sabato 31 agosto 2013

La tela di Sant'Agata

Il Novecento letterario italiano, contrariamente a quanto credono gli spiriti semplici (tra i quali si distinguono – salvo errori ed omissioni, s’intende – i professorucoli di liceo, gli intellettualoidi provvisti contro natura di cattedre universitarie e, dulcis in fundo, i sedicenti critici letterari), ci ha lasciato una scia autoctona di giallisti di prim’ordine.
I grandi nomi del giallo-noir italiano, anzi italianissimo, sono racchiusi in un elenco sì ristretto, però composto esclusivamente da scrittori di gran razza. Il capofila, in ordine di tempo, fu Augusto De Angelis, che con tecnica magistrale e prosa accattivante tracciò per primo il solco su campi dove i letterati di casa nostra si erano fin allora dimostrati incapaci di spargere semi e di raccogliere frutti.
Ai libri di De Angelis si aggiunsero, negli anni successivi, opere firmate da autori che non solo sarebbe riduttivo, bensì falso, definire semplicemente “di genere”. E infatti fra i più bei noir di pretta marca italiana si annovera Il segreto di Luca, di Ignazio Silone, pubblicato nel 1956 (mi sembra già d’udire gli acuti lai degli spiriti semplici, che tuttavia smetterebbero subito di starnazzare se imparassero a leggere), cui seguiranno Il giorno della civettaA ciascuno il suo e Una storia semplicedi Leonardo Sciascia. Negli ultimissimi lustri, fortunati noi, i pionieri e i maestri dei decenni passati sono stati rimpiazzati da romanzieri come Carlo Lucarelli e il geniale Andrea Camilleri.
E non soltanto, perché ve ne sono molti altri, e di uno di loro adesso vi parlerò.
È, strictu sensu, una giallista, non un giallista, la qual cosa fa una certa differenza, checché ne pensino i succitati spiriti semplici. Ciò succede perché nessun uomo, per quanto abile scrittore sia, mein primis, avrà mai la capacità di tinteggiare i personaggi utilizzando quei garbati toni pastello con i quali Patrizia Morlacchi, squisita signora lombarda trapiantata da un quarto di secolo in Molise, ha soffuso i protagonisti del suo romanzo d’esordio, intitolato La tela di Sant’Agata (Pironti, 2005).
Le vicende narrate, ambientate nel Salento, si aprono con il furto di un dipinto del pittore secentesco Orazio Riminaldi, avvenuto nella villa appartenuta a un celebre storico dell’arte, Alberigo Moro, defunto ormai da qualche anno, e si sviluppano in un intensificarsi di emozioni e delitti presenti e passati.
L’investigatore, commissario molisano dal curioso nome dannunziano, vale a dire Eraldo Sparvieri – e non invece Ciccio Ingravallo, come a suo tempo l’ingegner Gadda, per il suo Pasticciaccio, seppe scegliere con obiettività millimetrica e sarcastico realismo – s’inoltra su terreni sempre più minati avvalendosi dell’appoggio di altri due simpatici eroi. Uno è la dottoressa Vera Cattaneo, fine e delicata esperta milanese di arti tessili, le cui sembianze celano senza dubbio l’alter ego dell’autrice. L’altro è un sanguigno soggetto ispirato a un nativo di Montenero di Bisaccia, che Patrizia Morlacchi non ha esitato a migliorare di gran lunga rispetto al modello originale, trasfigurandolo in un personaggio, l’avvocato Morcone, capace d’esprimersi in lingua italiana senza strafalcioni da matita rosso-blu.
Trattandosi di un giallo, neppure mi azzardo a riassumerne la trama che, vi assicuro, seduce il lettore con risvolti e colpi di scena di sicura presa. Mi limiterò, al riguardo, a una schietta considerazione tecnica, come del resto ci si aspetta da uno del ramo quale il sottoscritto. E a tal proposito mi corre soprattutto l’obbligo di evidenziare come il plot non sia affatto di tipo elementare e schematico: delitto-investigazione-scoperta del colpevole. È invece strutturato “a catena”, i cui singoli anelli si legano l’uno all’altro in un crescendo criminoso che pone, alla fine, l’investigatore davanti a una scelta. Ossia, a un sacrificio investigativo.
Non si pensi, ad ogni buon conto, che una struttura tanto originale sia sciupata dalla Morlacchi allo scopo puro e semplice di dimostrare la propria bravura, senza cioè porla al servizio dei temi morali affrontati nel romanzo. Tutt’altro. Le competenze tecniche sfoderate dall’autrice rappresentano soltanto lo strumento per offrire a noi lettori una piena testimonianza dell’amara realtà, politica e giudiziaria, dell’Italia d’oggi.
E questo, signori, si chiama talento.



sabato 24 agosto 2013

Enrico Mattioli, scrittore


Se ne pizzichi uno ti vien subito voglia di scoprire i suoi segreti, è normale.
«Pizzicare chi?», vi chiederete.
Be’, uno scrittore con i fiocchi. Non crederete mica che se ne trovino uno a ogni angolo, com’è invece per le battone e i politicanti.
«E quali segreti vuoi scoprire?».
I segreti del suo ingegno. O forse pensate che per scrivere come Dio comanda basti un colpo di lato B?
Serve testa, sudore e un paio d’occhi capaci di perforare la realtà. Doti che a Enrico Mattioli – er Bukowski de noantri, come lo chiamo io – non mancano. L’ho perciò sottoposto a un serrato interrogatorio, curioso di conoscere la sua testa e i suoi occhi.

Enrico, come diavolo fai a scrivere così maledettamente bene? Raccontami del tuo apprendistato.
Dunque, affermi che io scriverebbi bene… ti aringrazio, non so quanto questo risponda a verità. Il fatto di usare una forma d’arte per esprimermi è un malanno che mi colpì fin dalle scuole superiori, quando formai un complessino di musica rock and blues. Ma non saremmo andati lontani, non c’era troppa qualità e forse nemmeno ardore. Poi, iniziai a lavorare. La vita che si conduce, la noia, l’aridità, spesso ti portano a cercare qualcosa di diverso. Insomma, quella necessità di esprimermi in una stramba forma d’arte non era cessata.
Iniziai a scrivere per una disavventura lavorativa, usai la scrittura tipo una valvola di sfogo, come tutti. Non riesco a capire se sono cresciuto da allora, magari sì.

