venerdì 26 aprile 2013

Er Bukowski de noantri


Gli scrittori si dividono in due categorie. Quelli che sanno scrivere in maniera suggestiva e gli altri. La gran parte di loro, purtroppo per i lettori, appartiene alla seconda categoria. Se temete che voglia parlarvi di uno di questi ultimi, vi rassicuro subito. Birichino sì, lo sono. Sadico no.
E’ su Enrico Mattioli, er Bukowski de noantri, che desidero richiamare la vostra attenzione e sul suo romanzo ‘‘Il bamboccione’’, nitido affresco neorealista del terzo millennio.
Mattioli, stando alle sue dichiarazioni, è nato e vive in una città del Lazio, capitale di stato, della quale non svela il nome per questione di privacy. Né manca di sottolineare, con vocaboli cristallini, la sua poetica, affermando che ‘‘lo scrittore è come un assorbente, assimila le scorie della società’’.
Ciò basta, credo io, a delineare il suo ingegno. A dirci di che stoffa sia fatto.
La stoffa dell’artista.
Non ci si può quindi meravigliare se dalla sua penna sgorga una prosa matura e moderna, densa di risonanze sociali. Gli è infatti sufficiente una frase per consentire al lettore d’intuire – o, meglio, di toccare con mano – i crudi aspetti dell’Italia d’oggi. Di mettere a nudo quelle verità attuali che non soddisfano, che non entusiasmano. E ‘‘Il bamboccione’’, di quest’arte sapiente, ce ne offre indubitabile prova.
Come si ricorderà, l’epiteto ‘‘bamboccioni’’ fu con disprezzo rivolto in anni recenti ai giovani italiani da un defunto ministrucolo di un governicchio mortadellesco. Il defunto ministrucolo accusava i suoi giovani connazionali di non saper recidere il cordone ombelicale dalla famiglia, preferendo vivere il più a lungo possibile con i genitori, anziché affrontare la vita in autonomia.
Il ministrucolo, dal basso della sua spocchiosa ignoranza, dimenticò di spiegare perché una tale situazione sia tanto frequente. Se fosse sopravvissuto ai suoi troppi anni e se avesse letto il romanzo di Enrico Mattioli le risposte, forse, le avrebbe trovate.
Avrebbe conosciuto le vicende di un giovane uomo la cui indipendenza economica non può essere piena perché gli toccano soltanto lavori avventizi, specie grazie al vessillo della flessibilità e della precarietà, sventolato oggigiorno a tutto spiano per dare quel tocco di modernità al mercato del lavoro.
Certo, la sorella del bamboccione di Mattioli è diversa. E’ libera, emancipata. In una parola, indipendente, e non perde occasioni per apostrofare il fratello con lo sprezzante epiteto ministeriale. Lei è, non a caso, divorziata da un primario e gode perciò di un buon assegno di mantenimento e dell’uso di un appartamento di centocinquanta metri quadri.
Il nostro bamboccione è costretto invece a lavorare come infermiere su un’unità mobile dei servizi sanitari, prestando soccorso agli immigrati che dimorano nella baracche erette alla meno peggio sotto i cavalcavia, almeno finché le forze dell’ordine non li sgomberano. O finché qualcuno non li ammazza.
Ma il neorealismo del Bukowski de noantri, si badi, è tutt’altro che disperato, tutt’altro che allucinante. Insomma, non è affatto privo d’umanità. Il suo bamboccione sa di non avere solide prospettive, vero, così come l’intera Italia d’oggi si sente priva di prospettive, ma sa apprezzare, se può, il magico fascino di quell’eterna città di cui per ragioni di privacy taciamo il nome. E, quando incassa lo stipendio, non si nega, da gran turista, un giretto in botticella. O, se volete, sulla carrozza a cavalli, come la chiamano altrove.



