sabato 22 dicembre 2012

Confessioni d'autore


Il romanziere, come sappiamo, mette la propria fantasia a disposizione dei lettori. Vive, con l’immaginazione, esperienze che la vita ci nega, oppure racconta esperienze, sia felici sia drammatiche, da lui vissute, o che magari gli sono state riferite, e le trasmette agli altri attraverso la parola scritta. Se la sua penna funziona, i lettori, scorrendo il testo con gli occhi, quelle esperienze le rivivranno anche loro.
Il fine della narrazione è suscitare emozioni e far riflettere. Obiettivo impossibile da raggiungere se l’autore non viene in prima persona emotivamente coinvolto in ciò che scrive. Se un evento, un argomento o un personaggio non catturano il suo interesse, non sarà mai in grado di accendere nelle menti altrui la scintilla che stuzzica la curiosità e invoglia a leggere.
Se i romanzi e i racconti hanno lo scopo di realizzare, sia pure attraverso l’immaginazione, desideri inappagati o mettere a nudo aspetti della realtà che ci circonda, la funzione ultima che lo scrittore, nolente o volente, finisce per svolgere è quella di ‘‘testimone’’.
Offre cioè una testimonianza dell’universo esistenziale nel quale è immerso e che condivide giorno per giorno insieme ai suoi simili. E questo universo comprende, ovviamente, sia i fatti reali che i desideri.
A qualcuno la mia tesi potrà sembrare errata. La fantascienza, per esempio, non ha nulla da spartire con la realtà. Il suo campo d’azione è il futuro. Un futuro che, in concreto, è frutto esclusivo della fantasia dei suoi autori. Pertanto gli scrittori di fantascienza non si possono e non si devono considerare dei testimoni. Raccontano vicende accadute in epoche e in mondi che non sono mai esistiti.
Ma in verità non è così. Il desiderio di conoscere e prefigurare il futuro lo abbiamo tutti. La fantascienza appaga questo desiderio e chi scrive storie ambientate nel futuro testimonia l’esistenza attuale ed effettiva di tale bisogno.
Quanto ho finora detto ha delle conseguenze inaspettate. Inaspettate soprattutto per gli scrittori. La loro brama d’essere e di apparire artisti che creano opere dal nulla subisce un sonoro schiaffo. Chiunque, potendo scegliere, preferirebbe presentarsi al pubblico nelle vesti di artista, anziché di semplice testimone.
Eppure le cose stanno così. Lo scrittore è senza dubbio un creativo, ma le parole che escono dalla sua penna gli sono alla fin fine dettate in larga misura dall’universo esistenziale nel quale è immerso e dalle esperienze che gli è toccato vivere. E’ per questa ragione se a volte, a chi mi chiede dove prendo lo spunto per i miei libri, rispondo con una battuta all’apparenza paradossale. Non è lo scrittore, dico, a scegliere le storie che vuole raccontare, ma sono le storie che scelgono lui.



mercoledì 5 dicembre 2012

Ah, che repubblica!