Che concezione hai della scrittura? Tu parli spesso di arte, mentre io preferisco definire quella del narratore un’attività di tipo artigianale.
E’ complicato parlare di scrittura. Non esiste un’accademia di scrittura. Esistono scuole di scrittura, ma non so quanto siano efficaci. Non riesco a dire se sia una forma espressiva che si possa insegnare a un altro. Per certi aspetti la scrittura è artigianato senza particolare educazione, o almeno, non nel senso comune del termine.
Però devi sbagliare molto, per continuare. Devi credere che questo artigianato – il tuo mi pare il termine più corretto, in fondo – non faccia per te. Devi gettare via un’infinità di roba, ho sempre pensato che chi scrive debba più sfoltire ed eliminare che scrivere. Devi avere una grande capacità di autocritica, perché non è mica facile eliminare un file. Se sopravvivi a questi traumi, forse la scrittura potrà essere la tua strada. Ma non è detto.
Riguardo a me, credo che ci sia un qualcosa che si può solo “sentire”. Hai un foglio davanti a te, cominci a scrivere, riesci a riprodurre un’immagine o una situazione. Lo rileggi, lo correggi, provi, cambi, tenti di verseggiare, di rendere poesia in quelle righe. Questo è ciò che mi è ignoto. Il resto è mestiere. Una trama, i personaggi, gli agganci, gli approfondimenti.
A fronte di tutto devi leggere. Molto. Tanto. Spesso l’ambiente della scrittura e dell’arte in genere è quello in cui si legge di meno. E poi, devi stare attento a non confondere l’arte e la cultura con la tendenza.
Spesso chi scrive cerca solo un genere che abbia un seguito. Spesso chi scrive cerca solo la notorietà. Spesso chi scrive pensa che il suo sia un capolavoro assoluto. Questi sono gli errori che si commettono. Riguardo all’ambiente dell’editoria, finché si continuerà a pensare a essa (l’editoria) in termini di bilancio e di fatturati e credere che dopotutto una casa editrice è un’azienda come un’altra, penso che non si uscirà dal tunnel.
C’è l’auto pubblicazione, certo. Non so dire quanto sia terapeutica, di certo è sempre meglio che pubblicare a pagamento, un aspetto, questo, da evitare in modo assoluto.
Il fatto di aver suonato in passato, poi di aver fatto dei tentativi di scrittura per il teatro, di aver conosciuto attori e attrici, registi, ai quali ho rubacchiato qualcosa, probabilmente ha dilatato le mie ispirazioni.
In quello che scrivo, ci sono sempre dei personaggi che fanno fatica a vivere, che portano alla luce dei disagi. In fondo chi si occupa di queste cose è dentro le cose ma deve esserne anche fuori, credo sia necessario guardare alle faccende della vita con una lente distorta che ti permetta di poterne dare una rilettura.

Quali sono i tuoi tic professionali? Scrivi di notte o di giorno, usi la matita o la penna?
In genere scrivo di giorno, penso che sia retorico il pensare allo scrittore che attende l’ispirazione. Un minimo di metodo ci vuole. Alla fine, come in tante cose, è una sintesi. Per scrivere uso il pc, ma poi per correggere mi piace stampare e proseguire con la penna.

Parlami della tua vita privata. Hai mogli, figli, amanti, cani, gatti, o no?
Non sono sposato. Sono reduce da una convivenza e ora me ne sto a respirare. Del resto, non puoi cercare una persona semplicemente perché se ne stia lì ad aspettarti. Se avessi dei figli o una famiglia, certo potrei dedicare poco tempo alla scrittura.

Passiamo ora alle tue creature, ai tuoi libri.
Dunque... tralascio di dire che i libri sono come dei figli e bla bla bla, perché è chiaro che sono affezionato a quello che ho scritto, altrimenti non lo avrei nemmeno pubblicato. Ho scritto molto - come ti raccontavo in altra parte - forse troppo e ho gettato via di più. Credo di aver composto una trentina di cose ma di averne pubblicate solo sei. Ma anche quelle sei, oggi ti dico che avrei potuto migliorarle.
Avvisiamo la gentile clientela è la storia di un gruppo di lavoratori di un supermercato che finiscono in cassa integrazione. Il vero protagonista è l’ambiente di lavoro e ho tentato di trattare la connessione che c’è tra le merci e le persone che lavorano in un posto come quello, che per me è un tempio del consumismo dilagante, un centro moderno della "roba" di verghiana memoria, anche se in quel caso il protagonista Mazzarò è ossessionato dalla roba al punto che in prossimità della morte con l’eventualità della separazione dai beni materiali, lui tenta di uccidere i suoi animali perché vuol portare quella roba con sé; nella mia storia, il rapporto con le merci è di puro consumo, si acquista e si getta via per consumare dell’altro, l’affezione alle cose non è concepita ed è probabile che sia un segno dei tempi.
Adesso sto provando a scrivere un seguito con un’ottica diversa, diciamo tipo Full Monty, il titolo èLa città senza uscita, ho pubblicato qualcosina sul mio sito perché volevo farne una storia on line, ma visto che mi veniva bene (e non era previsto) ho interrotto e ora ne farò una storia da pubblicare. Vedremo.
Per quanto riguarda Storie di qualunquisti anonimi, mi piace, mi soddisfa, ma oggi eliminerei alcuni aspetti. E’ un romanzo breve, diciamo, una storia minimalista ambientata a Roma in cui cerco di descrivere i sentimenti di un gruppo di ragazzi disillusi dalla vita, dalla storia del nostro paese, che sembrano non credere più in nulla e cercano solo vendette. Vendette sane, ovvio, reazioni a soprusi che ritengono di aver subito.
Il bamboccione, il titolo spiega già molto, è invece un racconto e non un romanzo. Quando sentii quella dichiarazione tristemente famosa, ebbi un sussulto di rabbia e decisi di scrivere la storia di un precario costretto a vivere in famiglia. A parte il fatto che non mi pare un reato e si risponde solo a se stessi delle cose che si fanno e di dove si decide di vivere, penso che chi ragiona e sparla su certe tematiche, che sia un politico o un uomo della strada, sia abbastanza lontano dalla vita delle persone, dai problemi reali. Per molti la crisi di oggi è cominciata tanto tempo fa, e quei molti sono i bamboccioni, appunto. Nulla nasce dal niente e per caso.
Ciangaloni Ciangoni è una storia di resistenza quotidiana. Il personaggio lavora in un albergo come addetto di servizio ai piani e ha un singolare passatempo: raccogliere la posta delle associazioni onluns che gli scrivono per un aiuto, sensibilizzando sulle questioni del terzo mondo. In questo modo, Nick La Puzza, il protagonista, fa un parallelo tra la civiltà industrializzata e i paesi poveri, arrivando alla conclusione di non aver alcun merito per essere nato in un paese sviluppato.
Merda! è un’incursione nel sottobosco dell’arte e dello spettacolo. Il titolo è solo l’augurio che si usa nell’ambiente. Non esiste solo il gossip e la vita patinata. Ci sono molti attori e attrici brave che continuano a lavorare nell’ombra perché non hanno aderenze. Il protagonista è uno che inventerà di recitare per le strade di Roma, ai semafori, i monologhi sul Risorgimento italiano e portarli fino in Sicilia, a Marsala, ricalcando il percorso dei Mille.
La rivoluzione che non c’è è un romanzo che saltella tra il surreale e il reale, dove miti e mitomani s’incrociano, in cui il protagonista si troverà, suo malgrado, coinvolto in un’operazione che ha come scopo il blocco del segnale televisivo e l’occupazione delle banche.

