venerdì 30 maggio 2014

Ma sì, diamo a Cesare quel che è di Cesare

Nel vangelo di Luca si legge:
‘‘Si misero (i capi dei sacerdoti e gli scribi) a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore. Costoro lo interrogarono: «Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guardi in faccia a nessuno, ma insegni qual è la via di Dio in Verità. E’ lecito, o no, che noi paghiamo la tassa a Cesare?». Rendendosi conto della loro malizia, disse: «Mostratemi un denaro. Di chi porta l’immagine e l’iscrizione?». Risposero: «Di Cesare». Ed egli disse: «Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio». Così non riuscirono a coglierlo in fallo nelle sue parole di fronte al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero’’.

Premetto a scanso d’equivoci di non avere la benché minima intenzione di dedicarmi all’esegesi dei testi sacri. Mi manca la stoffa. Le mie vaste e profonde incompetenze – avete capito bene, ho detto ‘‘incompetenze’’, non mi sono sbagliato – abbracciano ogni campo. Non credo però di commettere un peccato mortale se confesso di percepire, nell’affermazione di Gesù, un’ironica, e dunque rassegnata, sfiducia nel potere politico.
Nell’udire l’invito ‘‘date a Cesare quel che è di Cesare’’, rivolto alle illustri personalità religiose che desideravano rifilargli un tiro mancino, mi sembra infatti di ascoltare pure un implicito: ‘‘Riportate questa robaccia a chi l’ha coniata’’. Insomma, per Gesù la politica e i politicanti andavano accettati con la stessa rassegnazione con la quale dobbiamo subire la grandine e le zanzare, se ci va bene, o le epidemie e i terremoti in tutti gli altri casi.
Da allora – e per la miseria sono passati venti secoli – nulla è cambiato, a me pare.

La storia è nota e non serve mettersi qui a ripetarla nei dettagli. Le linee generali bastano e avanzano.
Già nel quarto secolo avanti Cristo, come m’insegnava il mio professore di Storia delle dottrine politiche, i filosofi della Grecia antica avevano individuato le forme di governo possibili: monarchia, aristocrazia e democrazia, corrompibili in tirannia, oligarchia, demagogia. Da quel dì nient’altro di nuovo è apparso sotto il sole, se non forse l’anarchia, le cui formulazioni teoriche non hanno però trovato finora sbocchi concreti.
Nell’evo contemporaneo abbiamo poi assistito a una cocente disillusione. Per effetto dell’illuminismo e della rivoluzione francese si è diffusa, prima tra gli intellettuali e poi tra le masse, l’idea che la politica potesse diventare un fattore di progresso e incanalare l’umanità verso un mirabolante eden sociale e materiale.
Già gli esiti della rivoluzione francese avrebbero dovuto mettere in guardia da entusiasmi eccessivi per i sogni messianici di filosofi e rivoluzionari. A furia di liberté, fraternité, egalité la rivoluzione francese è finita con una dittatura militare, ben presto evolutasi in monarchia assoluta a vantaggio di parenti e compari, sconquassando con le guerre l’intera Europa. Le rivoluzione successive, predicate che fossero da filosofi barbuti o da caporali romagnoli e austriaci, hanno addirittura intensificato i crimini di stato a livello industriale. Piangeremo le loro vittime per l’eternità.
Ciò che inoltre è accaduto negli ultimissimi anni in taluni paesi che hanno adottato l’euro lascia davvero interdetti, gettandoci nel più tetro sconforto. I governi di quei paesi, tutti retti da sistemi democratici, hanno deliberatamente adottato politiche economiche il cui unico effetto è stato quello di peggiorare le condizioni di vita di milioni di cittadini. Persino le democrazie meritano dunque la nostra estrema diffidenza.
Le lezioni impartiteci dall’esperienza vicina e lontana sono perciò chiarissime. Il massimo che ci si può aspettare dalle autorità politiche è la tutela dei diritti e buona amministrazione, se ci riescono. Ma affidare ai poteri pubblici obiettivi più ambiziosi si rivela sempre uno sbaglio. La palingenesi non è merce che Cesare sarà mai in grado di vendere.



