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sabato 3 maggio 2014

Scrittori da blog

(In collaborazione con Enrico Mattioli, Pierluigi di Cosimo e Alessandro Agrati)

Con i tempi che corrono un autore di narrativa se non possiede un blog non esiste.
A sentire questa mia asserzione tanto lapidaria qualcuno potrebbe mettersi a ridere e ribattere:
«Ma cosa dici, fesso? Chi non pubblica con un grosso editore non esiste. Tu non esisti».
Certo, sarà pure questione d’opinioni, ma quando ho specificato ‘‘con i tempi che corrono’’ alludevo al mondo d’oggi dominato da internet e alla diffusione del libro elettronico, fatti che hanno di sicuro cambiato i connotati al vetusto panorama editoriale e introdotto nuovi modi di leggere.
Alla vecchia guardia amante dei libri di carta tutto ciò forse non piacerà, però gli scrittori da blog ormai esistono e io sono uno di loro. Ho voluto così farmi una chiacchierata con alcuni colleghi, per confrontare le loro idee e le loro esperienze con le mie. Ne trascrivo qui di seguito il verbale.

Enrico Mattioli
Beh, Gabriele, tu hai già aperto un sacco molto pesante: l’editore. Ho frequentato per molto tempo un blog che ora non esiste più, ‘‘Riaprire il fuoco’’, gestito da Ettore Bianciardi e Marcello Baraghini. Loro spesso battevano su questo punto (Baraghini, per la cronaca, è direttore editoriale di Stampa Alternativa), cioè se ha ancora senso, oggi, parlare di editori o trovarsi un editore con le possibilità che offre internet e il self publishing. Loro scrissero anche un volume dal titolo ‘‘Il libro mio me lo pubblico io’’, attraverso cui spiegavano passo passo come pubblicarsi i libri da soli, addirittura senza il self pubblishing ma tramite un tipografo, e, per l’ebook, imparare a crearlo da soli. Il punto è anche questo, cioè cosa sia l’editore, che per molti è sempre più simile a un tipografo perché non ci mette più un soldo e se non ti chiede contributi per la pubblicazione magari ti chiede di comprarne delle copie e, se non lo fai, il tuo libro giace nei magazzini.
Chi è contrario all’opportunità di prodursi e promuoversi da sé ti dirà che in tal modo si aggira il giudizio di chi si occupa di queste faccende, come, appunto, editor e redazioni varie e l’ambiente della narrativa si riempirà di personaggi frustrati che scrivono e scrivono ma leggono poco e pensano tutti quanti di aver composto un capolavoro che però è snobbato dai media.
Ai grossi editori non ci arrivi se non hai un nome che fa discutere (in qualsiasi campo) e che deve dare un motivo al lettore per spendere i soldi e acquistare un libro. Quindi direi che anche in questo caso l’ambiente della narrativa si riempie di personaggi (famosi, però) che scrivono e che se non hanno scritto un capolavoro comunque vendono.
Seguendo tale logica le pubblicazioni son decise dai distributori che portano materialmente il libro in libreria e conoscono bene i gusti del pubblico. E’ marketing, questo, facile.
Insomma, mi pare che alla fine non stiamo trattando di letteratura, libri, editoria e scrittori, no? La situazione è questa.