Grazie, Enrico, mi hai risposto con pazienza sorprendente. Ho capito che poni l’arte di scrivere al centro della tua vita e ciò spiega perché hai raggiunto livelli tanto notevoli. E del resto, avevo già nutrito fondati sospetti.



sabato 17 agosto 2013

Come muore un rumeno

1.
Questa è una storia tragica che, contrariamente al solito, preferisco raccontare partendo dalla fine anziché dall’inizio. O, per essere più esatti, quasi dalla fine, dato che il nostro sfortunato eroe ancora non è morto. La sua bara non è stata ancora chiusa.
Ciò premesso, arrivo subito al dunque.
Se vi capitasse di leggere sul giornale un titolo del tipo ‘‘Rumeno folgorato da una scarica di ventimila volt mentre tenta di rubare i cavi di rame in una cabina dell’Enel’’, è chiaro che vi verrebbe da sghignazzare a crepapelle. Non è il primo e non sarà l’ultimo rumeno a rimetterci le penne in maniera tanto eccentrica.
L’amore per il rame è pericoloso, in primis.
In secundis, tutto è bene ciò che finisce bene.
Nel caso però abbiate conosciuto quell’uomo, nel caso abbiate conosciuto sua moglie, nel caso abbiate conosciuto la loro bambina di tre anni e mezzo il sarcasmo non vi sorgerà spontaneo. Sarete invece travolti dalla pietà e dalla tristezza.
Il folgorato, un simpaticissimo ventinovenne alto e magro, si chiama Fëdor. L’undici luglio, intorno alle otto di sera, ha scavalcato il recinto di una cabina di trasformazione dell’Enel. Vi si è avvicinato e ha cercato di arrampicarsi al piano rialzato, finché, toccando con la mano un cavo, non è rimasto fulminato dalla scossa.
Il fatto è avvenuto a sud di San Leonardo, la cittadina adriatica dove abito, nei pressi di un campo di volo utilizzato da deltaplani e ultraleggeri. Un particolare rende insolito l’episodio. Una pattuglia di carabinieri si trovava a breve distanza dalla cabina e proprio i carabinieri, attirati dalle urla, sono presto intervenuti attivando i soccorsi. Per questa ragione taluni sostengono che il rumeno non intendesse rubare i cavi di rame ma stesse fuggendo da qualcuno.
Fuggire da chi?
Finora, mistero.
Ricoverato all’ospedale civile, perdura da allora il suo stato di coma e la prognosi, come sarà facile immaginare, non lascia sperare in alcuna guarigione. I medici hanno nel frattempo accertato che ha perso la vista e gli hanno inoltre amputato un piede.
Non ancora morto.
Moribondo.

2.
Conobbi Fëdor, sua moglie Daniela e la figlioletta Stefania il ventinove settembre dell’anno scorso, durante una distillazione clandestina di grappa.
Mi corre qui l’obbligo, me ne rendo conto, di fornire qualche delucidazione preventiva, altrimenti chissà cosa potrebbe saltarvi in testa.
Abito al villaggio ‘‘Il Gabbiano’’, situato lungo la spiaggia, sette chilometri a nord di San Leonardo. Il condominio ha alle sue dipendenze un giardiniere rumeno, un certo Gregorio, originario di Orbeni, individuo dagli occhi porcini, labbra bavose, modi servili, fronte bassissima, cranio ridotto e schiacciato, pancia da cirrotico e piedi piatti. Le sue passioni? Divorare carne e trincare peggio d’un idrovora. Per meglio assecondare la seconda lo scorso anno, a settembre, produsse in proprio il vino e, a fine mese, distillò le vinacce per ricavarne grappa.
Piazzò l’alambicco davanti a casa mia, sotto la terrazza che dà sul mare, dove si trova la baracca degli attrezzi. Notai lo strano traffico e per curiosità scesi a vedere.
In quell’occasione conobbi Fëdor e famiglia, invitati da Gregorio alla degustazione in anteprima del liquore casereccio. Si mostrò con me gioviale sin dall’inizio. La moglie Daniela, tanto grassa quanto magro è il marito, aveva studiato lingue e veniva da Bucarest. La piccola Stefania, bionda e vivacissima, appariva incantevole.
Rividi la famigliola la prima domenica d’ottobre, nell’alloggio di proprietà del condominio ceduto in comodato a Gregorio. Mi trovavo lì perché non avevo saputo, con una scusa plausibile e non offensiva, rifiutare l’invito di mangiare la zuppa di pesce. Per sommo di sventura ci guadagnai un’altra seccatura. Il giardiniere m’informò infatti che il sabato successivo, tredici ottobre, avrebbe compiuto trentott’anni e aveva in programma una favolosa festa di compleanno, perciò avrei dovuto essere tanto gentile da accompagnare la cugina, dato che lui con il triciclo Ape Piaggio da cinquanta centimetri cubici doveva portarci la pecora.
«Ma perché, non festeggerete qui?».
«No, in un posto più comodo. Verrà tanta gente e qui abbiamo poco spazio».
«E va bene».
La sedicente cugina, una contadinella ubriacona proveniente da Augustin, paesino della Transilvania orientale, era in verità la sua convivente. Stava con lui da marzo e si chiama Ana Mihaela. Da me preferiva farsi chiamare Ela, suo vezzeggiativo di quand’era bambina.
Se Gregorio avesse aspettato qualche ora, di sicuro non mi avrebbe mai voluto alla sua festa di compleanno. Ela, tant’è, terminato il pranzo e tracannati vari cicchetti di grappa, rispondendo alla domanda di qualcuno che le aveva evidentemente chiesto chi fossi, dichiarò a voce alta:
«Lui è l’amore mio».
Qualche minuto dopo, non paga, superò addirittura ogni limite, sparando una bordata che avrebbe affondato una corazzata:
«Gabi, io voglio un figlio da te».
Nell’udire quelle parole fui sopraffatto dalla commiserazione. Gregorio fu invece sopraffatto dalla rabbia. Il desiderio di Ela, spogliato delle venature romantiche, si traduceva in pratica nella volontà di cambiare convivente.
Secondo lei, insomma, avrei dovuto sostituire Gregorio.

