovarsi in una situazione finanziaria tanto difficile da non essere sicuro di poter rimborsare ai creditori i suoi titoli pubblici in scadenza. L’Unione europea e il Fondo monetario internazionale intervennero con un programma di aiuti condizionato, su espresse insistenze tedesche, all’attuazione di politiche economiche procicliche. Vale a dire che la Grecia, se desiderava ricevere gli aiuti, doveva pesantemente aumentare le imposte e tagliare con la scure la spesa pubblica.
Gli esiti di tali politiche erano scontati. La crescita della pressione fiscale e il taglio delle spese statali avrebbero irreparabilmente danneggiato l’economia greca e reso impossibile risanare i conti pubblici. Sono effetti che i tedeschi conoscono bene, avendoli sperimentati dal 1930 al 1932 sulla propria pelle.
Per arginare i contraccolpi del crollo della borsa di Nuova York, avvenuto nell’ottobre 1929, prima il cancelliere Heinrich Brüning e poi il suo successore Franz von Papen, seguendo strategie identiche a quelle oggi tanto di moda nell’eurozona, realizzarono un immane capolavoro economico, valutabile in sei milioni di disoccupati, e spianarono la strada ad Adolf Hitler, che il 30 gennaio 1933 venne nominato cancelliere dal presidente von Hindenburg.

La ‘‘cura tedesca’’ propinata alla Grecia ebbe immediate ripercussioni sugli altri paesi zoppicanti dell’eurozona, facendo schizzare all’insù gli interessi sui loro titoli pubblici. A quel punto l’euro sembrava morente. Un fatto ha però inceppato i piani di battaglia teutonici. La Banca centrale europea ha sostenuto, con operazioni di mercato aperto, i corsi delle obbligazioni degli stati in bilico, abbassandone così i rendimenti. Il suo presidente Mario Draghi ha poi inoltre dichiarato d’essere pronto a fare tutto quanto necessario per impedire il frantumarsi della moneta unica. Avrebbe cioè acquistato senza limiti i titoli statali dei paesi in difficoltà. Se l’Italia, o la Spagna, o la Grecia, o il Portogallo, o l’Irlanda non sono finora usciti dall’euro lo si deve dunque a Mario Draghi.
L’operato della Bce non è affatto piaciuto al governo tedesco che, per rintuzzarlo, ha subito alzato la posta, costringendo i paesi dell’Unione a sottoscrivere il cosiddetto patto di bilancio (fiscal compact). La trovata, bisogna ammetterlo, è micidiale. Obbliga gli stati a perseguire il pareggio di bilancio e a ridurre in venti anni il debito pubblico, al ritmo di un ventesimo all’anno, entro la soglia del sessanta per cento del pil. Nessuno, naturalmente, ci riuscirà mai.
Non solo, ma la corte costituzionale tedesca si è di recente rivolta alla corte europea affinché dichiarasse illegittimo il proposito espresso dal presidente della Banca centrale europea di acquistare senza limiti titoli pubblici sul mercato secondario, in quanto violerebbe il trattato di Maastricht, che proibisce all’istituto d’emissione di finanziare gli stati.
E’ insomma una guerra senza esclusione di colpi e c’è da chiedersi se vale davvero la pena combatterla. Una cosa è certa, se l’Unione europea a trazione tedesca non cambia rotta, rimanere nell’euro a tutti i costi prima o poi diventerà un inferno.
Dunque, delle due l’una: o i tedeschi cambiano registro, oppure diciamo ciao all’unione monetaria.