sabato 20 aprile 2013

Il ventre molle della nazione


L’inefficienza del nostro apparato politico-burocratico è ormai proverbiale. La discrepanza tra costi e prestazioni lascia stupefatti. E così lo stato italiano, in tutte le sue articolazioni, in tutti i suoi annessi, connessi e collaterali, rappresenta il ventre molle della nazione.
L’azione pubblica, da noi, è profondamente immorale: carceri che scoppiano, mafie che dilagano, fornitori dello stato non pagati.
E’ giunta l’ora, credo io, di domandarsi perché.
La risposta, per quanto a molti apparirà sorprendente, è di natura sostanzialmente tecnica. I poteri pubblici sono inefficienti perché mal congegnati. La nostra repubblica, in poche parole, è sì democratica ma non liberale.
Uno stato non liberale, pur se democratico, tende per forza di cose a ridurre le potestà del corpo elettorale. I cittadini di una democrazia liberale hanno più poteri dei cittadini di una democrazia illiberale. Viceversa, gli apparati politico-burocratici di una democrazia illiberale dispongono di poteri, formali e informali, superiori a quelli a disposizione degli apparati di una democrazia liberale. Diventano, insomma, una casta. Profumatamente pagata e poco efficiente.
Questa antipatica situazione si è determinata per effetto della carta costituzionale, la quale ha assorbito i tre principi dottrinali del precedente regime. Nel primo comma dell’artico uno troviamo infatti il principio proletario, sia pure nella forma del cosiddetto principio lavorista. Al secondo comma dell’articolo quattro troviamo il principio della superiorità etica dello stato. Sparso qua e là troviamo infine il principio corporativo: Cnel, natura semipubblica dei sindacati, organizzazione corporativa della magistratura.
Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, definito dai costituzionalisti un ramo secco, è un costoso e superfluo regalo dell’articolo novantanove. Malgrado ciò, a far tempo dal primo gennaio 1948, per imperdonabile accidia dei corpi legislativi, quel ramo non si pota.
La natura semipubblica dei sindacati discende dal quarto comma dell’articolo trentanove, che ad essi conferisce la potestà di stipulare contratti collettivi di lavoro aventi efficacia erga omnes, norma ereditata dall’articolo dieci della fascistissima legge del 3 aprile 1926. Pertanto i minimi salariali, anziché essere fissati per legge, sono lasciati alla contrattazione delle cosiddette parti sociali. Ossia, delle corporazioni.
L’organizzazione corporativa della magistratura è sancita dall’articolo centoquattro, che regola la composizione del Consiglio superiore della magistratura. Un terzo dei suoi membri, scelti tra avvocati e docenti universitari in materie giuridiche, sono eletti dal parlamento, il quale, come sappiamo, è un organo squisitamente politico. Per effetto di un tale meccanismo la compromissione tra politica e magistratura è inevitabile. Tanto più che gli altri due terzi è formato da magistrati ordinari, eletti dai loro colleghi. Non a caso, dunque, la nostra magistratura si rivela divisa in correnti, le quali non si differenziano l’una dall’altra per posizioni dottrinali, bensì per preferenze ideologiche. Vale a dire, in sostanza, per simpatie politiche.
E’ difficile immaginare che una tale circostanza non possa avere una qualche influenza sull’azione delle autorità giudiziarie. Il Consiglio superiore decide infatti sulla carriera dei singoli giudici, avendo inoltre il potere di sottoporli a procedimento disciplinare. Lo si considera perciò un organo di autotutela. E del resto, un organo corporativo ha il sacrosanto dovere di tutelare i propri membri.
Ma se la vocazione di un organo corporativo è quella di tutelare i propri membri, non ci si può certo aspettare che la qualità del ‘‘servizio giustizia’’, reso ai cittadini dallo stato, possa risultare soddisfacente. E’, sotto il profilo tecnico, impossibile.
Gli effetti sociali di una tale situazione sono devastanti, poiché i legittimi diritti troppo spesso non vengono garantiti, mentre Dio solo sa quanto sia grande il nostro bisogno di una giustizia efficiente, specie considerando che vaste zone del paese subiscono l’offesa di mafie vecchie e nuove.
Il ceto politico, il mondo accademico e l’opinione pubblica dovrebbero porre la questione al centro del dibattito, per analizzarla e cercare le soluzioni. Ma ritenere, dopo decenni di verboso lassismo, che ciò avverrà significa contare un po’ troppo sulla buona sorte. Chissà, forse i nostri nipoti saranno più fortunati.



