venerdì 31 gennaio 2014

Il sindaco dalle dimissioni revocabili

Il sindaco della mia città non è uno qualunque. Innanzitutto si chiama Massimo, miglior nome possibile per un primo cittadino, e in secondo luogo è medico ospedaliero. Chi lo conosce solo attraverso giornali e televisioni, anziché di persona, sarà di sicuro restio a credere che possieda una qualifica professionale. Il nostro eroe dà infatti l’impressione d’essere il classico politicante senz’arte né parte, dedito ventiquattr’ore al giorno alla propaganda di partito. Eppure è un dottore fortemente legato all’ambito sanitario dal quale proviene, al punto che ha sposato un’infermiera.
Mai del resto dimenticherò un episodio verificatosi alcuni decenni or sono, quando lui, prossimo alla laurea, ricevette a tal proposito i generosi complimenti di mio padre. Non ringraziò. Precisò invece con tragico pessimismo:
«Eh, con la laurea posso giusto andare a fare il sottoccupato in Sardegna».
Merito e fortuna smentirono le sue fosche previsioni. Rimase in Abruzzo, assunto – lui, fervente comunista – all’ospedale civile della nostra città, reparto di medicina interna, il cui primario era fratello di un ministro democristiano.
Nella primavera del 1990 mio padre, prima di morire, su volere del primario, nostro vicino di casa, fu ricoverato per un certo periodo in quello stesso reparto. La sera del ricovero Massimo s’intrattenne a chiacchierare con me. All’epoca insegnavo e lui mostrò una sorprendente ammirazione per il mio campo di studi, quasi lo considerasse più importante della medicina.
Non concordavo con il suo punto di vista. La mia attività risultava senza dubbio intellettualmente appagante – stavo per dire sfiziosa – ma consisteva semplicemente nel prendere i modelli economici e smontarli pezzo a pezzo per vedere come sono fatti dentro, allo scopo di verificare se siano di tipo esplicativo o metaempirico, se risultino cioè viziati o meno da giudizi di valore, e riferire il frutto delle mie ricerche agli allievi che seguivano il mio corso all’università. Una divertente ginnastica mentale nemmeno paragonabile alla concreta utilità offerta a tutti gli esseri umani dalla medicina.
Ma lui, alle mie obiezioni, scuoteva il capo e sospirava, finché confessò:
«Io avrei voluto fare il politico».

Non immaginavo che avesse già intrapreso la strada per realizzare i suoi sogni. Lo scoprii di lì a qualche giorno, quando si votò per il rinnovo del consiglio comunale (l’elezione diretta del sindaco non era stata ancora introdotta). Il suo nome compariva sotto la lista della falce e del martello.
A mia precisa domanda confermò con visibile fierezza. Anzi, non mancò di aggiungere che mio padre avrebbe votato in ospedale, dove sarebbe stato disponibile un seggio volante a uso e consumo dei ricoverati. Magari sperava che il paziente, stante la conoscenza di lunga data, non gli avrebbe negato il voto. Ma mio padre, per la prima volta in vita sua, non volle votare. Stava morendo. A dicembre di quell’anno si sarebbe spento.
In tutta sincerità ignoro se Massimo quella prima volta riuscì a spiccare il volo nell’empireo politico e diventare consigliere comunale. Penso di sì. Qualche anno più tardi fu comunque nominato vicesindaco in una giunta di sinistra. Giunta che deluse gli elettori e a fine mandato fu punita e scalzata dall’opposta concorrenza. Ma per la sua persona si trattò di un insuccesso tattico. Nel 2001 gli si spalancarono addirittura le porte del parlamento, dove si accomodò maestosamente con i galloni di deputato.
Lasciò Montecitorio nel 2007, quando venne trionfalmente eletto, al primo turno, sindaco della nostra città.