venerdì 23 maggio 2014

La terra e il sangue

Un giorno del settembre 1956, in un paesino dei monti Iblei, nella Sicilia sud orientale, un adolescente accompagna a una fiera il padre agricoltore per vendere due puledri e due muli. In quell’occasione il giovane conoscerà un uomo che ha superato da un pezzo i settant’anni ma mantiene tutt’ora intatte l’autorevolezza e la personalità di chi nel corso della vita ha saputo conquistare la stima dei giusti e il rancore dei marci.
Quel signore dal fisico e dal portamento non comuni era un sensale e si chiamava Gaetano Sulari, don Tanu. L’adolescente era invece Corrado Sebastiano Magro, ex allievo di seminario tornato a faticare sui campi coltivati a mezzadria dalla sua famiglia.
Tra l’anziano signore e il giovane ex seminarista s’instaura un legame davvero singolare. L’anziano comincia a raccontare al giovane le drammatiche e avventurose vicende che hanno marchiato a fuoco la sua esistenza, ricordi via via trascritti dal ragazzo su vari quaderni. Mezzo secolo più tardi dalle pagine ormai ingiallite di quei quaderni Corrado Magro ricaverà due romanzi, il secondo continuazione del primo: ‘‘All’ombra degli aranci’’ e ‘‘Lunedì di Pasqua’’.
In ‘‘All’ombra degli aranci’’ la narrazione si dipana a partire dagli ultimissimi anni dell’Ottocento, quando Tanu non sfiora ancora i vent’anni, e prosegue sino agli sgoccioli del secondo decennio del nuovo secolo. Tanu sta mietendo con il falcetto il grano assieme ad altri mietitori disposti in lunga fila, sudando dall’alba al tramonto sotto l’impietoso sole dell’isola. E’ orfano di padre, un abile mastro di muri a secco ucciso dal calcio di una mula, e deve lavorare per aiutare la madre e la sorellina.
Tanu è innamorato di Milina – vezzeggiativo di Carmela – una ragazzina attraente e sveglia che dà ausilio ai mietitori portando loro da bere e svolgendo altre incombenze per rendere più spedito il loro lavoro. In sella al suo cavallo arriva il barone padrone del fondo – il feuro, dicevano i siciliani, il feudo – ove si svolge la mietitura. Il feudatario adocchia la ragazza e decide su due piedi di utilizzarla per i propri sollazzi. Getta una moneta al padre di lei e ordina a Milina di raggiungere l’indomani la sua dimora di campagna, accampando come scusa la gravidanza della signora baronessa, circostanza che renderebbe indispensabile l’aggiunta di una nuova cameriera al suo servizio.