3.
La mattina di sabato tredici ottobre accompagnai Ela nel luogo prescelto per i bagordi. La prima cosa che le scappò di bocca, mentre andavamo, fu:
«Io vengo a vivere con te. A Gregorio già gliel’ho detto, non voglio più stare con lui».
Non pronunciai né ai né bai, ma decisi all’istante, senza pensarci due volte, che avrei agito di conseguenza per liberarla dalle sue illusioni.
Imboccai, su sua indicazione, la strada per Guglionesi e presto arrivammo alla meta. Si trattava di un casolare fatiscente circondato da un’aia vasta e desolata. Fëdor e famiglia, scoprii in quel momento, abitavano lì.
Gregorio e soci avevano già ammazzato la pecora, appesa per le zampe posteriori a un architrave, e la stavano scuoiando. Le squartarono il ventre per toglierle le interiora. Dopo di che l’infilarono in un girarrosto da loro appositamente costruito tagliando e saldando tubi di ferro. Accesero il fuoco usando tavole d’abete. Lavarono e tagliuzzarono le interiora e le fecero bollire in un pentolone pieno di birra.
La cottura si rilevò una faccenda d’esasperante lentezza. Gli invitati ingannavano l’attesa sbevazzando birra e montepulciano. Ormai era pomeriggio quando Gregorio mi servì, dato che ero l’ospite di riguardo, il primo piatto d’interiora. Con la scusa che aveva cominciato a piovigginare entrai con il piatto nel casale e salii al primo piano, dov’erano le stanzette abitate dalla famiglia di Fëdor.
La moglie Daniela e la figlioletta Stefania, in cucina, guardavano alla televisione un programma rumeno.
«Daniela, le piace la carne di pecora?».
«No».
«Queste sono le interiora cotte nella birra».
«Nemmeno questa roba mi piace».
«Non piace neanche a me».
«Allora diamola al gatto».
Mi prese il piatto di mano e lo posò a un angolo del pavimento. Un gattino dall’aria non troppo in salute, avvicinandosi, cominciò ad annusare.
«Bene», disse Daniela, «per noi adesso cucino io».
Preparò salsicce e patate fritte per noi adulti, cioè lei e io, perché Fëdor rimase giù nell’aia a gustarsi la pecora. Per la bambina, invece, petto di pollo e insalata. Ci mettemmo a tavola e mangiammo, bevendo aranciata e succo di frutta alla pera.
Si chiacchierò di questo e di quello. Tra l’altro mi annunciò con fierezza che aspettava un altro figlio, aveva da pochi giorni accertato la gravidanza. Accennò pure alla situazione in Romania.
«I salari sono di centocinquanta euro al mese ma i prezzi sono come qui», e aggiunse che a suo parere sotto Ceasescu si stava meglio. «Almeno avevano tutti un lavoro».
Dall’aia di tanto in tanto saliva la voce di Ela, che strillava:
«Amore, amore».
«Gabriele, Mihaela la sta chiamando», mi diceva Daniela.
«Davvero?», facevo io. «Non ho sentito. E’ possibile non sentire, no?».
Finito di pranzare giocherellai un po’ con Stefania, mentre la madre lavava i piatti. Calato il buio, ringraziai, salutai e scesi nell’aia.
Rivolsi un saluto sbrigativo al festeggiato e montai in macchina, lasciando Ela, stordita dall’alcol, con un palmo di naso. Le somministravo un’amara medicina e ne ero ben consapevole. Ma avevo altra scelta? No, non l’avevo. Oltre tutto, con lei avevo parlato chiaro sin dai primi tempi della nostra conoscenza:
«Ela, scordati che io possa trattarti come si tratta una puttana. Non ti chiederò mai quanto vuoi per venire a letto con me. E togliti dalla testa che tu possa diventare la mia mantenuta».

4.
Per tutto l’autunno, l’inverno e l’inizio della primavera rividi spesso Fëdor. Durante quei mesi ha infatti lavorato per Gregorio. Il nostro giardiniere, pur essendo regolarmente assunto dal condominio, è in realtà un piccolo imprenditore che svolge per i privati lavori edili e di giardinaggio in nero. Impiega nella ditta clandestina suoi connazionali, ai quali dà da mangiare e da fumare, oltre ad alloggiarli nell’appartamentino cedutogli in comodato.
Con loro è estremamente violento. Una volta, proprio sotto casa, ne inseguiva uno agitando una mazza. Fui attirato dalle grida di terrore del fuggitivo. Dalla terrazza gli ordinai di buttare il bastone. Non se lo fece ripetere, assumendo l’atteggiamento servile che usa con i condomini.
I maltrattamenti non invogliano i poveracci a lavorare a lungo per lui. Appena possono, lo piantano. L’avvicendamento di braccia è perciò continuo. I miseri cristi si mostrano sì disposti a faticare, pur di mangiare e dormire in un letto, ma le botte le apprezzano poco.
Questa situazione d’aperta illegalità viene tollerata poiché il suocero dell’amministratore condominiale, grossista di sali e tabacchi, utilizza la ditta di Gregorio per la pulizia del magazzino, ubicato nella zona industriale. Tra ottobre e novembre ricorse a lui persino per lavori edili effettuati a Bologna, dove il suocero è concessionario di un altro deposito fiscale (in burocratichese i grossisti di sali e tabacchi si chiamano così). Gregorio, in quell’occasione, si ruppe un braccio.
A Bologna andò a lavorare anche Fëdor, rimasto ormai solo in Italia. La moglie e la bambina erano tornate a Bucarest. Daniela preferiva proseguire la gravidanza a casa sua e partorire lì.
A febbraio di quest’anno un condomino del villaggio affidò alla ditta fantasma di Gregorio i lavori per ristrutturare l’interno della propria abitazione. Fëdor vi collaborò fino ad aprile, quando, all’improvviso, scomparve per sempre, subito sostituito da un altro rumeno mai visto prima.
Capii così che gl’iniqui rapporti tra lui e Gregorio si erano spezzati. Sono pertanto convinto che se quest’ultimo lo avesse ricompensato meglio, anziché fornirgli soltanto vitto, alloggio e tabacco, Fëdor non avrebbe mai tentato, quel maledetto undici luglio, di salire in cima a una cabina dell’Enel.
Ogni vittima, del resto, ha il suo carnefice.