martedì 9 aprile 2013

Il movente


La cercammo in casa, il tenente Cipriani e io. La filippina disse che la signora – cito alla lettera – era andata a leggere un libro ai giardini del castello perché era una bella giornata.
Riscendemmo. I giardini stavano proprio davanti al palazzo. Traversammo viale Crispi e c’inoltrammo nel parco. Brillava in effetti un gran sole, da noi insolito a febbraio.
La intravidi seduta a una panchina, il capo chino sul libro.
«E’ lei», dissi a Cipriani. Con la mano lo invitai a fermarsi, mentre io mi avvicinai alla panchina.
Carla levò gli occhi dal libro. Non parve né sorpresa né niente. Si limitò a fissarmi.
Sentire su di me quegli sguardi, a dispetto degli anni trascorsi, mi ferì il sangue. Se non vi siete mai specchiati in due cristalli verdi simili ai suoi non potete comprendere.
Disse: «Perché quella faccia seria?».
«Tuo marito è morto».
Richiuse il libro, seccata. «Cos’è, uno scherzo di carnevale?». Poi notò il tenente, fermo a una decina di passi, e capì che era vero. Sbarrò gli occhi.
«Gli hanno sparato».
Si alzò di scatto dalla panchina. Mi guardò come se volesse bruciarmi. Non ci badai. Il marito non gliel’avevo mica ucciso io.
Avevo fatto di peggio: gliel’avevo fatto conoscere.
All’epoca lavoravo per lui. Praticante nel suo studio legale. Un bel giorno vinsi la mia prima causa difendendo in procura un fruttivendolo accusato di oltraggio a pubblico ufficiale per aver definito un vigile urbano “figlio di padre incerto”. Il certificato di nascita del vigile riportava il nome della madre e lì dove doveva esserci quello del padre si leggeva “ignoto”.
Per festeggiare eravamo andati a cena. Carla, io e il titolare dello studio, avvocato Corrado Properzi. Di lì a una settimana Carla ruppe il fidanzamento e sei mesi più tardi lei e l’avvocato salirono sull’altare a infilarsi gli anelli.
Avevo abbandonato lo studio legale e sostenuto il concorso per entrare in magistratura.
Quella mattina ero io il sostituto di turno. Appena entrato in ufficio, il telefono aveva squillato. Avevano ammazzato Properzi.
***
Mi voltò le spalle e partì spedita verso viale Crispi.
«Carla!».
Con un gesto ordinai al tenente di correrle dietro.
Cipriani la raggiunse e le agguantò un braccio. Lei si girò e con il libro lo colpì alla testa. Il berretto dell’ufficiale volò per terra.
Mi affrettai verso di loro. Una donna che spingeva un pupo in carrozzina aveva assistito alla scena. Ci osservava perplessa. Incrociò il mio sguardo e si convinse a riprendere il largo.
Il tenente raccolse il berretto e se lo calcò sulla zucca. Non sembrava per niente felice.
Carla si mise una mano alla fronte. I lacrimoni colavano sulle guance.
«Dico, è questo il modo di reagire?», la rimproverai.
«Voglio andare a casa. Madonna santa, hanno ucciso mio marito».
«Devo parlarti».
«A casa non possiamo parlare?».
«E’ questione di un minuto».
Tornai alla panchina. Mi seguì controvoglia. Ci sedemmo. Con un cenno imposi a Cipriani di mantenersi a una certa distanza. Era poco prudente permettergli di ascoltare. Carla frugò nella borsetta in cerca del fazzoletto. Si asciugò le lacrime.
Dovevo appurare se aveva un alibi. Dissi: «E’ stata Luisa a trovare il corpo, stamattina, e ha telefonato ai carabinieri».
«Luisa?».
Luisa era la segretaria del marito.
«Sì, lei. Che c’è di strano?».
«A Napoli?».
«Qui, a Civita. Allo studio».