Ad accompagnare in groppa a un’asina Milina nella dimora del barone, su perfida volontà di questi, sarà proprio Tanu. Per i due giovani, attratti da sentimenti reciproci, quel viaggio segnerà lo spartiacque tra i desideri agognati, che presto dovranno per forza di cose lasciarsi alle spalle, e la sottomissione a un destino ingiusto, perché Milina diventerà in breve la favorita del barone e nell’animo di Tanu la ferita provocata dalla perdita dell’amata non si rimarginerà mai.
Un episodio all’apparenza trascurabile si verificherà durante quel viaggio. Passando davanti a una masseria incontrano una donna con un pupo in braccio, al quale Milina non negherà una carezzera. Quel bambino è Paolo Spalla, figlio di don Peppino, un possidente terriero. Le vite del padre e del figlio s’intrecceranno di lì a non molto con quella di Tanu.
Don Peppino incaricherà Tanu di erigergli un muro a secco e, presolo a ben volere, lo avvierà con un sostegno concreto alla carriera di intermediario nella compravendita di bestiame. Don Peppino Spalla guadagnerà perciò nell’animo di Tanu uno spazio speciale, quello di un secondo padre, e il piccolo Paolo sarà perciò un suo fratellino.
Allo scoppio della grande guerra Tanu viene richiamato e inviato al fronte in una batteria d’artiglieria da montagna, mentre Paolo, cresciuto e ormai orfano della madre, morta di tisi, si era già imbarcato per l’America. In guerra Tanu verrà ferito e rimarrà a lungo degente, sospeso tra la vita e la morte, in un ospedale militare, amorevolmente curato da un’aristocratica crocerossina. Tra infermiera e artigliere sboccia la passione, che di comune accordo sfocerà però in un addio definitivo.
Tornato in Sicilia Tanu riprende i suoi affari. La parabola di don Peppino Spalla comincia intanto a declinare. Dall’America non riceve più le lettere di Paolo, e ciò suscita in lui un profondo senso d’abbandono. Quando si ammala di polmonite Tanu cerca in tutti i modi di assisterlo, almeno finché non viene aggredito da due manigoldi che riducono il sensale quasi in fin di vita, impedendogli di prendersi cura dell’amico sofferente. Nello stesso tempo trova la morte anche un impiegato delle poste in pensione, il quale sapeva che Paolo Spalla in America aveva cambiato indirizzo e aveva dato quello nuovo a Tanu.
Don Peppino, prima di spirare, donerà con atto notarile i suoi beni al cognato prete, che già da anni si occupava di amministrarli. Al rientro dall’America Paolo appura pertanto che l’eredità paterna è finita nelle mani dello zio sacerdote. La tragedia, a quel punto, si compie e a nulla varranno i tentativi di don Tanu Sulari di arrestarne il corso. Il sangue verrà versato sulla terra.