Pierluigi di Cosimo
Caro Gabriele, cosa dire di più della tua introduzione e dell’articolo dell’amico Enrico? Seppur appassionato di scrittura sin dalla tenera età, quando inventavo storie di avventure sulla mia “agenda segreta” o quando passavo i pomeriggi a giocare con il mio amico immaginario, come sai, mi sono affacciato al mondo della scrittura in modo, diciamo così, serio solo da un paio di anni.
All’inizio avevo l’illusione che esistessero ancora editori grandi o piccoli che fossero decisi a investire su buoni scritti seppur acerbi, capaci di vedere con il loro occhio esperto la qualità nelle poche frasi che gli fossero capitate sotto gli occhi, cogliendo, per così dire, “l’attimo fuggente”. Lentamente mi sono reso conto di due cose, le case editrici si sono ridotte al ruolo di “tipografie a pagamento”, con tutto il rispetto del lavoro di tipografo, e che, con l’avvento del mondo digitale, ognuno può scrivere e pubblicare liberamente, con risultati più o meno buoni. Risultati spesso dovuti più alla “condivisione” che alla qualità del racconto.
Inoltre, durante questi ultimi due anni, sono entrato in contatto con gruppi di autori “self”, provenienti da mondi e esperienze diverse, ma tutti accumunati dalla stessa voglia di scrivere e leggere cose buone. Beh, discutendo e accumunando le esperienze, sono venuti fuori tanti retroscena e mezzucoli che qualche autore utilizza per scalare le classifiche delle piattaforme più conosciute, tanti “fatti” strani difficilmente riconducibili a qualcuno in particolare, grazie all’anonimato che queste piattaforme permettono, ma che qualche sospetto su chi possa essere lo lasciano intravedere.
Insomma, un mare magnum di opportunità, ma anche di sgambetti, in cui purtroppo le case editrici non sanno nuotare, ma da cui si limitano a pescare qualche pesce qua e là, quando spesso è troppo tardi. Ed è un vero peccato, dato che da quando sono entrato in questo mondo di “self” ho iniziato anche a leggere molti dei lavori di questi colleghi, trovandoli all’altezza di grandi autori internazionali, anzi spesso con vene di profondo sentimento e storicità, che solo la lingua italiana sa regalare.

Alessandro Agrati
Gabriele, secondo me qui si potrebbe aprire un discorso più ampio, che finirebbe per degenerare in uno sterile dibattito sui massimi sistemi. In poche parole, con la diffusione mondiale della rete e dei dispositivi per collegarsi a essa, non solo un autore di narrativa che non sia attivo su internet (in particolare sui social network) rischia di finire nel dimenticatoio, ma lo stesso rischio lo correrà a breve anche chi, pur non scrivendo e non aspirando a farsi conoscere, si ritroverà costretto a crearsi un profilo su internet per non sparire dalla vita sociale. Non voglio dare giudizi di valore su questo fenomeno, né abbandonarmi a paranoiche teorie del complotto. Mi limito a constatare che, giorno dopo giorno, la rete condiziona sempre di più la nostra vita quotidiana.
Per quanto riguarda la diffusione del libro elettronico e dell’editoria digitale, sono sicuro che nel lungo periodo tutto ciò andrà ad assumere un peso sempre maggiore nel settore, col beneficio della riduzione dei costi economici e ambientali (meno spese per il materiale, meno alberi abbattuti). Purtroppo avere tanta cultura a portata di click non servirà a diminuire l’ignoranza e la propensione a “non leggere”. Ritengo che questa sia un’attitudine individuale, più che una cosa dettata esclusivamente dalla disponibilità della cultura e dal contesto in cui si vive.
Ritornando al tema principale della chiacchierata, sarà anche vero che se non pubblichi con un grande editore non esisti, ma è anche vero che molti autori famosi hanno il loro blog. Inoltre, a mio parere, molti “scrittori da blog” sono meglio di certi autori famosi, più attenti a giocare con le parole che al contenuto dei loro romanzi.

Concludendo
Mh, amici, avete messo molta carne sul fuoco. Posto che il mercato editoriale è quello che è, come Enrico Mattioli ha sottolineato con amara arguzia, bisogna comunque riconoscere che i bravi ‘‘scrittori da blog’’ non mancano. Ai lettori appassionati di narrativa si offrono quindi vaste e fino a ieri inedite possibilità di gustare prose godibili. Sta però a noi autori scrivere ‘‘per’’ i lettori, anziché contro i lettori. Sta a noi produrre e promuovere per mezzo dei blog testi che si lascino apprezzare.
Dunque, diamoci da fare.



sabato 24 agosto 2013

Enrico Mattioli, scrittore


Se ne pizzichi uno ti vien subito voglia di scoprire i suoi segreti, è normale.
«Pizzicare chi?», vi chiederete.
Be’, uno scrittore con i fiocchi. Non crederete mica che se ne trovino uno a ogni angolo, com’è invece per le battone e i politicanti.
«E quali segreti vuoi scoprire?».
I segreti del suo ingegno. O forse pensate che per scrivere come Dio comanda basti un colpo di lato B?
Serve testa, sudore e un paio d’occhi capaci di perforare la realtà. Doti che a Enrico Mattioli – er Bukowski de noantri, come lo chiamo io – non mancano. L’ho perciò sottoposto a un serrato interrogatorio, curioso di conoscere la sua testa e i suoi occhi.