venerdì 9 agosto 2013

Notte di guerra

Il cancello era spalancato. Il tassì entrò procedendo adagio, in prima, nel viale che saliva alla villa. La ghiaia crocchiava sotto i pneumatici e i fari illuminavano i fusti e le fronde più basse dei tigli. Superata una curva la macchina giunse a uno slargo e gli abbaglianti proiettarono la loro luce cruda contro la facciata di casa Kadar.
Il tassì si fermò davanti all’ingresso. Il generale Willy Kadar pagò e scese. Vi era, parcheggiata vicino alla porta, una Daimler di grossa cilindrata. Al primo piano i riverberi smorti dell’abat-jour filtravano dalle tende della sua camera da letto, mosse da un alito di vento.
L’autista fece manovra e ripercorse il viale a ritroso. Per lunghi, lunghi istanti il generale restò immobile a qualche metro dalla porta, la borsa da viaggio ai sui piedi e la cartella dei documenti in mano, aspirando il profumo dei tigli e volgendo gli occhi dalla Daimler alla finestra della camera sua.
Si chiese di chi potesse essere quella Daimler e come mai il cancello fosse aperto. Si chiese perché sua moglie tenesse ancora la luce accesa. Mezzanotte era passata da diversi minuti e lei, per abitudine, si assopiva sempre alle dieci e mezzo, o alle undici, al massimo. Forse Greta leggeva. Forse.
Il generale non tornava a casa da sette mesi. Si sentiva molto stanco e non si aspettava di trovare il cancello lasciato aperto, né la Daimler, né sua moglie ancora sveglia a quell’ora.
Come il tassì si fu allontanato il silenzio divenne assoluto, eccetto che per il canto dei grilli e per lo scorrere del fiume. Nessuna voce, neanche un sussurro, proveniva dalla camera da letto.
Raccolse la borsa da viaggio e s’incamminò a sinistra, lungo il muro. Non aveva la chiave e per entrare in casa avrebbe dovuto farsi aprire, ma di suonare il campanello nemmeno a pensarci, non era proprio il caso. La domestica dormiva in una camera a pian terreno, sul retro, e lui sarebbe andato a bussarle ai vetri.
Svoltò l’angolo e proseguì sul marciapiedi che girava torno torno alla villa. Passando davanti a una porta finestra del salone si accorse che era socchiusa. La spinse con il gomito ed entrò.
Poggiò il bagaglio a terra. Il pannello scorrevole tra il salone e l’atrio era schiuso e poiché un’applique, nell’atrio, era accesa, nel varco s’infilava una lama di luce. Attraversò il salone e fu nell’atrio. Sulla mensola posta di lato all’entrata di casa notò un paio di guanti e un berretto da ufficiale. Avvicinandosi constatò, dal fregio, ch’era il berretto di un ufficiale del corpo sanitario. Non poté non trarne l’ovvia conclusione: Greta nottetempo riceveva, in camera da letto, un medico militare.
Ritornò nel salone e sedette su un divano. Il cuore gli batteva a precipizio, una reazione per lui insolita. Dopo un po’ udì qualcuno scendere dal piano di sopra. Girò la testa verso l’atrio e scorse, sulla rampa, un uomo in divisa con una borsa di cuoio in mano. Lo osservò bene in faccia e lo riconobbe.
«Dottor Korch», esclamò.
L’uomo si bloccò e diresse lo sguardo al salone, ma essendo il salone al buio non gli riuscì certo di distinguere il generale. Non subito, almeno, perché in verità il generale fu sollecito ad alzarsi dal divano e ad apparire nell’atrio.
«Dottor Korch, buonasera».
«Buonasera, generale».
Si strinsero la mano.
«L’hanno richiamata, vedo».
«Sì, a gennaio».
«L’uniforme le dona», disse il generale e gli sorrise.
«Per favore, non mi prenda in giro. Abbia pietà di me».
«Non la prendo in giro. Davvero, le dona».
«Lasci perdere il fascino della mia uniforme. Mi offra un cognac, piuttosto. Ne ho proprio bisogno».
«Con piacere. Prego».
Il generale accese le luci del salone e aprì la scansia dov’erano riposti i liquori. Il dottor Korch, frattanto, prendeva posto in poltrona.
Il generale, versato il cognac in un bicchiere, lo porse al dottore e sedette di fronte a lui.
«Lei non beve?».
«Ne avrei anch’io un gran bisogno, ma preferisco di no».
«Bene», il medico levò in alto il napoleone, «alla salute».
«Prosit».
Il dottor Korch sorseggiò appena il cognac e si passò una mano sul volto. Sembrava esausto e i sessant’anni suonati e mal portati non miglioravano per niente il suo aspetto.
«Stasera lei, caro amico, l’ha fatta grossa».
Willy Kadar neanche tentò di dissimulare la sua meraviglia. «Io?».
«Lei. Pur senza averne colpa, lo riconosco».
«E cosa avrei fatto?».
«Ha telefonato qui a casa da Volksburg per dire che sarebbe tornato. O meglio, che forse sarebbe tornato per qualche ora, se le fosse stato possibile».
«Vero, ma che c’è di male? Sono arrivato a Volksburg in aereo, nel tardo pomeriggio, insieme al generale Wallenstein, il comandante della terza armata, di cui io sono l’aiutante, convocati d’urgenza dal capo di stato maggiore. Ho avuto un momento libero e ho telefonato. Ancora non sapevo se finiti i colloqui con il capo di stato maggiore dovevo ripartire subito per il fronte o se il generale Wallenstein mi avesse lasciato il tempo per una scappata veloce a casa. Dov’è l’errore?».
«In circostanze normali non ci sarebbe stato nulla di male. Questa è casa sua, dopotutto. Ma le circostanze, ahimè, non sono affatto normali».
«Dottore, quello che mi sta dicendo è spaventoso. Vuol dire che Greta è...?».
«No, no. Stia calmo».
Il generale non si trattenne e balzò in piedi.
«Le ordino, generale, di star calmo, ammesso che sia concesso a un tenente colonnello di dar ordini a un generale di brigata. Ma io, a ben riflettere, oltre ad essere tenente colonnello sono anche medico e, soprattutto, sono suo amico. Perciò si sieda».
Il generale ricadde in poltrona. Il dottor Korch sorseggiò un altro goccio.
«Quando stasera lei ha telefonato qui a casa da Volksburg, sua moglie era ricoverata in ospedale».
«Ricoverata addirittura in ospedale. E cos’ha?».
«Cosa aveva, dovrebbe dire».
«Questo significa che il pericolo è passato?».
«Sì, è passato. Ma non m’interrompa, la prego. Mi lasci continuare».
«Scusi».
«Non ha nulla di cui scusarsi». Il dottore abbozzò un sorriso, avvicinò il bicchiere alle labbra e sorbì un’altra stilla di cognac. «Sua moglie era in ospedale perché sabato scorso l’ho operata».
«Operata? E cosa aveva?».
«Cancro ai polmoni».
«Cielo!».
«Circa un mese fa ha cominciato a sputar sangue. Si è fatta visitare e i miei colleghi le hanno riscontrato un tumore al polmone sinistro, dicendole che non era operabile, né curabile, le si potevano solo somministrare dei palliativi chimici, che sono però il più delle volte un rimedio peggiore del male. La signora Greta per sua fortuna mi ha cercato e mi ha chiesto di visitarla. Come ho avuto un attimo di respiro dai miei impegni di servizio l’ho visitata e ho potuto accertare che era invece operabilissima. E a quanto pare, avevo ragione».
«L’operazione, quindi, è riuscita».
«Sì».
«E adesso sta bene?».
«Sì, sta bene. Il tumore era benigno e non appena la cicatrice si sarà del tutto rimarginata sua moglie ritornerà ad essere la splendida giovane signora di sempre». Il dottore, quasi controvoglia, sorrise. «Follemente innamorata del suo generale».
«Le sono debitore, non potrò mai ringraziarla abbastanza».
«Per ben altro deve ringraziarmi». Il dottore centellinò un piccolo sorso. «Ma domattina la libera uscita finisce. Verrà un’ambulanza e la riporterà in ospedale. Le bende le vanno ancora cambiate con una certa frequenza ed è opportuno inoltre tenerla sotto osservazione per un’altra decina di giorni, e qui non è pratico».
«Mi faccia capire, mica è scappata dall’ospedale?».
«Più o meno. E comunque, non senza il mio consenso».
«Ma scusi, se lei gliel’ha consentito, Greta dall’ospedale non è scappata. Delle due l’una».
«Gliel’ho detto, le ho concesso una libera uscita. O, se preferisce, un permesso breve. Lo chiami come le pare».
«Dottore, la prego, sono anch’io molto stanco e terribilmente emozionato per tutte queste novità che ho scoperto arrivando a casa, perciò non giochi con me, mi spieghi ciò che è avvenuto con semplicità, evitando di scherzarci sopra. Un giorno magari ne rideremo, ma ora...».
«Possiamo riderne già adesso, se è per questo. Non che sia accaduto nulla di ridicolo, tutt’altro. Anzi, ho una mezza idea che si sentirà felice nel sapere che razza di trambusto ha causato telefonando stasera qui a casa».
«E quale trambusto avrei causato?»
«Santo cielo, ma non conosce sua moglie? Una donna estremamente volitiva, direi, oltre che perdutamente innamorata del marito, cioè lei. La invidio, sa».
«Dottor Korch, veniamo al dunque».
«Il dunque? È presto detto. La vostra donna di servizio, dopo la sua telefonata, è corsa in ospedale per informare sua moglie che lei si trovava nella capitale e che forse avrebbe potuto fare un salto qui a Fillingen».
«A me Rose, la domestica, ha semplicemente detto che Greta non era in casa, senza precisarmi che era ricoverata in ospedale, così ho pensato che fosse uscita a cena, o andata al teatro».
«Gliel’ha taciuto a fin di bene. Ad ogni modo sua moglie, saputo che lei forse stava per tornare, ha insistito per essere immediatamente dimessa».
«E voi l’avete accontentata».
«Le assicuro che spuntarla, per sua moglie, non è stato tanto facile. L’uomo che dirige in vece mia il reparto di chirurgia qui all’ospedale di Fillingen non voleva saperne. Ma è stato mio assistente per anni, e prima di opporre un rifiuto definitivo ha preferito consultarmi, telefonandomi a Volksburg».
«Perché, lei presta servizio a Volksburg?».
«Sì, sono primario di chirurgia all’ospedale militare di Volksburg. Cosa credeva, che fossi tornato dal fronte, come lei?».
«Naturalmente no. Supponevo che prestasse servizio qui a Fillingen».
«A Fillingen non ci sono ospedali militari».
«E già, non ci sono. Finisca di raccontare, la prego».
Il dottore assaporò un altro po’ di cognac. «Ho suggerito al mio sostituto di esaudire i desideri della paziente e di rimandarla a casa insieme a un’infermiera che l’assistesse durante la notte».
«Ed è quanto è avvenuto».
«Sì».
«Ma perché ora si trova anche lei qui? Cos’è successo?».
«Niente. Cosa doveva succedere? Sono venuto per curiosità. Una curiosità medica, beninteso».
«Ossia?».
«Ho voluto verificare se lei tornava davvero a casa».
«E a quale scopo? Mi sembra una curiosità piuttosto singolare, se permette, non una curiosità medica».
«Sbaglia. La signora Greta tre giorni fa ha subito un intervento chirurgico di un certo rilievo e quando stasera ha saputo del suo ipotetico ritorno ha fatto il diavolo a quattro affinché lei la ritrovasse qui a casa e non su un letto d’ospedale. Riesce a immaginare la delusione di sua moglie se lei, generale, non avesse avuto la possibilità di tornare?».
«Sì, ci riesco. Ci riesco, non ne dubiti».
«Ed è per questo che sono venuto. Se il generale Kadar non sarà libero di tornare a Fillingen, mi son detto, la signora Kadar avrà senz’altro bisogno di qualcuno che le somministri dei sedativi. E chi, se non io?, mi son detto. L’infermiera che sta su con lei non si sarebbe mai presa la briga».
«Capisco».
«Fino alle dieci, questa sera, ho operato. Poi, uscito dalla sala operatoria, ho mangiato un boccone e mi sono messo in macchina. Da Volksburg a Fillingen, per fortuna, in autostrada basta un’ora, altrimenti, stanco com’ero...».
«Invece io sono venuto in treno».
«In treno ci vuole quasi il doppio».
«No, soltanto un’ora e venti». Il generale sorrise. «Gli ottanta minuti più lunghi della mia vita».
«Esagerato».
«Esagero? Solo un po’».
Sorridendo a sua volta il dottore assentì. «Le credo, amico mio, le credo». Bevve il poco cognac rimasto e depose il bicchiere vuoto sul tavolinetto.
«Ne gradisce dell’altro?».
«No, grazie. Meglio se me ne vado a dormire, è ora». Agguantò per la maniglia la borsa di cuoio lasciata sul tappeto accanto alla poltrona e si alzò. «E lei salga da sua moglie, la sta aspettando».
Il generale accompagnò il medico alla porta e gli augurò, ricambiato, la buonanotte. Dopo di che salì d’impeto i gradini che portavano al primo piano, desideroso di ritrovarsi finalmente con la sua Greta, convalescente e appassionata.
*
Willy Kadar cadde tre mesi più tardi, il 21 settembre, ucciso dalle schegge di una granata da mortaio durante un’ispezione ai reparti in prima linea.