venerdì 21 febbraio 2014

Come proteggersi dai politicanti

Le recenti vicende accadute in alcuni paesi dell’eurozona pongono al centro dei nostri urgenti interessi la ricerca di adeguate tutele da politiche economiche nocive. In altre parole, è indispensabile limitare la pericolosità dei politicanti.
Gli elementi oggettivi sui quali intavolare il discorso sono due.
Primo, i politicanti hanno il tremendo potere di manovrare a piacimento i rubinetti della spesa pubblica e d’imporre tributi a cittadini e imprese. Come la recente e antica esperienza storica ci dimostra, possono fare l’una e l’altra cosa con incredibile incompetenza e spiccato senso d’irresponsabilità.
Secondo, la relazione tra grandezze economiche è di tipo dinamico, non statico. Ciò significa, per esempio, che un aumento della pressione fiscale determina inizialmente una crescita del gettito tributario ma poi, specie se il prelievo fiscale e parafiscale ha già superato la metà del prodotto interno lordo, cadono i consumi e gli investimenti, cioè il valore della ricchezza prodotta, e si restringe così la base imponibile dalla quale lo stato attinge le entrate, che per forza di cose si riducano.
Detto in altri termini, un aumento delle imposte, soprattutto se accompagnato da un contemporaneo taglio alle spese pubbliche, danneggia il sistema economico e impedisce un risanamento della finanza statale, poiché il debito sale anziché scendere. Politiche economiche di tal fatta accrescono soltanto il numero di aziende che chiudono, nonché il numero dei disoccupati. Spagna, Grecia, Irlanda Portogallo e Italia, avviandosi in questi ultimi anni per la triste china che sappiamo, hanno fornito un’ampia prova della inutilità e disumanità di politiche economiche suicide.
I politicanti, ciò malgrado, se ne sono altamente infischiati e finora non mostrano alcuna intenzione di voler correggere le loro sconsiderate condotte antisociali.
Dunque, dobbiamo proteggerci.

Agli inizi del 2012 venticinque nazioni appartenenti all’Unione europea hanno sottoscritto il cosiddetto patto di bilancio (per gli anglofoni, fiscal compact). Inglesi e cechi hanno preferito astenersene.
La pietanza forte del nuovo trattato è rappresentata dall’obbligo, per gli stati, di perseguire il pareggio di bilancio, regola recepita con norme di rango costituzionale nelle varie legislazioni nazionali. Il parlamento italiano vi ha provveduto nel luglio 2012.
Il vincolo del pareggio di bilancio ha ricevuto molte critiche, la più seria delle quali sottolinea l’impossibilità, qualora la congiuntura economica lo imponga, di attuare politiche economiche anticicliche tramite la spesa in deficit. Un ulteriore elemento suscita poi non poche perplessità. Mi riferisco al fatto che i politicanti possano sentirsi indotti a raggiungere il pareggio non riducendo privilegi, sprechi e spese improduttive, ma aumentando semplicemente le tasse. Il che equivale a gettare benzina sul fuoco.
Poiché nulla ci garantisce che i politicanti di colpo rinsaviscano e la smettano di aprire senza criterio i rubinetti della spesa pubblica, l’unica speranza che abbiamo di fargli diminuire gli sprechi e le inefficienze consiste nello stabilire un limite costituzionale alla pressione fiscale. Insomma, dobbiamo togliere un po’ d’acqua ai pesci. O, per essere più precisi, togliere acqua agli squali.
Se nella costituzione venisse introdotta una norma che fissi al quaranta per cento del reddito nazionale l’ammontare massimo delle imposte esigibili, si ridarebbe fiato all’economia per effetto del ridotto onere fiscale, abbattendo in misura considerevole la disoccupazione, e s’imporrebbe una concreta disciplina agli spreconi al governo.
I soldi facili, in mano ai politicanti, diventano letame. Più gliene diamo, peggio è per noi. Il brutto andazzo va quindi corretto e la soluzione è una sola: dobbiamo dargliene, per legge, di meno.



venerdì 14 febbraio 2014

La miseria si paga in euro

Finora il peggior regalo che uno stato poteva fare ai propri cittadini era rappresentato dalla guerra. Ogni guerra incomincia sempre con un perentorio invito dei politicanti indirizzato al popolo:
«Armiamoci e partite».
I politicanti hanno però taciuto tutte le volte il loro pensiero susseguente:
«E se crepate, amen».
I popoli, alla lunga, si sono scocciati di crepare. Ciò ha reso la guerra invisa all’opinione pubblica e, almeno nelle democrazie, oggigiorno nessuno tollera più lo spirito bellicista. Perciò, se vuoi i voti, non devi predicare la guerra. Vengono a malapena sopportate soltanto le cosiddette operazioni di pace, chiamate anche operazioni di polizia internazionale, che poi altro non sono che guerre coperte alla bell’e meglio dalla foglia di fico dell’Onu.
I politicanti ne sanno comunque una più del diavolo e per imporre inutili sofferenze ai loro concittadini ne hanno studiata un’altra.
«Se non puoi ammazzarli con la guerra», hanno pensato, «è possibile ad ogni modo ridurli alla miseria».
Grazie all’euro, ci sono riusciti.