Enrico, come diavolo fai a scrivere così maledettamente bene? Raccontami del tuo apprendistato.
Dunque, affermi che io scriverebbi bene… ti aringrazio, non so quanto questo risponda a verità. Il fatto di usare una forma d’arte per esprimermi è un malanno che mi colpì fin dalle scuole superiori, quando formai un complessino di musica rock and blues. Ma non saremmo andati lontani, non c’era troppa qualità e forse nemmeno ardore. Poi, iniziai a lavorare. La vita che si conduce, la noia, l’aridità, spesso ti portano a cercare qualcosa di diverso. Insomma, quella necessità di esprimermi in una stramba forma d’arte non era cessata.
Iniziai a scrivere per una disavventura lavorativa, usai la scrittura tipo una valvola di sfogo, come tutti. Non riesco a capire se sono cresciuto da allora, magari sì.

Che concezione hai della scrittura? Tu parli spesso di arte, mentre io preferisco definire quella del narratore un’attività di tipo artigianale.
E’ complicato parlare di scrittura. Non esiste un’accademia di scrittura. Esistono scuole di scrittura, ma non so quanto siano efficaci. Non riesco a dire se sia una forma espressiva che si possa insegnare a un altro. Per certi aspetti la scrittura è artigianato senza particolare educazione, o almeno, non nel senso comune del termine.
Però devi sbagliare molto, per continuare. Devi credere che questo artigianato – il tuo mi pare il termine più corretto, in fondo – non faccia per te. Devi gettare via un’infinità di roba, ho sempre pensato che chi scrive debba più sfoltire ed eliminare che scrivere. Devi avere una grande capacità di autocritica, perché non è mica facile eliminare un file. Se sopravvivi a questi traumi, forse la scrittura potrà essere la tua strada. Ma non è detto.
Riguardo a me, credo che ci sia un qualcosa che si può solo “sentire”. Hai un foglio davanti a te, cominci a scrivere, riesci a riprodurre un’immagine o una situazione. Lo rileggi, lo correggi, provi, cambi, tenti di verseggiare, di rendere poesia in quelle righe. Questo è ciò che mi è ignoto. Il resto è mestiere. Una trama, i personaggi, gli agganci, gli approfondimenti.
A fronte di tutto devi leggere. Molto. Tanto. Spesso l’ambiente della scrittura e dell’arte in genere è quello in cui si legge di meno. E poi, devi stare attento a non confondere l’arte e la cultura con la tendenza.
Spesso chi scrive cerca solo un genere che abbia un seguito. Spesso chi scrive cerca solo la notorietà. Spesso chi scrive pensa che il suo sia un capolavoro assoluto. Questi sono gli errori che si commettono. Riguardo all’ambiente dell’editoria, finché si continuerà a pensare a essa (l’editoria) in termini di bilancio e di fatturati e credere che dopotutto una casa editrice è un’azienda come un’altra, penso che non si uscirà dal tunnel.
C’è l’auto pubblicazione, certo. Non so dire quanto sia terapeutica, di certo è sempre meglio che pubblicare a pagamento, un aspetto, questo, da evitare in modo assoluto.
Il fatto di aver suonato in passato, poi di aver fatto dei tentativi di scrittura per il teatro, di aver conosciuto attori e attrici, registi, ai quali ho rubacchiato qualcosa, probabilmente ha dilatato le mie ispirazioni.
In quello che scrivo, ci sono sempre dei personaggi che fanno fatica a vivere, che portano alla luce dei disagi. In fondo chi si occupa di queste cose è dentro le cose ma deve esserne anche fuori, credo sia necessario guardare alle faccende della vita con una lente distorta che ti permetta di poterne dare una rilettura.

Quali sono i tuoi tic professionali? Scrivi di notte o di giorno, usi la matita o la penna?
In genere scrivo di giorno, penso che sia retorico il pensare allo scrittore che attende l’ispirazione. Un minimo di metodo ci vuole. Alla fine, come in tante cose, è una sintesi. Per scrivere uso il pc, ma poi per correggere mi piace stampare e proseguire con la penna.

