venerdì 27 dicembre 2013

Il principio di responsabilità

Oggi chiederò al lettore un piccolo sforzo di fantasia.
Immaginiamo, per qualche attimo, di tornare indietro nel tempo.
Anno? 1945. Mese? Aprile. Giorno? Ventisei.
Ecco, sì, figuriamoci sia la mattina del 26 aprile 1945 e noi ci si svegli e ci si guardi intorno. La bufera è appena passata. Il giorno prima le truppe angloamericane hanno occupato anche l’alta Italia, scacciando i tedeschi al di là delle Alpi, e abbattuto la repubblica sociale.
Dovunque ci si giri i nostri occhi scorgono soltanto distruzioni e morti. Certo, badogliani e comunisti esultano per aver vinto la guerra civile contro la repubblica sociale e l’invasore nazista. Il loro sano orgoglio, sia chiaro, merita benevolenza. Ciò malgrado, il paese soffre la fame, piange per i lutti, patisce l’umiliazione di vedere il suolo nazionale calpestato dalle armate straniere.
Di chi la colpa?
Di uno solo. Del puzzone, come lo chiamano i romani. Ossia, Benito da Predappio, il famigerato smargiasso romagnolo. Sulle sue spalle – sue e di nessun altro – ricade l’intera responsabilità del disastro, giacché il 10 giugno 1940 è stato lui – lui e nessun altro – a ordinare al popolo italiano di correre alle armi.
Non c’è del resto da stupirsi se il colpevole, politicamente parlando, sia uno soltanto. E’ nell’essenza stessa del totalitarismo concentrare le decisioni definitive nelle mani del duce, o del führer, o del caudillo, o del grande timoniere, o del piccolo padre.
E’ pur vero che il dittatore ha goduto, forse addirittura per lunghi momenti, del sostegno morale di gran parte del popolo, ma in nessuna scelta il popolo gli è stato complice. Le masse avranno magari accolto da principio con entusiasmo le storiche e fatidiche decisioni del capoccia, perché i dittatori esercitano una perversa e potente malia sulla gente, ma di sicuro non hanno potuto esprimere alcuna libera opinione. Al popolo, nei sistemi totalitari, si offre sempre e di continuo l’opportunità di osannare il capo. Osannare e basta.

Torniamo ora ai nostri giorni e gettiamo un’occhiata qui e là. La situazione, rispetto all’aprile 1945, appare molto diversa. Vi è stata la ricostruzione e abbiamo persino avuto il boom economico, al punto che la nostra è diventata una società opulenta. Siamo inoltre amministrati da un regime democratico. Il potere di governo lo si conquista, per un periodo determinato, attraverso la competizione elettorale e noi cittadini abbiamo piena libertà d’espressione e il nostro voto è libero e segreto.
Eppure...
Già, eppure motivi d’insoddisfazione non mancano. L’apparato politico burocratico ha un costo esorbitante, in termini di pressione fiscale, e eroga servizi molto spesso scadenti. Un paragone tra il modo in cui vengono amministrati i popoli del nord Europa e come siamo mal amministrati noi ci fa arrossire. Siamo persino privi di un efficiente ordinamento giudiziario, tanto che non si riesce in alcuna maniera a sradicare le molteplici e prepotenti organizzazioni criminali.
Di chi la colpa?
«Di Tizio», dirà qualcuno di voi, facendo il nome di un politicante.
«Di Caio», qualcun altro strillerà, indicando un politicante di colore diverso.
«Di Sempronio», grideranno altri ancora, incolpando un terzo politicante.
Tutte risposte degne di considerazione e magari pregne di validi motivi. Riguardano però responsabilità individuali e non spiegano il pessimo funzionamento della macchina pubblica.
«E’ colpa della casta», parecchi allora sbotteranno.
Quest’ultima sembra già una risposta più equa. Difatti non risparmia nessuno. Vi è però un piccolo particolare che non possiamo tacere.
Chi elegge la casta?
Be’, che è ’sto silenzio?
Non mi avete capito? Volete che vi ripeta la domanda?
«Noi, la eleggiamo noi».
Ecco, bravi, la questione sta tutta qui. Ogni singolo membro della casta viene votato da noi. Da noi e da nessun altro. Si dà infatti il caso che la democrazia è basata sul principio di responsabilità. Cioè, chi rompe paga e i cocci sono i suoi.