Quand’ero bambino e andavo alle elementari il maestro ci diceva: ‘‘Noi abbiamo la migliore costituzione del mondo’’.
Un assioma che ho condiviso con sincero fervore finché non andai all’università e studiai diritto costituzionale italiano e comparato.
Per me fu uno choc.
Il professore di diritto costituzionale era un intellettuale marxista e i testi sui quali dovevamo preparare l’esame erano il manuale e la costituzione della decaduta Urss.
Lo choc mi fu provocato dal confronto della costituzione sovietica con quella della repubblica italiana.
Quello sovietico era un sistema totalitario, ossia illiberale e non democratico. La sovranità, in buona sostanza, apparteneva al partito unico. O, se vogliamo esprimerci in termini un pochino più formali, ai lavoratori iscritti al partito. Lo stato, così come configurato dalla costituzione sovietica, altro non era che uno strumento in mano al partito per rendere concreta la realizzazione del socialismo.
In poche parole, nella costituzione sovietica – una costituzione, ripeto, propria di un sistema illiberale e non democratico – mancava del tutto il principio della superiorità etica dello stato. L’eticità era insita nella dottrina marxista, non nei principi costituzionali che sancivano struttura e funzionamento dello stato.
La nostra carta costituzionale – quella che alle elementari il mio maestro definiva ‘‘la migliore del mondo’’ – al secondo comma dell’artico quattro tuona invece in maniera perentoria: ‘‘Io, lo stato, indico a te cittadino quali sono i tuoi doveri morali e ti ordino di rispettarli’’.
Ossia, la nostra legge fondamentale si basa sul principio della superiorità etica dello stato, eredità culturale del precedente regime fascista.
Gli effetti sono paradossali. Abbiamo sì una repubblica democratica, dove si conquista il potere di governo, per una durata limitata, attraverso la competizione elettorale, e si garantiscono ai cittadini le libertà civili (libertà di voto, libertà d’espressione, libertà di manifestazione, libertà di fondare movimenti politici, ecc.), tuttavia non liberale.
Vale a dire che è lo stato che crea e forgia il cittadino, non sono i cittadini che creano e forgiano lo stato.
Non dobbiamo pertanto stupirci – o per lo meno non si stupiranno quanti di noi hanno viaggiato e vissuto all’estero – se il funzionamento della macchina statale in Gran Bretagna, Danimarca, Germania, Svizzera, Francia, Olanda, Austria e così via, sia di gran lunga più efficiente che non in Italia.
Uno stato non liberale è uno strumento di potere, non una struttura di servizio. La nostra repubblica, grazie alla carta costituzionale, rappresenta per i gerarchi di partito, di qualunque partito, una vera benedizione. Per i cittadini è invece qualcosa che costa molto e dà in cambio troppo poco.
Siamo infatti celebri nel mondo per la scadente qualità dell’azione dei pubblici poteri: carceri che scoppiano, lunghezza inusitata dei processi, aggressività perpetua della criminalità organizzata, città bellissime e sporche.
Come se ne esce?
Con un vigoroso sussulto dell’opinione pubblica, con una rafforzata sensibilità del corpo elettorale, cioè del popolo sovrano, che ha il pieno diritto di chiedere a gran voce le necessarie riforme costituzionali che trasformino la repubblica italiana in una democrazia liberale.



martedì 4 dicembre 2012

Il sangue e l'anima


C’è chi sostiene che scrivere non sia un mestiere ma un modo di vivere.
E’ un’affermazione estrema, d’accordo, esagerata. Tuttavia, non del tutto falsa.
Vediamo perché.
L’autore di romanzi e racconti è un artigiano, su questo non ci sono dubbi. Il suo lavoro consiste nel forgiare un genere molto particolare di materia per ricavarne testi capaci di catturare la mente e il cuore del lettore.
La materia è l’immaginazione. Le parole, invece, sono lo strumento.
E’ impossibile quindi negare che lo scrittore, come ogni altro artigiano, abbia innanzitutto il dovere di acquisire le abilità necessarie a usare lo strumento e maneggiare la materia. Per riuscirci ha bisogno di esperienza. Deve insomma impratichirsi nell’uso dei ferri del mestiere.
In altre parole, s’impara a scrivere scrivendo. L’apprendistato gli è indispensabile come lo è per il sarto, il fornaio, il muratore.
Qui però finisce ogni somiglianza con tutte le altre professioni.
Il narratore infatti non riuscirà mai a scrivere prosa accattivante da divorare con passione se non si lascia lui stesso coinvolgere in prima persona dalle vicende che racconta. Nessun autore riuscirà cioè ad avvincere i lettori se lui per primo non viene avvinto dalla materia che sta forgiando. Il suo coinvolgimento dovrà essere totale, altrimenti non avrà alcuna speranza di suscitare interesse. Deve metterci l’anima e il sangue.
Questa singolare caratteristica del prosatore – questa condanna, potremmo dire – rende unico il suo lavoro. Ed è in questo senso che scrivere diventa un modo di vivere.
Per meglio comprendere le mie affermazioni può forse essere utile riportare un esempio concreto. Uno dei più grandi geni letterari del XX secolo, Georges Simenon, confessò una volta in una intervista televisiva d’avere l’abitudine d’immergersi nei suoi personaggi in maniera assoluta. Perciò, se stava scrivendo di un malato di cuore, ne imitava durante la giornata i comportamenti. Ai figli la cosa non sfuggiva e chiedevano alla moglie: ‘‘Ma cosa succede a papà?’’.
‘’Niente’’, rispondeva lei, ‘‘sta scrivendo un romanzo con protagonista un malato di cuore’’.
Sì, serve il sangue e l’anima.