Parlami della tua vita privata. Hai mogli, figli, amanti, cani, gatti, o no?
Non sono sposato. Sono reduce da una convivenza e ora me ne sto a respirare. Del resto, non puoi cercare una persona semplicemente perché se ne stia lì ad aspettarti. Se avessi dei figli o una famiglia, certo potrei dedicare poco tempo alla scrittura.

Passiamo ora alle tue creature, ai tuoi libri.
Dunque... tralascio di dire che i libri sono come dei figli e bla bla bla, perché è chiaro che sono affezionato a quello che ho scritto, altrimenti non lo avrei nemmeno pubblicato. Ho scritto molto - come ti raccontavo in altra parte - forse troppo e ho gettato via di più. Credo di aver composto una trentina di cose ma di averne pubblicate solo sei. Ma anche quelle sei, oggi ti dico che avrei potuto migliorarle.
Avvisiamo la gentile clientela è la storia di un gruppo di lavoratori di un supermercato che finiscono in cassa integrazione. Il vero protagonista è l’ambiente di lavoro e ho tentato di trattare la connessione che c’è tra le merci e le persone che lavorano in un posto come quello, che per me è un tempio del consumismo dilagante, un centro moderno della "roba" di verghiana memoria, anche se in quel caso il protagonista Mazzarò è ossessionato dalla roba al punto che in prossimità della morte con l’eventualità della separazione dai beni materiali, lui tenta di uccidere i suoi animali perché vuol portare quella roba con sé; nella mia storia, il rapporto con le merci è di puro consumo, si acquista e si getta via per consumare dell’altro, l’affezione alle cose non è concepita ed è probabile che sia un segno dei tempi.
Adesso sto provando a scrivere un seguito con un’ottica diversa, diciamo tipo Full Monty, il titolo èLa città senza uscita, ho pubblicato qualcosina sul mio sito perché volevo farne una storia on line, ma visto che mi veniva bene (e non era previsto) ho interrotto e ora ne farò una storia da pubblicare. Vedremo.
Per quanto riguarda Storie di qualunquisti anonimi, mi piace, mi soddisfa, ma oggi eliminerei alcuni aspetti. E’ un romanzo breve, diciamo, una storia minimalista ambientata a Roma in cui cerco di descrivere i sentimenti di un gruppo di ragazzi disillusi dalla vita, dalla storia del nostro paese, che sembrano non credere più in nulla e cercano solo vendette. Vendette sane, ovvio, reazioni a soprusi che ritengono di aver subito.
Il bamboccione, il titolo spiega già molto, è invece un racconto e non un romanzo. Quando sentii quella dichiarazione tristemente famosa, ebbi un sussulto di rabbia e decisi di scrivere la storia di un precario costretto a vivere in famiglia. A parte il fatto che non mi pare un reato e si risponde solo a se stessi delle cose che si fanno e di dove si decide di vivere, penso che chi ragiona e sparla su certe tematiche, che sia un politico o un uomo della strada, sia abbastanza lontano dalla vita delle persone, dai problemi reali. Per molti la crisi di oggi è cominciata tanto tempo fa, e quei molti sono i bamboccioni, appunto. Nulla nasce dal niente e per caso.
Ciangaloni Ciangoni è una storia di resistenza quotidiana. Il personaggio lavora in un albergo come addetto di servizio ai piani e ha un singolare passatempo: raccogliere la posta delle associazioni onluns che gli scrivono per un aiuto, sensibilizzando sulle questioni del terzo mondo. In questo modo, Nick La Puzza, il protagonista, fa un parallelo tra la civiltà industrializzata e i paesi poveri, arrivando alla conclusione di non aver alcun merito per essere nato in un paese sviluppato.
Merda! è un’incursione nel sottobosco dell’arte e dello spettacolo. Il titolo è solo l’augurio che si usa nell’ambiente. Non esiste solo il gossip e la vita patinata. Ci sono molti attori e attrici brave che continuano a lavorare nell’ombra perché non hanno aderenze. Il protagonista è uno che inventerà di recitare per le strade di Roma, ai semafori, i monologhi sul Risorgimento italiano e portarli fino in Sicilia, a Marsala, ricalcando il percorso dei Mille.
La rivoluzione che non c’è è un romanzo che saltella tra il surreale e il reale, dove miti e mitomani s’incrociano, in cui il protagonista si troverà, suo malgrado, coinvolto in un’operazione che ha come scopo il blocco del segnale televisivo e l’occupazione delle banche.