In un sistema parlamentare come il nostro il governo è responsabile verso il parlamento, che vota per il governo la fiducia o la sfiducia, e il parlamento è responsabile nei confronti del corpo elettorale. Ogni qual volta la legislatura volge al termine, i cittadini con il proprio voto possono o premiare, confermandola, o punire, sostituendola con un altra, la maggioranza che li ha governati.
In altre parole, è il popolo che decide volta a volta chi deve comandare. La responsabilità della scelta ricade quindi sulle spalle di tutti. In democrazia, di conseguenza, non ha alcun senso affermare: «Piove, governo ladro». La notazione giusta sarebbe: «Piove, corpo elettorale ladro».
Se mandiamo pertanto al potere individui con la testa ingombra di idee bacate, i quali considerano lo stato un mero strumento di potere anziché una struttura di servizio, non ci rimane che ringraziare noi stessi.
Perché?
Perché i puzzoni, alla fin fine, siamo noi. Ergo, la colpa è tutta nostra.
E’ la democrazia, baby.



venerdì 20 dicembre 2013

Feste medievali e cuori d'oggidì

(In collaborazione con Gisella Gerosa)

1. Voce mia
Quando Gisella Gerosa, la scrittrice di Sesto San Giovanni, mi disse che la sua famiglia gestisce una piccola attività itinerante, consistente nella vendita di liquoristica storica nel corso di rievocazioni in costume, nella mia testolina spuntò una foresta di punti interrogativi mischiati a punti esclamativi.
Non potei pertanto trattenermi dal chiederle urgenti delucidazioni. Lo feci con quella delicatezza da istrice che mi rende odioso a tutti i vivi, nonché pure a parecchi morti.
«Cosa diamine è la ‘‘liquoristica storica’’?», sparai con dolcezza.
E con dolcezza ancor maggiore aggiunsi:
«Mi chiarisca per favore i concetti di ‘‘attività itinerante’’ e ‘‘rievocazione in costume’’ e, soprattutto, la misteriosa relazione che intercorre tra le due. Detto in tutta onestà, suppongo si tratti di ‘‘pagliacciate in costume’’, tipo la perdonanza che fanno a L’Aquila, la mia città. (La prego, mi risponda di sì e mi godo una bella risata. Le pagliacciate in costume mi fanno morire dal ridere. Rappresentano il più gustoso malcostume italico invalso nel tardo XX secolo)».
La superbia, diceva mio nonno, partì a cavallo e tornò a piedi. A me è andata peggio. Sono tornato a piedi e zoppicando. Leggete qui sotto la risposta di Gisella Gerosa e scoprirete perché il destriero mi ha disarcionato.

2. Voce di Gisella Gerosa
La “liquoristica storica” è il modo più breve che abbiamo trovato per definire alcune bevande artigianali tipiche dei tempi che furono, dall’idromele, la cui nascita segue di poco l’apparizione dell’uomo, per arrivare ai “rosoli della nonna”, che imperversavano nei salotti fino ai primi del novecento. In particolare, però, ci riferiamo al periodo del medioevo.
Attività itinerante” significa, più brutalmente, commercio di genere ambulante, iniziato circa otto anni fa. Vendiamo le nostre bevande (tutte di qualità molto alta), prevalentemente in occasione di eventi rievocativi d’impronta storica, in genere presso castelli o in contrade medievali.
Sì, credo che si tratti delle ‘‘pagliacciate’’ cui lei fa riferimento, che peraltro attirano un pubblico quanto mai interessante per la sua eterogeneità, trovandovi sia colti appassionati, sia fanatici, sia nostalgici dei bei tempi delle mordacchie e delle gogne, sia curiosi, sia intenditori di bevande di qualità (e costoro ovviamente sono i nostri clienti prediletti); non solo, ma anche gente che ama davvero, intendendosene o no, questo genere di rappresentazione di un tempo che non conoscerà mai. Personalmente considero le rievocazioni medievali uno spettacolo insolito, affascinante e non di rado emozionante (per i “dietro le quinte”, soprattutto): diciamo un teatro-documentario tra la storia popolare e l’arte di strada, che a tanta gente, e soprattutto ai ragazzi, apre uno squarcio su un mondo al quale non avranno altro modo di approcciarsi “dal vivo”. Farà anche ridere qualcuno, eppure è tutt’altro che comico se consideriamo la passione che muove chi ha scelto questa vita e la fatica fisica che comporta. Pensiamo che partecipano figuranti che passano notti in tenda e giorni in corazza, musici con arpe celtiche, liuti, salteri che vengono da molto lontano, artigiani degli antichi mestieri: spadai, che forgiano le loro spade al fuoco davanti a un pubblico incantato, coniatori di monete, tintori con i loro enormi pentoloni e i mantici, falconieri, che mostrano gli splendidi rapaci a bambini che non sanno come sia fatto un pollo vivo. Per noi significa montare ogni volta banchi e tende su modello di quelli medievali, allestire e disallestire, muovere merce pesante, restare in piedi dall’alba alla notte a volte inoltrata, con addosso i costumi (non carnevaleschi, ma cuciti a mano seguendo le figure degli affreschi del tempo), leggeri se fa freddo, e pesanti d’estate, essendo fatti di fibre naturali che non proteggono più di tanto. Tutto un modo di “pazzi”, il nostro, di gente in qualche modo alternativa che preferisce immergersi in un ritorno al passato per il poco che si può, tra torce e fascine, escrementi di cavallo e armature, e con l’anacronismo obbligatorio, per noi “mercatanti”, del registratore di cassa (le fiamme gialle in borghese si mescolano tra la folla).
Diciamo che in qualche modo tutto questo è avventura, o quel poco di avventura, e quel molto di rischio, che viviamo illudendoci di essere lontani dal mondo in cui la maggior parte della gente è costretta ogni giorno.
E devo aggiungere che chi lavora in questi contesti appare “felice”: è fuori dal gregge, è un diverso, non indossa il costume-divisa fatto di giacca e cravatta degli altri, il suo modo di essere è solo e soltanto suo. Adoro questo ambiente, questa gente, questo lavoro, anche se non so se, e quanto, potrà durare.