sabato 1 dicembre 2012

Un giornalista scomodo


Com’è risaputo, non sono un critico letterario e non sono pertanto in grado di scrivere recensioni. Inettitudine, lo confesso, che non mi ha mai sconvolto l’esistenza. Si dà pero il caso che abbia letto, con appassionato trasporto, “Un giornalista scomodo” (Aliberti, 2008), autobiografia dell’avezzanese d’adozione, e dunque mio conterraneo d’adozione, Gennaro De Stefano, scomparso il primo maggio 2008, e mi dolgo assai di non saperla recensire.
Il libro di Gennaro De Stefano non mi è semplicemente piaciuto. Mi ha emozionato. Mi ha commosso. E ha rinnovato in me l’aspra e vivida fierezza d’appartenere alla sana razza montanara abruzzese. Io infatti sono dell’Aquila, una città nel cui stemma s’erge una nera aquila arcigna, coronata dal motto “Immota manet”. E state certi che noi montanari d’Abruzzo, se il dovere e la dignità ce lo impongono, rimaniamo fermi e arcigni come il granito dei nostri monti sui capisaldi dell’onore e della verità.
Di Avezzano e della Marsica ho una buona conoscenza, a ragione del fatto che fino al 1969, anno della sua morte, vi abitava la mia nonna materna, fascinosa e volitiva signora dagli occhi verdi screziati di pagliuzze d’oro. Anch’io dunque, come De Stefano, ho giocato, insieme ai miei cuginetti, con i bigliardini dell’oratorio situato sotto l’abside della cattedrale dei Marsi, in piazza Risorgimento. Anch’io ho mangiato le fette di cocomero comprate dai venditori ambulanti che, per proteggerle dalle mosche, le esponevano in cassette dalle pareti di rete metallica. Anch’io, come De Stefano, ho viaggiato sulla Millecento di papà per le curve della statale ottantadue, fino a San Vincenzo Valle Roveto, comune confinante con Balsorano (eh, Balsorano, toponimo che avrebbe marchiato a fuoco la mente e la carne di De Stefano), dove la famiglia di mia madre ha la casa avita e i possedimenti terrieri, coltivati a ulivo.
E non solo ho una buona conoscenza dei luoghi, ma pure della gente. Posso perciò assicurarvi che i marsicani sono testardi e sanguigni, giusto come li ha raffigurati De Stefano, nelle cui pagine si riconoscono a occhi chiusi i contadini di Fontamara, nonché lo spirito caparbio di Luca – sì, il Luca siloniano di “Il segreto di Luca” – un impasto di onestà, sopportazione, senso dell’onore e sacrificio. Come anche balza agli occhi, immergendosi nelle pagine di “Un giornalista scomodo”, la fanatica arroganza della borghesia di provincia, specie della borghesia meridionale. E difatti noi aquilani, che di snobismo provinciale siamo imbevuti fino al midollo, tanto d’averne fatto una filosofia di vita, diciamo con grezza e puerile superbia che nel terremoto del ’15 ad Avezzano sono morti i marsi e sono rimasti i cani.
L’autobiografia di De Stefano, in tutta oggettività, si divora come un giallo di gran classe, e ciò grazie alla malizia affabulatoria dell’autore. Malizia che sgorga dal talento e contraddistingue gli scrittori di mestiere, quelli veri, capaci d’intingere la penna nel proprio sangue e nella propria anima. Ecco perché il libro non è soltanto “bello” ma, in un certo senso, “necessario”. Necessario per i lettori.
De Stefano, come i più ricorderanno, il 31 agosto del 1992 subì un’oscena carognata da parte di un pubblico ufficiale. Da parte di un soggetto, cioè, stipendiato da questa nostra repubblichina postfascista che mi dà spesso l’impressione, sotto certi versi, più d’essere figlia spuria della repubblichina di Salò che figlia legittima, come invece dovrebbe, del referendum del 2 giugno ’46.
Un poliziotto, per l’appunto, svolse in maniera criminosa le proprie funzioni d’ufficio e fece infilare cocaina nella macchina di proprietà della moglie del giornalista, il quale per combinazione vi si trovava alla guida. E tutto ciò perché quel giornalista, unica voce fuori dal coro armata soltanto d’intelligenza e professionalità, stava smontando l’indagine sul presunto mostro di Balsorano, il muratore Michele Perruzza, accusato dell’assassinio della nipotina di sette anni, Cristina Capoccitti. Risultato: il giornalista scomodo, immediatamente arrestato, passò due mesi al fresco. Mentre vari anni dovettero trascorrere prima che il sullodato “servitore dello stato”, artefice dello scherzetto da prete (pardon, volevo dire da vice ispettore ps), finisse condannato con sentenza irrevocabile.