Il suo stile di amministratore locale richiama senz’altro alla mente quello altrettanto sanguigno del compagno Bottazzi, in arte Peppone.
A ben rifletterci, non poteva essere diverso, dato che Massimo discende da una famiglia inserita, per unanime ammissione, in quella categoria denominata dai sociologi di strada ‘‘brava gente’’.
La dimora avita è, non certo per pura coincidenza, un quartino delle case popolari del fascio, erette in pieno ventennio in fondo al Vicolaccio. Nel medesimo edificio littorio, a pian terreno, è situata la bottega artigiana dello zio, fabbricante di lapidi cimiteriali.
Il padre fu dipendente dell’Inps. Essendo delegato sindacale, in ufficio non lo si trovava mai. Ad ogni modo, era un gran lavoratore. Lavorava infatti a tempo pieno nello studio del ragionier Gentile, un consulente operante nel ramo paghe e contributi.
Il fratello Valerio, morto giovane, fu persino mio compagno di liceo. Non dal primo anno. Lo divenne per combinazione negli anni successivi. Ce lo ritrovammo in classe da ripetente. Si diceva fosse tossico.

Le prime dimissioni Massimo le diede nel marzo 2011, indispettito dalla maretta che agitava la sua maggioranza. Le dimissioni sono una cosa seria e, quando si danno, bisogna poi ritirarle. Insomma, finì a tarallucci e vino. Pertanto, ritrovata la quiete interiore ed esteriore, le ritirò.
Nel 2012 venne rieletto, stavolta però al ballottaggio, a riprova di un più moderato apprezzamento dei suoi concittadini. I primi di gennaio 2014 sventura ha inoltre voluto che un’indagine penale coinvolgesse per sospette tangenti otto persone, incluso il suo vicesindaco. Dimessosi il quale, Massimo lo ha seguito a ruota.
Ma la fida quiete interiore ed esteriore dopo pochi giorni è tornata prepotente alla ribalta. Ha così convocato una conferenza stampa nell’aula consiliare, annunciando la revoca delle proprie dimissioni e la nomina a vicesindaco di un anziano magistrato in pensione.
Il pensionato, ex procuratore in una città rivierasca, nella quale quand’era ancora in servizio aveva inquisito il sindaco, facendo cadere la giunta di sinistra, sostituta dall’opposta concorrenza, e inquisito inoltre il presidente della regione, causando anche in tal caso la fine della giunta di sinistra, pure questa rimpiazzata dall’opposta concorrenza, onde fugare ogni perplessità ha dichiarato la sua preferenza ideologica al centrosinistra.
Tutto ciò chiarito, Massimo ha chiuso la conferenza con parole lapidarie:
«Noi (pluralis maiestatis?) siamo onesti ma siamo anche tosti».
Alleluia!



venerdì 24 gennaio 2014

La gatta e l'uccellino

Quando al mattino mi sveglio, salto fuori dal letto e per prima cosa alzo la tapparella della mia camera. La finestra della camera dà sul giardino. O, per meglio dire, giardinetto. E’ infatti piuttosto piccolo.
Svariate mattine or sono, compiuta l’immancabile operazione, vidi sotto l’alberello dei limoni la mia gatta con un passerotto in bocca.
L’uccellino, agonizzante, agitava le ali.
Niente di straordinario, direte voi, i gatti sono cacciatori. Giusto, condivido in pieno, oltre tutto allora la mia gatta allattava i micetti. Ciò malgrado, in quegli attimi, assistendo al crudo spettacolo, un pensiero lancinante mi sferzò come una frustata.
Concedetemi un pizzico di tempo e mi spiego.