Alla potenza della trama, sorretta da un linguaggio ammaliante, si aggiungono nel romanzo di Corrado Magro tre elementi che ne accrescono la suggestione. Anzitutto, il libro dipinge le atmosfere e le condizioni sociali e materiali del mondo rurale del sud Italia con la stessa efficacia che si ritrova in ‘‘Fontamara’’ e ‘‘Vino e pane’’ di Ignazio Silone. In secondo luogo, ci descrive un clero cattolico del tutto scristianizzato, come in ‘‘I viceré’’ di Federico De Roberlo, ‘‘Una storia semplice’’ di Leonardo Sciascia, ‘‘La mossa del cavallo’’ di Andrea Camilleri’’. Infine, ‘‘All’ombra degli aranci’’ determina nel lettore una forte immedesimazione negli eroi, don Tanu Sulari e Paolo Spalla.
Leggerlo, ne ho assoluta certezza, sarà per voi un piacere.



venerdì 16 maggio 2014

Il presidente, né notaio né re

La figura peggio compresa del nostro sistema costituzionale è sicuramente il presidente della repubblica. Ciò è accaduto e continua a verificarsi perché si è sempre letta la costituzione con gli occhiali della retorica e senza tenere nel debito conto le matrici storiche che ne hanno forgiato il testo
La retorica, come sappiamo, è la corda con la quale i faziosi amano impiccarsi. Gli effetti di uno sport intellettuale tanto inconcludente hanno impedito di riconoscere con franchezza le eredità trasmesse alla costituzione repubblicana dallo statuto albertino. Si è preferito coglierne soltanto le differenze, incappando così in grossolani equivoci.
Durante il regime democristiano, ossia quel periodo storico apostrofato con pietoso eufemismo ‘‘prima repubblica’’, si era soliti definire il capo dello stato ‘‘presidente notaio’’. Gli si accreditavano perciò funzioni pressoché simboliche, riducendone il ruolo a rappresentante dell’unità nazionale, o poco più.
Nell’ultimo ventennio abbiamo al contrario assistito a un sempre più incisivo intervento del presidente sulla scena politica. Coloro che da questa inedita situazione si sono sentiti svantaggiati hanno ben presto cominciato a paragonarlo a un re assiso sulla reggia ex papalina del Quirinale, mentre la parte politica beneficiata lo ha naturalmente elogiato, coniando per lui la qualifica di ‘‘garante della costituzione’’, definizione che nemmeno il lettore più attento troverà mai nella carta costituzionale (aggiungo per inciso che il sindacato di legittimità costituzionale delle leggi è affidato a un organo specifico, la corte costituzionale, appunto, e non al presidente).
Ma allora, vien da chiedersi, come è stato possibile per un notaio diventare re?
Trasgredendo le regole della narrazione drammatica, anticipo fin d’ora il colpo di scena finale e svelo subito che il presidente non è né un re né un notaio. Il suo ruolo politico – e sottolineo, politico – gli è deliberatamente assegnato dalla costituzione, che al riguardo ricalca prerogative che lo statuto albertino riservava al sovrano. L’attuale capo dello stato, oltre a nominare il presidente del consiglio e i ministri (art. 92), ha anche il potere di controfirma sui decreti legge e sui disegni di legge governativi (art. 87). Disponendo di un tale assoluto potere di sanzione sugli atti del governo può, allo stesso modo in cui due più due fa quattro, influenzarne l’indirizzo politico e amministrativo.
Durante il regime democristiano tali potestà del capo dello stato non apparivano evidenti giacché le leve del potere erano detenute dai segretari di partito, i quali solo in casi sporadici accettavano l’incarico di presiedere il consiglio dei ministri, preferendo condizionare dall’esterno l’azione del governo. A quel tempo venivano inoltre elette al soglio quirinalizio sempre e soltanto personalità appartenenti alla maggioranza parlamentare, scevre dunque da motivazioni ideologiche che le spingessero a contrastare governi di colore politico identico al loro. Cane non morde cane, come suol dirsi.
Le circostanze sono mutate con la cosiddetta seconda repubblica, quando coalizioni guidate da un noto femminista, talora godendo in parlamento della maggioranza dei seggi, venivano incaricate di formare il governo. O meglio, l’incarico veniva affidato al noto femminista. E cominciavano per lui gioie e dolori. O meglio, doloretti di pancia. Si è dovuto infatti confrontare di continuo con presidenti della repubblica di colore politico opposto al suo, i quali hanno legittimamente esercitato i poteri loro conferiti dalla costituzione per intralciarne l’operato e pestargli i calli.
E’ la politica, ragazzo.
Una politica lecita e rispettosa della costituzione, beninteso.