venerdì 13 dicembre 2013

La politica, sport criminale?

Nel corso del XX secolo la politica ha mostrato come non mai d’essere a volte la più pericolosa e criminale attività cui l’homo sapiens possa dedicarsi.
Fu un secolo non privo di luci e di progressi in campo scientifico, tecnico e artistico. L’aereo, la radio, il cinema sonoro, i romanzi e i racconti di Ernest Hemingway, la penicillina, la televisione, l’energia atomica, l’elaboratore elettronico e, soprattutto, i bikini e la minigonna rappresentano conquiste oggettive e incontestabili della civiltà.
In campo politico, però, si sono registrati dei regressi stupefacenti. Due superbe porcherie chiamate guerre mondiali e l’avvento dei totalitarismi gettano ombre e sfiducia sul consorzio umano. Siamo davvero degli esseri intelligenti o la follia omicida è una disfunzione congenita dalla quale non riusciremo mai a liberarci?
Sono un inguaribile ottimista e credo che il mondo si trovi ancora nella sua infanzia. Deve crescere e quando sarà cresciuto l’attività politica diverrà pura e semplice buona amministrazione e non più, come invece sognava e predicava Niccolò Machiavelli, una squallida tecnica per conquistare e mantenere il potere.

I totalitarismi europei furono il contraccolpo della prima guerra mondiale, non vi è alcun dubbio. Quello cinese fu invece il risultato di una guerra civile durata vent’anni. Russia, Italia e Germania pagarono lo scotto per essersi avventurate nella grande carneficina. La Cina, se non veniva aggredita dal Giappone, avrebbe forse potuto scamparsela.
Furono, i totalitarismi, figli delle male erbe dell’Ottocento: il nazionalismo, che partorì i regimi totalitari di destra, e il marxismo, dalle cui viscere uscirono i regimi totalitari di sinistra.
Il nazionalismo in sé non è pernicioso. Inteso come senso della comunità, spirito di libertà dalle dominazioni straniere, autodeterminazione dei popoli, non presta il fianco a critiche. E infatti nessuno considera l’amor di patria un sentimento disdicevole. Ma se imbevuto di militarismo si tramuta con atroce intensità in nazionalismo bellicista, e sono dolori.
Il germe totalitario è invece insito nel marxismo. Nei messali scritti da Carletto da Treviri la dittatura del proletariato era obbligatoriamente prevista per realizzare il paradiso in Terra.
Mah, de gustibus...