«Ma oggi Corrado aveva una causa a Napoli. E’ partito ieri pomeriggio».
«E invece no. Ti pare?».
Ebbe un rigurgito di pianto. «Madonna santa, ma chi può averlo fatto?».
Sarebbe piaciuto anche a me saperlo. Per pura curiosità, s’intende. Già conoscevo la persona che avrei fatto condannare.
«Lo scoprirò», dissi.
Un’anziana signora passò con un barboncino al guinzaglio. Il cane annusò il tronco di un ippocastano e alzò la zampetta. La padrona lo lasciò pisciare con calma, poi se lo trascinò via.
«Quando l’hai visto per l’ultima volta?».
«Ieri, dopo pranzo. Ha preparato la valigia e è partito. Saranno state le due e mezzo, le tre».
Secondo i primi rilievi del medico legale il decesso era avvenuto dalle nove alle dieci della sera precedente.
«Tu sei rimasta tutta la sera in casa?».
«Sono andata al cinema. Al Rex».
«Sola?».
«Con un’amica. Forse la conosci, la moglie di Orlandi».
La conoscevo. Orlandi era un giudice del tribunale.
«Fino a che ora siete rimaste insieme?».
Mi lanciò un’occhiata cattiva. «Credi che l’abbia ucciso io?».
«No, naturalmente, c’è bisogno di dirlo? Ma qualcuno potrebbe sospettarlo. Se non mi racconti tutto, come faccio a tenerti fuori dall’inchiesta?».
«Il film è finito alle otto. Siamo uscite dal cinema e ci siamo salutate. Vuoi sapere il titolo?».
«No. Alle otto? Sicuro?».
«Sì, minuto più minuto meno».
«Sei tornata subito a casa?».
«Sì».
«La filippina può confermarlo?».
«La domenica è il suo giorno libero. Quand’è rientrata io dormivo».
Non aveva un alibi. E il Rex, sotto i portici del corso, stava sì e no a cento metri dallo studio dell’avvocato.
«Tuo marito possedeva una pistola?».
«No».
«E tu?».
«No. A che mi serve?».
Riflettei. Non mi sarebbe convenuto incriminarla subito. Avrei dovuto lasciar passare qualche giorno. Altrimenti sarei stato costretto a sottoporla alla prova del guanto di paraffina, rischiando di scagionarla.
Il problema era trovare un movente. I soldi erano da scartare. Carla era ricca di suo. Neppure la gelosia avrebbe funzionato. Non era mai circolato un pettegolezzo.
Provai ugualmente a battere il tasto: «Aveva un’amante?».
«Corrado? Ma che dici?».
«E tu?».
«Sei pazzo?».
«Guarda che se non è così lo verremo a sapere».
«Ma per favore...».
Il castello di Civita, seminascosto dagli alberi, biancheggiava nella luce tersa. Lontano, alle spalle del castello, la cima del Corno Grande era incappucciata di neve. Il suo profilo aspro si stagliava contro un cielo carta da zucchero. Tutto appariva lucido, intenso, di una bellezza che stordiva.
Cristo, e io non avevo un movente. Non ce l’avevo, maledizione.
Balzai in piedi.
«Abbiamo finito?».
«Per il momento sì. Fra qualche giorno verrai a deporre in procura. Ti chiameremo noi».
Si alzò. «Lui ora dov’è? Ancora allo studio?».
«All’obitorio, per l’autopsia».
Serrò le palpebre.
«Ciao», dissi. «Mi dispiace».
Non rispose. Si allontanò camminando a testa bassa tra i cespugli di agrifoglio e i tronchi gialli e nocciola dei platani.
Cipriani e io tornammo alla macchina.
«Che pensa, dottore, è stata lei?».
«Non lo so». E aggiunsi: «Può anche essere».
L’avrei mandata all’ergastolo, se avessi avuto un movente, ma non ce l’avevo.
Dovevo scovare un movente. Ma dove? Come?
Maledizione.
***
Passarono una decina di giorni. Il procuratore capo mi convocò nel suo ufficio.
«Allora», chiese, «come va il caso Properzi?».
Mi strinsi nelle spalle. «Ci stiamo lavorando».