La mia gatta si chiama Macchietta. Non è proprio bella, però le sono affezionato. Ha una tinta maculata nera e marrone, tipo tuta mimetica. Se mi viene voglia di passeggiare lungo i vialetti del quartiere dove abito, abbarbicato sulle dune in riva al mare, mai perde l’occasione e mi accompagna.
Non è una gran camminatrice e arranca a fatica dietro di me. Ha gambe sottili e il corpo pesante. Non che sia obesa, per carità. Pienotta, diciamo. Durante il nostro girovagare di tanto in tanto mi fermo perciò ad aspettarla. Lei siede accanto a me e riprende fiato. Insomma, mi è tanto cara.
Pure gli uccelli, d’altronde, mi piacciono molto. Tutti. I falchi, i gabbiani, i piccioni e i passeri. Soffrii dunque parecchio, quella mattina, a vederne uno in bocca a Macchietta.

La natura è brutale.
E’ intrinsecamente priva di eticità.
Nulla di male, in fin dei conti, stava facendo in quel momento la mia gatta. Si procacciava il cibo per sé e i suoi gattini. Così come nulla di male facciamo noi quando mangiamo una fettina di prosciutto, o una bistecca di vitello. E’ la natura.
E la natura, capii in quegli attimi, è spaventosa. Assistevo a una scena violenta, certo, ma a ben riflettere era come se mi stessi osservando allo specchio, perché anch’io mangio la carne di altri esseri viventi. Animali che qualcun altro alleva e uccide per me.
Di carne ne mangio poca, è vero, ma la mangio.
E il buffo è che né io né nessun altro possiamo sentirci in colpa ogni qual volta entriamo in una macelleria, o in pescheria. L’universo è così, ci piaccia o meno.
Brutale.



venerdì 17 gennaio 2014

L'euro distruggerà l'Europa?

Il timore che le tristi vicende dell’euro travolgeranno l’Unione europea allarma ormai le menti di molti. E’ però una paura eccessiva. Sin dagli esordi, 25 marzo 1957, giorno della firma a Roma dei trattati dai quali nacque la Comunità economica europea, l’Unione è stata ed è sostanzialmente rimasta una lega doganale – uno zollverein, come dicono i tedeschi – sia pure animata dall’aspirazione di puntare a un’unità politica alla quale tuttavia non si è finora giunti.
Esiste dal 1979 un parlamento europeo eletto dai cittadini, verissimo, che non è comunque un organo legislativo, poiché esercita soltanto esigue funzioni di controllo. Il varo di norme spetta infatti alla commissione, cioè all’esecutivo. La commissione non è responsabile nei riguardi del parlamento, ma risponde al consiglio europeo, ossia al consesso dei capi di governo dei paesi membri.
L’Unione europea è dunque un’area di libero scambio, né più né meno, governata secondo la logica e la prassi di un’alleanza. Ecco perché è difficile immaginare che possa disintegrarsi. Nessuno dei paesi aderenti vorrà mai rinunciare ai vantaggi offerti dalla libera circolazione di merci, capitali e persone.
Attriti e difficoltà sorgono, com’è tipico per tutte le alleanze, quando le decisioni vengono imposte dal membro più potente a danno dei più deboli. A causa di ciò l’eurozona, composta dai soli paesi che hanno adottato l’euro, può invece dirsi davvero in bilico.
La cronaca di questi anni è nota. Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia e Italia, in seguito a crisi provocate da un eccesso di debito – privato o pubblico, a seconda dei casi – sono incappati nell’incresciosa situazione di dover obbedire agli ordini emanati dai padroni dell’euro, ovverosia i tedeschi, spalleggiati almeno in parte da chi gli euro li stampa, cioè la Banca centrale europea.
Berlino ha imposto ai malcapitati di adottare politiche economiche procicliche, anziché anticicliche, obbligandoli a ridurre la spesa pubblica e ad accrescere la pressione fiscale.
Effetti attesi di tali amabili consigli, tutti puntualmente verificatisi nei paesi sottoposti alle cure, erano ridurre la produzione, aumentare la disoccupazione, nonché aggravare le condizioni della finanza pubblica. I tedeschi hanno insomma voluto danneggiare gli apparati produttivi dei loro concorrenti e attirare capitali nei propri forzieri.
Hanno avuto, bisogna ammetterlo, un successo strabiliante. Non a caso la loro economia corre oggi a tutta birra, tanto che sono riusciti ad abbassare la disoccupazione al 5%, quasi, mentre nel 2006 sfiorava il 12% della forza lavoro. Le loro vittime languono viceversa nella povertà crescente.
Le finanze pubbliche degli stati in crisi hanno per il momento evitato il collasso perché la Banca centrale europea ha sostenuto con operazioni di mercato aperto i corsi delle loro obbligazioni. La Bce ha inoltre prestato circa mille miliardi alle banche a un tasso dell’uno per cento affinché sottoscrivessero le nuove emissioni di titoli pubblici.
I tedeschi non hanno gradito e, com’era ovvio, hanno inventato una nuova diavoleria, chiamata patto di bilancio europeo (per i poliglotti, fiscal compact). Il patto prevede, per i venticinque stati che l’hanno accettato (Regno Unito e repubblica ceca si sono rifiutati), l’obbligo di perseguire il pareggio di bilancio e l’obbligo di ridurre in venti anni, a un ritmo del 5% l’anno, il debito pubblico entro il limite del 60% in rapporto al prodotto interno lordo.
Nessuno dei paesi in crisi dell’eurozona realizzerà un’impresa tanto titanica. Chiunque continuerà ad aumentare le imposte e a tagliare le spese provocherà una caduta del prodotto interno lordo, un aumento della disoccupazione e un peggioramento delle condizioni della finanza pubblica, gonfiando finché possibile il debito. Verrà quindi il giorno che all’uno o all’altro di questi disgraziati paesi mancheranno le risorse finanziare per pagare pensioni e stipendi. A quel punto, non avranno scelta. Diranno addio all’euro.