Il totalitarismo ha bisogno di un piedistallo sul quale ergersi. Per il fascismo fu la nazione, per il nazismo fu la razza, per il comunismo fu la classe. Senza piedistallo non potrebbero esserci né dittatura né dittatori. Ciò perché il piedistallo altro non è che uno strumento propagandistico per conquistare il consenso delle masse.
Una volta affermatosi, il regime totalitario inizia a praticare l’omicidio su scala industriale, sia all’interno dei confini nazionali, eliminando gli oppositori o provocando carestie, sia all’esterno, scatenando le guerre.
Le guerre, se perdute, portano le dittature alla tomba. Così perirono fascismo e nazismo, trascinando con sé, purtroppo, milioni d’innocenti. Il regime sovietico si sfasciò in seguito ai tentativi di riforma compiuti da Mikhail Gorbaciov. Un comunismo dal volto umano, a quanto pare, non può esistere.
Uno sviluppo del tutto diverso ha avuto il totalitarismo in Cina. Morto nel 1976 Mao Tse Tung, i suoi successori hanno buttato alle ortiche Carlo Marx e ripristinato le libertà economiche, proprietà privata dei mezzi di produzione inclusa. Hanno cioè liquidato il comunismo e smesso d’ammazzare a profusione la gente.
Le innovazioni furono opera di Teng Hsiao Ping, uomo dalla spiccata mentalità pragmatica. Amava infatti ripetere: «Non ha importanza se i gatti sono bianchi o neri. L’importante è che acchiappino i topi». I risultati gli danno ragione. Da anni l’economia cinese cresce a ritmi impressionanti e il partito unico (comunista?) ha mantenuto il potere.
Si prevede che lo manterrà a lungo. Cavallo che vince non si cambia. E certo per noi europei sarebbe paradossale scoprire che possano esistere dittature dal volto (quasi) umano.
Ah, magari lo fosse anche l’Unione Europea, quasi umana.


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venerdì 6 dicembre 2013

L'asimmetria della politica monetaria

La politica monetaria è asimmetrica. Questa banale nozioncina, nota a chiunque abbia una pur pallida conoscenza di storia e politica monetaria, spiega perché non pochi paesi dell’eurozona, con la squillante eccezione della repubblica federale tedesca, stanno distruggendo i propri sistemi economici accrescendo a dismisura il numero dei senza lavoro.
In che senso la politica monetaria è asimmetrica?
Chiarirlo è un gioco da ragazzi e riguarda gli effetti, opposti ma non di uguale intensità e misura, della politica monetaria espansiva e della politica monetaria restrittiva.
Una politica monetaria restrittiva determina un immediato effetto negativo sul livello dell’attività economica (produzione, investimenti, occupazione).
Viceversa una politica monetaria espansiva, nel caso vi sia disoccupazione dei fattori produttivi, può sì rappresentare un elemento di stimolo all’intensificarsi della produzione, ma non necessariamente e comunque non in maniera significativa. Nell’ipotesi teorica che vi sia pieno impiego dei fattori produttivi, una politica monetaria espansiva determinerà poi soltanto l’aumento dei prezzi, mentre in termini reali le variabili economiche rimarranno immutate.
Insomma, la si definisce asimmetrtica perché gli effetti negativi – quando si riduce la base monetaria e si aumenta il tasso di sconto – sono sicuri, mentre se si fa il contrario – si riduce cioè il tasso di sconto e si aumenta la base monetaria – gli effetti positivi sono incerti e di lieve entità.
Tralascio tutta una serie di sottigliezze utili solo agli intenditori (operazioni di mercato aperto, riserva obbligatoria, scoperto di tesoreria, mutuante d’ultima istanza, controllore del credito, tesoriere dello stato, eccetera) e ricordo che per base monetaria s’intende la moneta in circolazione emessa dalla banca centrale e per tasso di sconto s’intende il tasso d’interesse al quale la banca centrale presta i soldi a tutte le altre banche.
Risolte le questioni terminologiche, passiamo alla sostanza.
Fine della politica monetaria restrittiva è contrastare l’inflazione e sostenere il cambio, ossia i valori interno ed esterno della moneta. Il restringimento della base monetaria e/o l’aumento dei tassi d’interesse deprimono la domanda di beni di consumo durevoli, di beni intermedi e di beni strumentali e raffreddano l’aumento dei prezzi. Una tale politica, però, provoca un antipatico effetto collaterale. Una ridotta domanda di beni causa infatti un’offerta ridotta. Vale a dire una minor produzione e, dunque, un aumento della disoccupazione. Effetti collaterali che si producono con sicurezza matematica.
La politica monetaria espansiva ha invece l’obiettivo di rivitalizzare un sistema economico stagnante o in crisi. L’allargamento della base monetaria e la riduzione dei tassi d’interesse dovrebbero, in astratto, rendere meno costosi gli investimenti e più conveniente l’acquisto di beni durevoli, saldati di solito tramite finanziamenti a medio o lungo termine. Ma se le prospettive degli operatori economici rimangono incerte e la prudenza dei consumatori non si attenua, la maggior liquidità a disposizione del sistema non è affatto sufficiente, da sola, a invertire il ciclo economico.
Affinché la ripresa si verifichi è indispensabile che lo stato adotti politiche di bilancio anticicliche. In parole povere, ridurre le imposte e sviluppare un ampio programma d’investimenti pubblici.