venerdì 9 maggio 2014

L'inflessibile statuto albertino

Nessuno di noi ammetterà mai di credere nelle favole. Sta però il fatto che le favole esistono e un mucchio di gente le piglia per oro colato. Una delle più spassose favolette che moltitudini di sedicenti ‘‘esperti’’ da quasi settant’anni vanno raccontando a destra e a manca riguarda lo statuto albertino, ossia la carta costituzionale del regno di Sardegna divenuta, dopo l’annessione dello stivale ai domini sabaudi, costituzione del regno d’Italia.
Si ripete a mo’ di cantilena che lo statuto fosse ‘‘flessibile’’, vale a dire che le sue norme si potevano modificare tramite leggi ordinarie, anziché con procedure più gravose, come è invece per le carte cosiddette ‘‘rigide’’, ad esempio la costituzione della repubblica italiana. A sostegno di tale tesi si citano le ‘‘leggi fascistissime’’, attraverso le quali il famigerato smargiasso romagnolo, alias Benito da Predappio, trasformò lo stato liberale in dittatura.
Si tratta tuttavia di una credenza del tutto fasulla.
I fascisti non cambiarono infatti neanche una virgola allo statuto, che rimase teoricamente in vigore e immutato dalla prima all’ultima parola, né tanto meno lo abrogarono. Agirono in maniera molto più pragmatica, limitandosi a metterlo sotto i piedi con il complice avallo di sua maestà Sciaboletta Savoia.
Il regime totalitario creato dallo smargiasso romagnolo risultava dunque, statuto alla mano, illegale.
Incostituzionale.
Insomma, fu una di quelle tante situazioni della storia d’Italia tragiche ma poco serie.
Se il re Sciaboletta, al quale lo statuto assegnava il potere di sanzione sulle leggi (art. 7) – poteva cioè rifiutarsi di promulgarle anche se approvate dal parlamento –, avesse tenuto fede al giuramento prestato nel momento dell’incoronazione ‘‘di osservare lealmente lo statuto’’ (art. 22) e si fosse perciò rifiutato di apporre la propria firma alle leggi fascistissime perché incostituzionali, con ogni probabilità ci avrebbe rimesso la corona.
Eh, sì, le comode poltrone piacciono a tutti, anche ai re.
Va comunque riconosciuto che, se ci avesse provato, si sarebbe aperta una stagione politica incerta e turbolenta per l’intero paese, non solo per lui.

L’elemento che caratterizzava in maniera specifica lo statuto – oltre al fatto che fosse una carta liberale e, dal punto di vista tecnico, ‘‘breve’’, nel senso che delineava i poteri dello stato in linea generale e senza prescrivere in modo troppo dettagliato le procedure di funzionamento – era la sua natura di costituzione ‘‘graziosamente concessa’’ dal sovrano – ottriata, come dicono le personcine istruite, mentre i tipi molto chic preferiscono addirittura definirla octroyée, alla francese – anziché redatta e deliberata da un’assemblea eletta.
Carlo Alberto lo promulgò il 4 marzo 1848. Nel preambolo lo si definiva ‘‘Legge Fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia’’, la qual cosa lasciava intendere che avesse tutti i crismi di una carta rigida e inflessibile peggio di una statua. Un atto di fede verso il quale, per la verità, non tutti i regnanti si sono sempre mostrati ligi. Non a caso Pio IX, papa-re dello stato pontificio, e Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, le costituzioni da loro graziosamente concesse ai rispettivi sudditi, quasi in contemporanea al re di Sardegna, provvidero ben presto e senza eccessivi complimenti a strapparle e rimangiarsele.
Ma oltre a questo problema, diciamo così, extra giuridico, le costituzioni siffatte ne presentavano un altro. Se discendevano in toto da un atto di volontà del sovrano, possedeva il parlamento la potestà di varare norme di rango costituzionale? La questione si pose qualche anno dopo l’entrata in vigore dello statuto, poiché si sentì la necessità di riformare il senato, che era di nomina regia. Naturalmente, non se ne fece nulla. E proprio perché, in fin dei conti, il parlamento quella potestà non l’aveva. I poteri costituzionali, pur se non era scritto da nessuna parte, appartenevano solo al re.
D’altronde, lo statuto albertino perì per un atto del sovrano. O meglio, del facente funzione. A decretarne la morte provvide infatti il luogotenente generale del regno, colui che sarebbe di lì a breve diventato, per effetto dell’abdicazione di babbo Sciaboletta, il re di maggio.
Fu a causa del decreto-legge luogotenenziale del 25 giugno 1944, numero 151, che lo statuti morì. Al primo comma dell’articolo 1 tant’è si leggeva: ‘‘Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato’’.
Sì, lo so, a chi si ciba d’ignoranza e di retorica sembrerà inverosimile che la vigente costituzione repubblicana sia nata per atto di un monarca. O meglio, di un facente funzione, di un semplice principe di Piemonte. Ma la legge non ammette ignoranza.



sabato 3 maggio 2014

Scrittori da blog

(In collaborazione con Enrico Mattioli, Pierluigi di Cosimo e Alessandro Agrati)