venerdì 2 agosto 2013

Le rumene, istruzioni per l'uso

1.
Nel febbraio di due anni fa una falda del tetto della mia casa di San Leonardo se ne venne giù. L’increscioso episodio accadde di notte e i violenti e ripetuti rumori, di conseguenza, mi spezzarono il sonno. Sembrerà magari strano, ma se escludiamo l’indesiderato risveglio non me la presi più di tanto. L’evento, benché non voluto, era comunque atteso.
Abito infatti al villaggio ‘‘Il Gabbiano’’, nove villette allineate lungo la spiaggia con al centro un ex albergo trasformato nel corso del tempo in complesso di mini appartamenti, il tutto edificato alla fine degli anni Sessanta. L’architetto che lo progettò finì in galera per abusi edilizi. Da un uomo dotato di un così ricco curriculum professionale ci si può benissimo aspettare la realizzazione di opere appiccicate con lo sputo. Conclusione, i tetti di tutte e nove le villette sono via via crollati. Il tetto della mia, vai poi a sapere perché, è caduto per ultimo.
Al mattino telefonai al muratore che una decina d’anni prima mi aveva rintonacato i muri perimetrali. Il suo numero, però, risultava non più esistente. A trarmi d’impaccio ci pensò Gregorio, il custode giardiniere del villaggio, un rumeno dagli occhi porcini, i viscidi modi servili e la pancia da cirrotico.
«Non si preoccupi», mi disse, «conosco io un’impresa. La chiamo subito».
L’impresario, tale Ernesto Occhionero, si presentò da me in mattinata. Constatò quali fossero i lavori necessari e nel pomeriggio venne a portarmi il preventivo. Gli affidai l’incarico e non me ne pentii, perché lo svolse con sorprendente rapidità.
Tutti i suoi operai erano rumeni. Uno di loro, un certo Nico, mi domandò di punto in bianco se mi piacevano le donne. Ho l’abitudine di trattare le persone con cortese formalismo. Atteggiamento che molti interpretano, a torto, come espansivo. Nico, probabilmente, era incappato nell’equivoco e nulla feci, del resto, per correggere il suo sbaglio.
«Mi piacciono sì. Moltissimo».
«Bene, ci penso io».
‘‘Muratore di giorno e pappone di notte?’’, mi chiesi.
Quella stessa sera i miei sospetti ebbero conferma. Sentii suonare alla porta e aprii. Era lui con una ragazza sorridente.
Grassottela, sui venticinque, carnagione chiara, occhi e capelli scuri.
Appetitosa?
Appetitosa.
Tramite un appropriato gesto della mano li invitai a prendere il largo.
Trascorsero un paio di giorni e un altro dipendente rumeno di Occhionero, di nome Mirko, mi domandò a sua volta se mi piacevano le donne.
‘‘Ah-ah’’, pensai, ‘‘ma allora ce l’avete proprio nel sangue. Papponi dal primo all’ultimo’’.
«Sì, mi piacciono, però preferisco scegliermele da me».
Capì che non era il caso d’insistere.
Qualche giorno più tardi, quando il tetto era ormai stato riparato, mentre una mattina alzavo la saracinesca del garage mi si avvicinò Gregorio, il giardiniere rumeno.
«Signor Gabriele, le serve una donna?».
I muratori suoi connazionali dovevano averlo evidentemente informato che mi piacciono le donne.
«No», gli risposi.
Da quel giorno smise per me d’essere Gregorio e divenne il Pappone.