Per divertirci un po’ passiamo ora dalla teoria all’attualità. Vi avviso, ci sarà molto da ridere.
Il primo novembre 2011 Mario Draghi è diventato presidente della Banca centrale europea e ha subito attuato, sia pure entri gli angusti limiti impostigli dal trattato di Maastricht, una politica monetaria espansiva.
Ha via via abbassato il tasso di sconto, fino a ridurlo recentemente a uno striminzito 0,05%. Ha finanziato le banche per oltre mille miliardi di euro con prestiti della durata di tre anni a un tasso dell’1%. Non potendo monetizzare i deficit di bilancio degli stati elargendo anticipazioni allo scoperto, né potendo monetizzarne i debiti comprando i loro titoli alle aste, ha però sostenuto i corsi delle obbligazioni emesse dagli stati con le finanze disastrate, tra i quali svetta la repubblichina italiana, attraverso acquisti sul mercato secondario.
Insomma, ha fatto quello che doveva fare.
Risultati?
Non del tutto insoddisfacenti per i mercati mobiliari, ma inutili per combattere la disoccupazione.
Gli indici dei mercati azionari sono risaliti, vero, e i rendimenti sui titoli emessi dagli stati con le finanze disastrate sono scesi. I disoccupati, però, si sono moltiplicati.
E allora? Cosa non va? E’ forse colpa dell’asimmetria della politica monetaria?
No, non è colpa della politica monetaria. La vera causa della produzione che cala e della disoccupazione che sale sta nelle politiche di bilancio. A una politica monetaria espansiva si associano infatti, nei paesi in crisi dell’eurozona, politiche di bilancio procicliche, anziché anticicliche. Si aumenta cioè la pressione fiscale, invece di abbattela, e si riducono le spese pubbliche. Assistiamo, in buona sostanza, all’apoteosi della follia.

Gli esiti scontati di queste politiche economiche da manicomio sono sotto gli occhi di tutti. Gli stati con le finanze disastrate, oltre a distruggere gli apparati produttivi nazionali, hanno appesantito le proprie condizioni finanziarie. I debiti pubblici di Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Francia sono schizzati a quote astronomiche. La medicina non cura il malato, aggrava la malattia.
Era tutto quanto prevedibile. Un peggioramento del settore privato si riverbera sul settore pubblico. Uno stato che desidera tagliare l’indebitamento, se mette in ginocchio i produttori di reddito, presto o tardi finirà in bancarotta. Ottiene quindi lo scopo opposto a quello voluto.
Come se ne esce? Ribellandosi ai padroni dell’euro, ossia ai tedeschi. Sono stati infatti loro a imporre ai paesi con le finanze statali disastrate l’attuazione di politiche economiche procicliche. E non si creda che l’abbiano fatto per puro sadismo. Lo hanno fatto con competenza tecnica e lungimiranza. Danneggiare i sistemi economici dei paesi con le finanze statali disastrate significa attrarre capitali dalla periferia a Berlino e/o sfavorire pericolosi concorrenti sui mercati internazionali.
La loro azione ha avuto pieno successo. Nel 2008 in Germania il tasso di disoccupazione sfiorava il dieci per cento, oggi arriva a malapena al cinque. La loro produzione, le loro esportazioni, nonché gli attivi della bilancia commerciale hanno registrato, anno dopo anno, andamenti da leccarsi i baffi. Le loro banche prestano soldi alla clientela a tassi di gran lunga meno onerosi di quelli applicati dalle banche dei paesi in crisi. Non solo, ma la repubblica federale tedesca colloca le proprie obbligazioni a tassi d’interesse inferiori al tasso d’inflazione.
Credete che tutto ciò sia avvenuto per caso?
No, è avvenuto perché gli ordini li dà Berlino e finché sarà Berlino a darli nulla cambierà mai.