In alcuni paesi d’Europa, come sappiamo, l’euro è diventato la moneta con la quale si compra la miseria, la moneta con la quale si distrugge il benessere di gran parte della popolazione.
Consentitemi di riepilogare brevemente i fatti, perché se ne trae una lezione davvero istruttiva.
Nel 2010, scoppiata con il caso greco la crisi dei debiti sovrani, il membro più potente dell’Unione europea, ossia la repubblica federale tedesca, ha agito con determinazione per tutelare i propri interessi.
La grave situazione finanziaria dello stato greco, lì lì a un soffio dal perdere la capacità di onorare i propri debiti, avrebbe potuto costar caro alle banche tedesche, come anche a quelle francesi, poiché detenevano in portafoglio considerevoli quantità di titoli pubblici ellenici.
Le banche tedesche si erano di recente ritrovate coinvolte pure nel tonfo dei titoli tossici americani. Al governo di Berlino il loro salvataggio era costato, almeno secondo alcune stime, qualcosa come cinquecento miliardi di euro. Se la Grecia avesse dichiarato bancarotta, la Germania si sarebbe dovuta accollare per intero un altro salatissimo salvataggio delle proprie banche.
Dunque, la Grecia andava salvata.
E chi avrebbe dovuto salvarla?
Ma le istituzioni internazionali a ciò preposte, ovvio!
L’esistenza del Fondo monetario internazionale, della Banca centrale europea e dell’Unione europea, tre decantate e generose istituzioni sovranazionali, ha perciò consentito ai tedeschi di dividere con altri paesi europei e con il Fondo monetario il costo del salvataggio delle proprie banche, nonché di quelle francesi, spacciandolo per salvataggio della povera Grecia.

Naturalmente, tutto ha un prezzo. Si è perciò consentito alla Grecia di ricevere gli aiuti solo a patto di aumentare le tasse e ridurre la spesa pubblica. Ossia, di distruggere la propria economia e di rendere in tal modo matematicamente impossibile un risanamento delle finanze pubbliche, scaricando in mezzo alla strada una valanga di disoccupati.
Le stesse politiche economiche suicide le stava nel frattempo attuando la Spagna, malgrado si trovasse perfettamente in regola con i vincoli imposti dal trattato di Maastricht. Il suo deficit pubblico era infatti inferiore al tre per cento del prodotto interno lordo e il debito dello stato si trovava ben al di sotto del sessanta per cento in rapporto al pil. Gli spagnoli hanno operato in tal modo nella speranza di correggere il rosso della loro bilancia commerciale, che anno dopo anno cresceva sempre più. Meno consumi, avranno pensato, meno importazioni. Risultato? Un sistema economico danneggiato in maniera spettacolare, debito pubblico alle stelle e una valanga di disoccupati in mezzo alla strada.
Le stesse politiche sono state poi imposte anche agli irlandesi, ai portoghesi e a noi italiani. Da noi il numero di disoccupati non ha ancora raggiunto le percentuali di Grecia e Spagna perché i nostri politicanti non sono all’altezza di tagliare la spesa pubblica, essendo solo capaci di aumentare le tasse. Non tutte le incompetenze vengono per nuocere, è il caso di dire.

Ma perché i tedeschi ci ordinano di seguire politiche economiche tanto irrazionali, tanto autolesioniste? Si chiederà qualcuno.
Perché vogliono cacciarci dall’unione monetaria, ecco perché. Inoltre, i flussi di capitale hanno smesso di dirigersi dalla Germania alla periferia. Succede ora il contrario. I soldi, come si sa, fanno gola a tutti, specie ai più ricchi.
E perché i nostri politicanti obbediscono senza fiatare agli ordini emanati da Berlino? Non esistono soluzioni alternative?
Le soluzioni alternative esistono eccome. La più semplice consiste nell’unificare il debito pubblico dei paesi dell’eurozona, emettendo i cosiddetti eurobond, ma i tedeschi la rifiutano con sdegno. L’altra sarebbe la monetizzazione del debito pubblico da parte della banca centrale, ma il trattato di Maastricht la vieta e i tedeschi non intendono riscriverlo.
E allora?
E allora niente. Chi continuerà ad aumentare le tasse e a ridurre la spesa pubblica prima o poi dichiarerà bancarotta e verrà cacciato a calci nel sedere dall’euro.
Vogliamo scommettere?
Vi consiglio di no, vincerei io.