2.
A maggio dell’anno passato decisi di rimbiancare pareti e soffitti. Comprai carta vetrata, tempera e pennellessa e chiesi al Pappone se mi aiutava a spostare i mobili.
«Faccio venire la ragazza. E’ una brava ragazza. Ha già lavorato per Giosuè».
‘‘Lenocinio, il tuo, davvero incallito’’, fu la mia inevitabile riflessione.
«Va bene, la faccia venire domani pomeriggio, alle tre».
Questa ragazza l’avevo notata per la prima volta a marzo nella Panda color verde pisellino di un noto sfaccendato, tale Giosuè Zanchiello, mentre giravano per il villaggio in quella che potrebbe definirsi una gita turistica. Immaginai fossero parenti o conoscenti. Nei giorni successivi dovetti ricredermi, poiché la notai spazzare i viali insieme al Pappone. Dunque, era nel frattempo diventata la convivente di quest’ultimo.
A essere obiettivi, tanto ragazza non pareva, dato che dimostra una quarantina d’anni. Lavorò per me due mezzi pomeriggi a maggio e due mezze mattinate ad agosto, quando, finito di pittare, mi aiutò a pulire.
Con il supporto del Pappone all’inizio tentò, senza riuscirci, di far di me un suo cliente. Cliente, intendo, di un’operatrice sessuale. Con il tempo le sue aspirazioni sarebbero diventate più elevate e, per me, più pericolose.
Il primo giorno che ci conoscemmo mi disse che Giosuè è vecchio. Affermazione che tradotta in linguaggio d’affari s’interpretava così: ‘‘Sì, è vero, ho una tresca con lui, però non mi soddisfa. Non disdegno perciò altri clienti’’.
Lasciai cadere l’appello nel vuoto. Le dissi invece che avevo soprannominato il suo spasimante il Bullo di Casacalenda, paese dove quasi sessant’anni or sono è nato, perché ama vestirsi come un pagliaccio, si profuma come una baldracca in disarmo e porta al polso giganteschi orologi da cafone.
Ela – vezzeggiativo da bambina con il quale la rumena desiderava la chiamassi – nelle settimane successive mi avrebbe inoltre informato che il Bullo trinca a volontà, sniffa cocaina e appartiene al terzo sesso.
Quest’ultima notizia mi sarebbe poi stata confermata anche dal Pappone, seppur lievemente corretta. Secondo il Pappone il Bullo non sarebbe un semplice invertito, bensì un bisessuale. O, come s’usa meglio dire, un ambidestro. In termini commerciali il messaggio suonava chiaro: ‘‘Sì, è vero, Mihaela fila con il Bullo, ma uno che va a letto pure con gli uomini non soddisfa a pieno una donna e la verginella da me protetta cerca perciò altri clienti’’.

3.
La prima domenica d’ottobre un episodio avrebbe comunque costretto il Pappone a cambiare del tutto politica. Ela, in un certo senso, gli fece vedere i sorci verdi e venire i sudori freddi.
Il sabato precedente, all’imbrunire, terminata la giornata di lavoro e riposti gli attrezzi nell’apposita baracca, il Pappone, tornando nel suo alloggio, un appartamentino di proprietà del condominio concessogli in comodato, era passato sotto la mia terrazza, dov’ero seduto a leggere, e mi aveva chiesto se mi piaceva la zuppa di pesce.
«Veramente, non l’ho mai mangiata».
«E allora domani venga a pranzo da noi, cuciniamo zuppa di pesce. Ci saranno anche degli amici».
Una scusa plausibile e al tempo stesso poco offensiva per rifiutare l’invito non ero riuscito a trovarla e, controvoglia, avevo accettato.
L’indomani, al termine del pranzo e delle cospicue libagioni, a tramonto ormai incipiente, si aggiunse agli invitati un omaccione di mezz’età. Era italiano e si distingueva per le spalle e le braccia vigorose, la voluminosa faccia rossastra e la pancia di chi a tavola non teme rivali.
Era venuto per riaccompagnare a casa una coppia di coniugi e la loro bambina, privi di macchina. Lo conoscevano tutti, capii. A Ela, stravaccata sul divanetto con svariati cicchetti di grappa nello stomaco, chiese evidentemente chi fossi, perché la sentii dire:
«Lui è l’amore mio».
Non mi scomposi, benché la notizia risultasse abbastanza stravagante, specie a me che ne ero all’oscuro. Nell’intimo però una domanda divertita me la rivolsi: ‘‘Ah, sì, e da quando?’’.
Ma fu qualche minuto più tardi che Ela sparò la bordata, dichiarando ad alta voce – del resto ero seduto a una certa distanza da lei – affinché ognuno dei presenti, Pappone compreso, udisse bene:
«Io voglio un figlio da te».
Stavolta non mi venne da ridere. Lo sconcerto m’inibì ogni spiritosaggine. Lasciai trascorrere alcuni minuti e me ne tornai alla chetichella a casa.
Al Pappone il clamoroso annuncio sfuggito alla gallinella dalle uova d’oro non piacque affatto. Le ordinò pertanto di tenersi lontano da me, minacciando chissà quali pene.
Non posso dargli torto. Ela, con le sue parole, aveva in buona sostanza dichiarato in pubblico di non volermi come cliente ma di aspirare addirittura a diventare la mia mantenuta. E i papponi, si sa, hanno una fottutissima paura di perdere le loro protette.