Il suo sguardo sfuggiva il mio. Tamburellò con la penna sulla scrivania. «Senta, è vero quello che ho sentito?».
«Cosa?».
«Si dice che lei è la vedova Properzi eravate fidanzati, prima che la signora sposasse l’avvocato».
«Sì, è vero».
Tamburellava con la penna. Guardava fuori dalla finestra. «L’ha sottoposta alla prova del guanto?».
«No».
«Perché?».
Quella era proprio una domanda che non mi sarei mai aspettato. Carla ammazzare Properzi? Assurdo. Ma come spiegarglielo?
«La signora ha un alibi per l’ora del delitto?», insisté.
«No».
Il procuratore strinse le labbra.
«Né lei né il marito possedevano un’arma. Lo abbiamo verificato. Non avevano neanche il porto d’armi».
Sbuffò. «Capirai. Chi vuole una pistola se la procura comunque».
«D’accordo. Ma quale sarebbe stato il movente?».
«E lo chiede a me? Scoprirlo è compito suo».
«E come, scusi? L’avvocato e sua moglie venivano considerati da tutti una coppia affiatata».
«Vox populi vox dei, eh?». Scosse la testa. «Lei si lascia fuorviare dalle apparenze».
Sognavo? M’incolpava di coprire Carla. Me. Me, capite? Pazzesco.
Dissi: «Properzi era penalista. Secondo me il delitto è maturato nell’ambito della sua professione. Sto passando al setaccio le pratiche del suo stu...».
Alzò una mano per obbligarmi al silenzio. «Senta, quel tenente... come si chiama?».
«Cipriani?».
«Sì, Cipriani». Si strofinò il mento con la punta dell’indice. «E’ venuto a raccontarmi un particolare che gli è parso molto strano». Mi spiò di sottecchi per vedere quale effetto provocavano su di me quelle parole.
Nel mio petto l’uragano ululava, ma restai impassibile.
«Lei», continuò, «è andato a informare la signora della morte dell’avvocato insieme a Cipriani. E’ esatto?».
«Sì, è esatto. E’ un reato?».
«No, non lo è. Però Cipriani dice che lei e la signora avete confabulato a quattr’occhi e questo gli è parso un po’... poco ortodosso, ecco».
«Confabulato? E’ stata questa la parola usata da Cipriani?».
Ignorò la domanda. Si accese una sigaretta. «Lo nega?».
«L’ho interrogata, in verità. E Cipriani era presente».
«A una certa distanza, sostiene lui. A ciò invitato espressamente da lei».
«E si è offeso?». Crollai il capo. «Incredibile».
«Non è questo il punto. Non faccia finta di non capire».
«Non capire che cosa?».
Alzò le spalle. «Via, lei e la Properzi siete stati fidanzati. Lo ha appena ammesso».
«E con questo?».
«Con questo si pone un grave problema di compatibilità, caro mio. Grave. Molto grave».
«Quale, scusi? Non riesco a vederlo».
«Lei no, ma io sì. Perciò affiderò l’indagine a un altro sostituto».
***
Sono passati sette mesi e quindici giorni da quella sera di domenica due febbraio in cui qualcuno sparò a Corrado Properzi. Domani comincerà il processo. Alla sbarra compariremo Carla e io.
Il nomignolo affibbiatoci dalla stampa, tanto per cambiare, è più logoro di una suola bucata: gli amanti diabolici. Ma la definizione, applicata a noi, suona originale. Saremmo stati amanti per sette anni senza mai vederci, senza mai parlarci, senza mai scriverci. Senza saperlo, insomma. Tuttavia, il collega che sostiene l’accusa riuscirà lo stesso a provarlo. Ne sono convinto.
Me mi si accusa d’essere l’esecutore materiale. Del resto, potrebbe essere altrimenti? Un tassista giura d’avermi visto uscire dallo studio dell’avvocato domenica due febbraio intorno alle dieci di sera.
Cristo, che schifo questa cella.