giovedì 9 gennaio 2014

Anatomia del politicante

Da tempo ormai immemorabile i politicanti sono vittime di un assurdo pregiudizio. Risulta infatti radicata nell’opinione pubblica la bizzarra credenza secondo cui scopo e dovere del politicante sia tutelare l’interesse generale.
Bisogna obiettivamente riconoscere che i primi a propagare tra gli elettori un’idea tanto infondata e inumana sono i politicanti stessi. Ognuno di loro, sia durante le campagne elettorali che dopo, si mostra succube del pernicioso vizio di ripetere fino alla nausea che ha a cuore più di ogni altra cosa l’interesse generale. Ciò succede perché la propaganda menzognera è l’anima della politica, così come la pubblicità è l’anima del commercio.
Concetti quali ‘‘interesse generale’’, ‘‘bene comune’’, ‘‘volontà generale’’, ‘‘benessere collettivo’’ sono pure astrazioni, vuote formule prive in realtà di ogni plausibile e concreto contenuto. In società caratterizzate da una molteplicità di ambiti professionali, redditi e patrimoni diseguali, differenze culturali e disparità d’ogni altro genere, gli interessi non sono mai generali ma sempre e comunque particolari. Nelle democrazie rappresentative il corpo elettorale conferisce volta a volta, a ogni elezione, il potere di legiferare e di governare a questo o a quel partito, oppure a questa o a quella coalizione, esprimendo in tal modo non una inesistente volontà generale, bensì soltanto la volontà della maggioranza dei votanti, ciascuno dei quali spera evidentemente che la fazione e i candidati da lui preferiti salvaguardino, se eletti, i suoi interessi.
Né si può inoltre nascondere in nessuna maniera un altro fondamentale aspetto. I politicanti, benché molti di loro pensino il contrario, non sono unti del Signore. Sono individui in carne e ossa che si buttano in politica per ricavare soddisfazioni squisitamente personali, sia morali che materiali. Prestigio, smania di comandare, soldi, fama, desiderio di realizzare le proprie visioni costituiscono la complessa miscela di stimoli che li sprona. Non per questo dobbiamo considerali in blocco degli ingordi egoisti. Nel loro novero qualche altruista non manca. Più o meno tutti, infine, capiscono che se vogliono essere rieletti non possono ignorare l’esistenza degli elettori. Gli elettori, com’è noto, esistono eccome e, incredibile ma vero, hanno pure una testa. Ecco perché ogni politicante si vede suo malgrado costretto a coltivare il proprio orticello, dando almeno l’impressione, magari solo a chiacchiere, di prodigarsi per il suo collegio elettorale.