4.
La nuova situazione mi andò perfettamente a genio. Passai il resto dell’autunno in santa pace, senza aspiranti mantenute tra i piedi.
E’ vero, talvolta Ela mi telefonava per comunicarmi in tono lacrimoso:
«Tu non mi chiami mai e non mi mandi mai un messaggio. Non vuoi più parlare con me».
«Ma che dici? Adesso non stiamo parlando?».
In un’occasione, prendendo a pretesto che al mattino mi aveva visto passare in macchina, esagerò un po’:
«Stamattina, quando t’ho visto, mi si sono rifatti gli occhi», e sputacchiò con le labbra una raffica di baci.
Insomma, grosse seccature non ne ebbi.
Lei nel frattempo proseguiva con il Bullo la sua missione di operatrice sessuale. Poteva infatti capitare, allorché la sera tornavo a casa, di vedere la macchina del Bullo – il tizio nei mesi invernali dimora in un’altra sua abitazione al centro di San Leonardo – parcheggiata all’ingresso del villaggio. Segno che i congressi carnali, come li si definiva un tempo, dovevano per forza svolgersi in presenza e al domicilio del Pappone. Tutti e tre appassionatamente, cioè.
L’unico incidente di rilievo si verificò dieci giorni prima di Natale. Sapevo, perché proprio lei mi aveva ragguagliato, che il diciotto sarebbe partita in corriera per tornare ad Augustin, paesino della Transilvania orientale, a passare le festività insieme ai suoi. Anzi, mi aveva persino chiesto se l’accompagnavo io alla fermata e poiché la sua partenza mi avrebbe riempito di gioia le avevo di buon grado risposto di sì.
Sabato quindici dicembre, verso le cinque di sera, tornavo dal supermercato dopo aver fatto la spesa e chi ti trovo davanti al cancello automatico del villaggio?
Lei che piange a dirotto.
Scorgo, in sosta nel piazzale, la Panda color verde pisellino del Bullo di Casacalenda, e intuisco quale sia l’inghippo.
Ela spalanca lo sportello e sale nella mia macchina, io supero il cancello automatico e mi fermo lungo il viale. Il suo pianto è davvero qualcosa d’impressionante. Singhiozza disperata e il torace le si gonfia e le si sgonfia a ritmo frenetico. Dagli occhi diluviano le lacrime.
Cerco di rassicurarla battendole colpetti sulle spalle.
«Adesso vado a casa, bevo un po’ di grappa, rompo la bottiglia e taglio la faccia a Gregorio».
«No, Ela, non farlo. Se lo fai, tra qualche giorno non potrai rivedere Joana».
Joana Gabriela è la figlioletta di dieci anni.
«Ha fatto venire il Bullo»,
«Sì, Ela, lo ha chiamato per fare con te le cose che sappiamo. Ma tu consideralo un lavoro. Stringi i denti e pensa a Joana. E fatti pagare bene».
«Non vuole che carichi la valigia sulla macchina tua».
Per impedirmi evidentemente di accompagnarla alla corriera. Capisco così che le mie intuizioni erano esatte. Il Pappone, spifferando al Bullo che lei in un modo e nell’altro mi gironzolava ancora attorno, fino a strapparmi la promessa di accompagnarla lunedì notte alla fermata dei pullman, aveva indispettito l’affezionato cliente e magari compromesso la riscossione delle marchette.
«Se vuoi, vengo io e la prendiamo. A me non possono dire né fare nulla».
«Sono in quattro. Ci stanno pure Emilio e Miha».
I due erano operai clandestinamente alloggiati nell’appartamentino condominiale. Il Pappone li utilizzava per eseguire lavori in nero.
«Sai che facciamo, invece? Adesso mio faccio bella e usciamo».
Sorrido e obietto:
«L’hai appena detto, Ela, sono in quattro. Sei sicura che ti facciano uscire? Se t’impediscono di prendere la valigia non possiamo far nulla. Né potrai stare da me fino a lunedì notte, perché senza valigia non potrai tornare in Romania. Nella valigia ci sono i dolci per Joana, la Barbie per Joana».
Piange e piange e dopo infiniti strepiti e sussulti capisce che non può fare altro che sottoporsi all’orgia. Mi bacia piangendo e torna dai porcelli.
All’incirca un’ora e mezzo più tardi mi chiama:
«Gabi, vieni, voglio parlare con te».
Vado e la trovo all’ingresso del villaggio, da dove si accede all’alloggio di proprietà del condominio. Noto che la Panda verde pisellino del Bullo non c’è più.
Ela in verità non deve dirmi niente, solo baciarmi con l’alito che puzza d’alcol, tanto che neanch’io so come faccio a non svenire. E’ spaventosamente sbronza, ma non piange più. Ride.
«Adesso mi chiudo in camera e bevo tutta la notte».
Non replico. ‘‘Mio Dio’’, penso, ‘‘mio Dio, che squallore’’.
Le do la buonanotte e torno a casa.
Alle dieci mi chiama.
«Gabi, voglio un passaggio».
«Un passaggio? Con la macchina?».
«Sì».
«E per andare dove?».
«A casa tua».
«Ma per venire a casa non serve la macchina. E poi l’ho rimessa in garage».
«Perché l’hai rimessa in garage?», e riattacca.
Dopo poco richiama ancora.
«Be’, no, Gabi, meglio di no. Ci sentiamo domani».
Ma la domenica, con la sbornia da smaltire, non si fa sentire. Né si fa sentire il lunedì, perché ha da smaltire pure la vergogna. La notte, alle quattro e un quarto, parte. Per me, meglio così. Mi sono almeno risparmiato il fastidio di accompagnarla al pullman in orario indecente.

5.
La mattina del cinque gennaio, dopo la doccia, uscendo dal bagno sentii squillare il telefonino. Era un numero a me ignoto, non lo tenevo in rubrica. Apparteneva a un cellulare rumeno, avrei poi appurato.
«Pronto?».
«Sono io. Mi riconosci, sì?».
«Oh, Ela, buon anno. Tanti auguri».
«Senti, io Gregorio non lo voglio più vedere. Voglio venire a stare con te».
«Vuoi che ti ospiti io? Be’, devi però lasciarmi un po’ di tempo. L’estate scorsa, quand’ho ripitatto, ho buttato i vecchi materassi e i nuovi li ho comprati soltanto per una camera».
«No, non servono due camere. Io voglio venire a vivere con te come una moglie. Hai capito che t’ho detto, sì?».
«Sì, ho capito».
Non aggiunsi altro. L’indomani sarebbe stato il giorno della Befana e mi ripugnava dirle subito che consideravo inaccettabile la sua pretesa. Ospitarla avrei potuto, ma assoldarla in qualità di mantenuta superava qualunque ragionevole limite. Generoso sì, pazzo no.
Mi richiamò quel giorno più volte. Una volta mi passò la figlia.
«Ciao, Gabi».
«Ciao, Joana. Buon anno».
E intorno all’ora di pranzo persino il padre. Un vocione stentoreo che pronunciò parole incomprensibili.
«Hai capito che t’ha detto?».
«No».
«Sta mangiando e t’ha detto: ‘‘Venga in Romania a pranzo da noi’’».
Nel pomeriggio l’ultima telefonata, all’improvviso, s’interruppe. I soldi, grazie al cielo, erano finiti.
Il sei, giorno della Befana, evitai di mandarle il triste regalo. La mattina del sette le spedii il seguente sms: ‘‘Tra due settimane avrò cinquantasette anni, sono troppo vecchio per te. E se non hai un lavoro è inutile che torni in Italia’’. Con la mente aggiunsi: ciao, Ela, ciao. Ti auguro di trovare un uomo che ti voglia bene e ti rispetti. Ma sta a te cercarlo.