De Stefano inizia a raccontarci di sé partendo da quel momento cruciale, per scendere poi a ritroso fino al matrimonio dei genitori e risalire via via agli episodi successivi d’una vicenda esistenziale densa di singolari esperienze, ora dolci ora amare, tutte affrontate, secondo la testimonianza della sua collega Antonella Amendola, con “l’animo di ragazzo mai cresciuto, che andava alla sfida della vita con baldanza ingenua e felice”.
E così, leggendone con gaio accanimento l’autobiografia, ci appassioniamo alle avventure d’un uomo che fu seminarista da ragazzino e funzionario del partito comunista da giovane, per diventare poi, in un incredibile e avvincente susseguirsi di attività, direttore sportivo in squadre di serie C, ristoratore, emigrante in Germania, venditore d’articoli per dentisti, giornalista e scrittore. Ne scopriamo gli amori, la frenetica sensualità tipica dei marsicani, i legami struggenti con i propri cari, le delusioni ideologiche, la malattia che lo avrebbe condotto alla morte e, last but not least, la passione viscerale, irrefrenabile, imperiosa per l’arte di scrivere, che lo ha reso, stando al competente parere del cronista investigativo Edoardo Montolli, “uno dei più grandi giornalisti italiani”.
Se la scrittura – e di conseguenza la lettura – è un processo di scoperta, De Stefano ha colto nel segno, mettendo a nudo lo squallore delle istituzioni pubbliche italiane. Istituzioni alle quali è possibile dare precisi nomi e precisi cognomi. Nomi e cognomi che Gennaro De Stefano, con sprezzante signorilità, ha evitato con cura di citare nel suo libro. Non vi viene infatti mai nominato né il patronimico del vice ispettore di polizia che lo inguaiò, né tanto meno vi si azzarda una qualche ipotesi su chi fosse stato il mandante. A pagina 289 appare comunque un brano rivelatore: “Un avvocato mi raccontò: ‘Qualche giorno prima che arrestassero il poliziotto, io ero nel corridoio della procura quando arrivò l’ex capo. Bussò alla porta della collega che indagava, impegnata in quel momento con un colonnello dei carabinieri. La donna magistrato non fece entrare l’ex superiore nella sua stanza, ma gli parlò sulla porta. Io potei udire distintamente le parole: ‘Tu mi hai insegnato a fare questo mestiere e io l’ho imparato. In questa circostanza so come mi devo comportare, non ho bisogno di consigli’. Quale fosse il consiglio o la richiesta non so dirtelo, però qualcosa era andato a chiedere”.
Ebbene, tale “ex capo” non è ignoto a nessuno. Tra l’altro, è un mio concittadino, ossia un aquilano di buonissima famiglia – tanto buona che nel basso medioevo i suoi avi possedevano, nei dintorni dell’Aquila, decine d’ettari di pascoli utili a nutrire sterminati greggi di pecore. Lo stesso individuo, cioè, che nel mio noir “Un buon sapore di morte” ho chiamato Lorenzo Nardis, cambiandogli di necessità il nome e le origini sociali, poiché mi disgusta, come avrebbe disgustato De Stefano, conferire fama letteraria ad antieroi tanto squallidi.
La sostanza intima, profonda, dei libri non è, come sappiamo, puramente estetica, o puramente tecnica, bensì etica. E l’eticità, nel libro di De Stefano, la si respira dalla prima all’ultima parola, dal primo all’ultimo rigo (p.es. v. a pag. 305: “Avevano vinto i garantisti, aveva vinto un giornalismo scomodo – ma qual è il giornalismo comodo? – e testardo e aveva vinto soprattutto una regola: quando si subisce un’ingiustizia non ci si deve rassegnare, si deve lottare fino in fondo utilizzando tutti i mezzi che il codice consente, anche quelli più remoti”), fino all’impeccabile finale, dove incontriamo uno scrittore, un uomo, che ha saputo morire con il sorriso sulle labbra, resistendo al cancro per sette lunghi anni di vita piena e laboriosa.
Sì, amici, “Un giornalista scomodo” è un signor libro, come se ne legge uno ogni cento, se non forse uno ogni mille, e mi piacerebbe vivere abbastanza da scriverne anch’io uno altrettanto bello. Nella vana attesa m’illudo, forse un giorno lontano, di riuscirci.