venerdì 5 aprile 2013

I paradossi del principio proletario


Il celebre smargiasso romagnolo, alias Benito Mussolini, riferendosi agli anni del suo avvento al potere parlava di ‘‘rivoluzione proletaria e fascista’’. E non a caso i militi della repubblica sociale, durante i mesi dell’agonia del fascio, cantavano: ‘‘Contro l’oro sarà il sangue a far la storia’’.
Pur provando ribrezzo per il linguaggio da spacconi, bisogna tuttavia riconoscere che il principio proletario fu uno dei cinque fondamentali della dottrina fascista. Gli altri quattro furono il principio totalitario, il principio bellicista (o nazionalismo bellicista), il principio della superiorità etica dello stato e il principio corporativo. A questi ne andrebbe aggiunto un sesto che non fu però di pretta marca fascista, bensì importato dalla Germania, il principio razziale.
Il fascismo, benché a noi piaccia ricordarlo come un regime da operetta, tutto passi romani, saluti romani, inni imperiali e pennacchi in testa, fu qualcosa di terribilmente serio. Al principio proletario dette pertanto concreta attuazione. Nessuno dimenticherà, voglio sperare, la politica demografica, finalizzata a dare alla patria più carne da cannone possibile.
Sarebbe comunque da meschini negare che la politica economica e sociale del fascismo fu di prim’ordine. Non starò a dilungarmi in noiosi dettagli, mi basta infatti citare alcune sigle: Agip (Azienda generale italiana petroli), Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro), Inps (Istituto nazionale della previdenza sociale), tutte creazioni del ventennio.
Né dobbiamo scordarci che il solco lasciato dalle dottrine fasciste nella cultura italiana è stato profondo e permane tutt’ora. Non potrebbe essere diversamente, dal momento che tre di quei cinque principi fondamentali sono stati assorbiti dalla costituzione repubblicana entrata in vigore il primo gennaio 1948.
La nostra carta costituzionale, essendo per fortuna democratica, ha sì rigettato con sdegnoso disprezzo il principio totalitario e il principio bellicista, non però il principio proletario, né quello corporativo (Cnel, natura semipubblica dei sindacati, organizzazione corporativa della magistratura) e neppure il principio della superiorità etica dello stato, sancito dal secondo comma dell’articolo quattro.
Il principio proletario lo troviamo, sia pure nella forma del cosiddetto ‘‘principio lavorista’’, al primo comma dell’articolo uno, che recita: ‘‘L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro’’. Il che significa che non è fondata né sulla terra (i beni naturali), né sul capitale.
Terra, lavoro e capitale, come c’insegna la teoria economica, sono i tre fattori di produzione necessari a produrre ogni bene o servizio. Nessun bene può essere prodotto senza l’impiego combinato dei tre fattori. Che dunque uno stato, nella sua legge fondamentale, si dichiari fondato su uno solo dei tre fattori appare quanto meno bizzarro.
E’ chiaro che la norma costituzionale in questione determina un discrimine classista a favore dei lavoratori (coloro cioè che erogano i servizi del lavoro, i proletari, come li si chiamava un dì) e non dei rentier (i percettori di rendite) e dei capitalisti (i percettori di profitti). Paradossalmente, però, non vi è nessun’altra norma nella costituzione che stabilisca che i lavoratori debbano essere comproprietari di tutti i beni strumentali o che la proprietà di ogni bene strumentale appartenga allo stato in nome e per conto dei lavoratori. In altre parole, il primo comma dell’articolo uno enuncia una pura e semplice petizione di principio, vigorosamente contraddetta dalle norme successive.
L’articolo quarantuno, infatti, dispone che ‘‘l’iniziativa economica privata è libera’’, ossia la costituzione non vieta il profitto. Mentre l’articolo quarantadue, al primo comma, addirittura sancisce: ‘‘La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati’’.
Tradotto in soldoni, rendite e profitti privati sono consentiti. Ovverosia, il discrimine classista a favore del proletario è, di fatto, un puro e impossibile enunciato di principio. Uno slogan. In pratica, lettera morta, né più né meno.
Non solo, ma è pure del tutto superfluo, perché il primo comma dell’articolo quattro fissa un preciso e razionale obbligo giuridico a carico dello stato al fine di tutelare i lavoratori: ‘‘La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto’’.
I paradossi del principio proletario qui illustrati – vetusta eredità del passato regime – andrebbero perciò eliminati riscrivendo il primo comma dell’articolo uno sulla base del principio di libertà e del principio di cittadinanza. Per esempio così:
‘‘Le repubblica italiana è liberamente fondata dai cittadini a tutela della propria libertà e del proprio benessere materiale e spirituale’’.