Grazie, Enrico, mi hai risposto con pazienza sorprendente. Ho capito che poni l’arte di scrivere al centro della tua vita e ciò spiega perché hai raggiunto livelli tanto notevoli. E del resto, avevo già nutrito fondati sospetti.



venerdì 26 aprile 2013

Er Bukowski de noantri


Gli scrittori si dividono in due categorie. Quelli che sanno scrivere in maniera suggestiva e gli altri. La gran parte di loro, purtroppo per i lettori, appartiene alla seconda categoria. Se temete che voglia parlarvi di uno di questi ultimi, vi rassicuro subito. Birichino sì, lo sono. Sadico no.
E’ su Enrico Mattioli, er Bukowski de noantri, che desidero richiamare la vostra attenzione e sul suo romanzo ‘‘Il bamboccione’’, nitido affresco neorealista del terzo millennio.
Mattioli, stando alle sue dichiarazioni, è nato e vive in una città del Lazio, capitale di stato, della quale non svela il nome per questione di privacy. Né manca di sottolineare, con vocaboli cristallini, la sua poetica, affermando che ‘‘lo scrittore è come un assorbente, assimila le scorie della società’’.
Ciò basta, credo io, a delineare il suo ingegno. A dirci di che stoffa sia fatto.
La stoffa dell’artista.
Non ci si può quindi meravigliare se dalla sua penna sgorga una prosa matura e moderna, densa di risonanze sociali. Gli è infatti sufficiente una frase per consentire al lettore d’intuire – o, meglio, di toccare con mano – i crudi aspetti dell’Italia d’oggi. Di mettere a nudo quelle verità attuali che non soddisfano, che non entusiasmano. E ‘‘Il bamboccione’’, di quest’arte sapiente, ce ne offre indubitabile prova.
Come si ricorderà, l’epiteto ‘‘bamboccioni’’ fu con disprezzo rivolto in anni recenti ai giovani italiani da un defunto ministrucolo di un governicchio mortadellesco. Il defunto ministrucolo accusava i suoi giovani connazionali di non saper recidere il cordone ombelicale dalla famiglia, preferendo vivere il più a lungo possibile con i genitori, anziché affrontare la vita in autonomia.
Il ministrucolo, dal basso della sua spocchiosa ignoranza, dimenticò di spiegare perché una tale situazione sia tanto frequente. Se fosse sopravvissuto ai suoi troppi anni e se avesse letto il romanzo di Enrico Mattioli le risposte, forse, le avrebbe trovate.
Avrebbe conosciuto le vicende di un giovane uomo la cui indipendenza economica non può essere piena perché gli toccano soltanto lavori avventizi, specie grazie al vessillo della flessibilità e della precarietà, sventolato oggigiorno a tutto spiano per dare quel tocco di modernità al mercato del lavoro.
Certo, la sorella del bamboccione di Mattioli è diversa. E’ libera, emancipata. In una parola, indipendente, e non perde occasioni per apostrofare il fratello con lo sprezzante epiteto ministeriale. Lei è, non a caso, divorziata da un primario e gode perciò di un buon assegno di mantenimento e dell’uso di un appartamento di centocinquanta metri quadri.
Il nostro bamboccione è costretto invece a lavorare come infermiere su un’unità mobile dei servizi sanitari, prestando soccorso agli immigrati che dimorano nella baracche erette alla meno peggio sotto i cavalcavia, almeno finché le forze dell’ordine non li sgomberano. O finché qualcuno non li ammazza.
Ma il neorealismo del Bukowski de noantri, si badi, è tutt’altro che disperato, tutt’altro che allucinante. Insomma, non è affatto privo d’umanità. Il suo bamboccione sa di non avere solide prospettive, vero, così come l’intera Italia d’oggi si sente priva di prospettive, ma sa apprezzare, se può, il magico fascino di quell’eterna città di cui per ragioni di privacy taciamo il nome. E, quando incassa lo stipendio, non si nega, da gran turista, un giretto in botticella. O, se volete, sulla carrozza a cavalli, come la chiamano altrove.