venerdì 7 febbraio 2014

L'assessore scalognato

I politicanti ne combinano talmente tante che fanno ormai tenerezza. Sono a volte così patetici che un sentimento robusto come la rabbia nemmeno lo meritano più. Per loro possiamo al massimo provare pena, addolcita da un pizzico d’ironia.
Sentite questa e ditemi se non ho ragione.
I personaggi principali della simpatica vicenda sono due, un assessore regionale alla cultura e la sua segretaria, finiti entrambi agli arresti domiciliari per una faccenduola di mazzette.
L’assessore avrebbe avuto l’intenzione di riscuotere da un operatore culturale parte di un contributo regionale stanziato per le celebrazioni in onore di un famoso vate. Il presunto concusso ha però preferito denunciare l’assessore, portando come prova una registrazione audio effettuata con il suo cellulare d’ultima generazione mentre colloquiava con il politicante.
L’audio, da chiunque udibile in rete, contiene richieste e suggerimenti rivolti dal presunto concussore al presunto concusso. Quest’ultimo, in sostanza, avrebbe dovuto gonfiare l’ammontare del contributo regionale destinato a celebrare il vate ed elargirne, dopo l’incasso, un tot all’assessore.
Successivamente la segretaria del politicante avrebbe telefonato più volte all’operatore culturale, sollecitandolo a saldare il ‘‘credito’’ che l’assessore vantava nei suoi confronti.
Una situazione molto poetica, non c’è che dire. Ma queste sono soltanto le prime rime del poema. Le strofe più ridicole sono state scritte dopo gli arresti della donna e del suo ex capo, divenuto infatti subito ex per effetto delle immediate dimissioni dalla carica.

Ad arresti avvenuti, e trascorso un lasso di tempo ragionevolemente breve, sui giornali finisce la fotostatica di un contratto ritrovato nell’abitazione della segretaria, per l’esattezza dentro il secchio dell’immondizia e ridotto ormai in mille pezzi.
I contraenti, guarda caso proprio l’assessore e la segretaria, vi stipulavano un preciso e regolare rapporto di meretricio, consistente in quattro prestazioni al mese per la modica cifra di tremila euro mensili.
La segretaria, sposata e madre di una bimba, e che fra l’altro deve l’assunzione in regione all’assessore, dichiara intanto di appartenere a un partito politico diametralmente opposto a quello nel quale milita l’uomo. Costui è infatti esponente di un movimento politico creato da un noto femminista, mentre lei aderisce a un partito nato dalla fusione di rottami comunisti e democristiani.
Il gerarca locale del partito dei rottami, appurate le improvvide, almeno secondo lui, esternazioni ideologiche della donna, emette a velocità supersonica un comunicato nel quale rende a tutti noto che lei da tempo non ha più la tessera. Insomma, rottami sì, ma qualche altra cosa no.
In verità, le prese di distanza del gerarca si sono rivelate superflue, perché si viene in breve a sapere che nel fascicolo del procedimento penale quel contratto non figura. Dunque, prove alla mano, la segretaria non è mai stata quello che i maligni avevano supposto.
La donna, in compenso, non ha mancato di riferire agli inquirenti che l’assessore voleva avvelenare la moglie. A carico dell’indagato è stato dunque avviata una nuova indagine. Nel frattempo rimane agli arresti domiciliari, cioè rinchiuso in casa insieme alla legittima consorte, nonché presunta vittima di un presunto vagheggiato omicidio. La segretaria ha invece ottenuto la revoca delle misure cautelari.

Una catena di Sant’Antonio di paradossi tanto esilaranti poteva verificarsi solo nella repubblichina delle macchiette, cioè l’Italia. Non poche risate sono scappate anche a me, lo confesso. Ma al divertimento iniziale ha fatto seguito lo sconcerto e la compassione.
Ho compassione per quel politicante, ignara vittima di se stesso, che non ha più nessun santo al quale votarsi. Non di certo potrà rivolgersi a San Valentino, sarebbe quanto meno poco opportuno. Né gli sarà utile pregare Barabba, che santo non è.
Mi dispiace per lui. Per lui, non per gli altri interpreti della farsa.