Con i tempi che corrono un autore di narrativa se non possiede un blog non esiste.
A sentire questa mia asserzione tanto lapidaria qualcuno potrebbe mettersi a ridere e ribattere:
«Ma cosa dici, fesso? Chi non pubblica con un grosso editore non esiste. Tu non esisti».
Certo, sarà pure questione d’opinioni, ma quando ho specificato ‘‘con i tempi che corrono’’ alludevo al mondo d’oggi dominato da internet e alla diffusione del libro elettronico, fatti che hanno di sicuro cambiato i connotati al vetusto panorama editoriale e introdotto nuovi modi di leggere.
Alla vecchia guardia amante dei libri di carta tutto ciò forse non piacerà, però gli scrittori da blog ormai esistono e io sono uno di loro. Ho voluto così farmi una chiacchierata con alcuni colleghi, per confrontare le loro idee e le loro esperienze con le mie. Ne trascrivo qui di seguito il verbale.

Enrico Mattioli
Beh, Gabriele, tu hai già aperto un sacco molto pesante: l’editore. Ho frequentato per molto tempo un blog che ora non esiste più, ‘‘Riaprire il fuoco’’, gestito da Ettore Bianciardi e Marcello Baraghini. Loro spesso battevano su questo punto (Baraghini, per la cronaca, è direttore editoriale di Stampa Alternativa), cioè se ha ancora senso, oggi, parlare di editori o trovarsi un editore con le possibilità che offre internet e il self publishing. Loro scrissero anche un volume dal titolo ‘‘Il libro mio me lo pubblico io’’, attraverso cui spiegavano passo passo come pubblicarsi i libri da soli, addirittura senza il self pubblishing ma tramite un tipografo, e, per l’ebook, imparare a crearlo da soli. Il punto è anche questo, cioè cosa sia l’editore, che per molti è sempre più simile a un tipografo perché non ci mette più un soldo e se non ti chiede contributi per la pubblicazione magari ti chiede di comprarne delle copie e, se non lo fai, il tuo libro giace nei magazzini.
Chi è contrario all’opportunità di prodursi e promuoversi da sé ti dirà che in tal modo si aggira il giudizio di chi si occupa di queste faccende, come, appunto, editor e redazioni varie e l’ambiente della narrativa si riempirà di personaggi frustrati che scrivono e scrivono ma leggono poco e pensano tutti quanti di aver composto un capolavoro che però è snobbato dai media.
Ai grossi editori non ci arrivi se non hai un nome che fa discutere (in qualsiasi campo) e che deve dare un motivo al lettore per spendere i soldi e acquistare un libro. Quindi direi che anche in questo caso l’ambiente della narrativa si riempie di personaggi (famosi, però) che scrivono e che se non hanno scritto un capolavoro comunque vendono.
Seguendo tale logica le pubblicazioni son decise dai distributori che portano materialmente il libro in libreria e conoscono bene i gusti del pubblico. E’ marketing, questo, facile.
Insomma, mi pare che alla fine non stiamo trattando di letteratura, libri, editoria e scrittori, no? La situazione è questa.

Pierluigi di Cosimo
Caro Gabriele, cosa dire di più della tua introduzione e dell’articolo dell’amico Enrico? Seppur appassionato di scrittura sin dalla tenera età, quando inventavo storie di avventure sulla mia “agenda segreta” o quando passavo i pomeriggi a giocare con il mio amico immaginario, come sai, mi sono affacciato al mondo della scrittura in modo, diciamo così, serio solo da un paio di anni.
All’inizio avevo l’illusione che esistessero ancora editori grandi o piccoli che fossero decisi a investire su buoni scritti seppur acerbi, capaci di vedere con il loro occhio esperto la qualità nelle poche frasi che gli fossero capitate sotto gli occhi, cogliendo, per così dire, “l’attimo fuggente”. Lentamente mi sono reso conto di due cose, le case editrici si sono ridotte al ruolo di “tipografie a pagamento”, con tutto il rispetto del lavoro di tipografo, e che, con l’avvento del mondo digitale, ognuno può scrivere e pubblicare liberamente, con risultati più o meno buoni. Risultati spesso dovuti più alla “condivisione” che alla qualità del racconto.
Inoltre, durante questi ultimi due anni, sono entrato in contatto con gruppi di autori “self”, provenienti da mondi e esperienze diverse, ma tutti accumunati dalla stessa voglia di scrivere e leggere cose buone. Beh, discutendo e accumunando le esperienze, sono venuti fuori tanti retroscena e mezzucoli che qualche autore utilizza per scalare le classifiche delle piattaforme più conosciute, tanti “fatti” strani difficilmente riconducibili a qualcuno in particolare, grazie all’anonimato che queste piattaforme permettono, ma che qualche sospetto su chi possa essere lo lasciano intravedere.
Insomma, un mare magnum di opportunità, ma anche di sgambetti, in cui purtroppo le case editrici non sanno nuotare, ma da cui si limitano a pescare qualche pesce qua e là, quando spesso è troppo tardi. Ed è un vero peccato, dato che da quando sono entrato in questo mondo di “self” ho iniziato anche a leggere molti dei lavori di questi colleghi, trovandoli all’altezza di grandi autori internazionali, anzi spesso con vene di profondo sentimento e storicità, che solo la lingua italiana sa regalare.

Alessandro Agrati
Gabriele, secondo me qui si potrebbe aprire un discorso più ampio, che finirebbe per degenerare in uno sterile dibattito sui massimi sistemi. In poche parole, con la diffusione mondiale della rete e dei dispositivi per collegarsi a essa, non solo un autore di narrativa che non sia attivo su internet (in particolare sui social network) rischia di finire nel dimenticatoio, ma lo stesso rischio lo correrà a breve anche chi, pur non scrivendo e non aspirando a farsi conoscere, si ritroverà costretto a crearsi un profilo su internet per non sparire dalla vita sociale. Non voglio dare giudizi di valore su questo fenomeno, né abbandonarmi a paranoiche teorie del complotto. Mi limito a constatare che, giorno dopo giorno, la rete condiziona sempre di più la nostra vita quotidiana.
Per quanto riguarda la diffusione del libro elettronico e dell’editoria digitale, sono sicuro che nel lungo periodo tutto ciò andrà ad assumere un peso sempre maggiore nel settore, col beneficio della riduzione dei costi economici e ambientali (meno spese per il materiale, meno alberi abbattuti). Purtroppo avere tanta cultura a portata di click non servirà a diminuire l’ignoranza e la propensione a “non leggere”. Ritengo che questa sia un’attitudine individuale, più che una cosa dettata esclusivamente dalla disponibilità della cultura e dal contesto in cui si vive.
Ritornando al tema principale della chiacchierata, sarà anche vero che se non pubblichi con un grande editore non esisti, ma è anche vero che molti autori famosi hanno il loro blog. Inoltre, a mio parere, molti “scrittori da blog” sono meglio di certi autori famosi, più attenti a giocare con le parole che al contenuto dei loro romanzi.

Concludendo
Mh, amici, avete messo molta carne sul fuoco. Posto che il mercato editoriale è quello che è, come Enrico Mattioli ha sottolineato con amara arguzia, bisogna comunque riconoscere che i bravi ‘‘scrittori da blog’’ non mancano. Ai lettori appassionati di narrativa si offrono quindi vaste e fino a ieri inedite possibilità di gustare prose godibili. Sta però a noi autori scrivere ‘‘per’’ i lettori, anziché contro i lettori. Sta a noi produrre e promuovere per mezzo dei blog testi che si lascino apprezzare.
Dunque, diamoci da fare.