Nello svolgere le proprie funzioni legislative e di governo i politicanti sono esposti a una miriade di pressioni. Potentati economici e finanziari, lobby, alti burocratici pubblici, organismi corporativi d’ogni risma chiedono di continuo favori e, nove volte su dieci, li ottengono. Non per niente la politica viene definita dagli intenditori come l’arte del compromesso e il primo compromesso cui un politicante deve assoggettarsi è quello con la propria coscienza. Un pizzico di realismo gl’impone di non scontentare mai nessuno, perciò il politicante si piega ma non si spezza.
Dispensare vantaggi ai forti e a gruppi d’interesse ben organizzati, nonché a compari, parenti e amanti, crea una discrepanza tra gli intenti dichiarati e l’effettiva opera svolta. Insomma, il politicante finisce con il predicare bene e razzolare male. Finché gli elettori non se ne accorgono, o non danno alle losche faccende troppo peso, passi. Ma contare in eterno sulla cecità e sordità del popolo bue si rivela presto o tardi una scommessa perdente.
Oltre tutto, con la morte delle ideologie, ossia con la fine di quelle tragiche illusioni che hanno insanguinato il XX secolo, l’elettore sì è smaliziato e al garrire delle bandiere reagisce ormai con un’alzata di spalle. La richiesta che i cittadini rivolgono oggi alla politica è buona amministrazione, nient’altro che buona amministrazione. Il che vuol dire erogazione di pubblici servizi e protezione sociale a costi accettabili. Di creare la società nuova, l’uomo nuovo o il reich millenario è passata la voglia a tutti.
C’è da chiedersi se i politicanti saranno in grado di affrontare con un minimo di buonsenso elettori sempre meno disposti a farsi prendere in giro. Una risposta affermativa è tutt’altro che scontata. I politicanti hanno sia il potere di manovrare a piacimento i rubinetti della spesa pubblica sia quello d’imporre tributi. Hanno cioè il coltello dalla parte del manico. Non è pertanto per nulla sicuro che smettano di dilapidare risorse in sprechi immondi, incluse munifiche regalie a se stessi e ai propri accoliti, e di scuoiare la cittadinanza con un’eccessiva pressione fiscale.
Qualcuno suggerisce, per impedir loro di combinare troppi guai, di porre un vincolo costituzionale all’ammontare d’imposte esigibili. Meno soldi mettiamo in mano ai politicanti e meno ne sprecheranno, questa la logica insita nel suggerimento. Vi è però da tenere in considerazioni un dettaglio non del tutto secondario. Le leggi costituzionali le scrivono e le approvano i politicanti. Ne approveranno mai una contro i propri interessi?
Difficile crederlo. Molto difficile.
Però, se insistiamo, chissà.



venerdì 3 gennaio 2014

Tanta politica, poca democrazia

La storia politica della repubblica italiana è finora stata tanto paradossale quanto esilarante. Malgrado l’esuberante presenza di una variopinta molteplicità di partiti, faziosi fino all’inverosimile, per quasi mezzo secolo abbiamo in pratica avuto al governo un monocolore volta a volta allargato a mutevoli alleati mignon.
Democrazia bloccata, la si chiamava.
Dal 1948 al 1994 la democrazia cristiana ha infatti goduto del più raro dei privilegi cui un partito di governo possa aspirare. Al parlamento non si è mai dovuta confrontare con vere e proprie opposizioni, ma soltanto con chiassosi simulacri. Ciò perché le opposizioni di destra e di sinistra venivano considerate, da gran parte degli elettori, forze antisistema, anziché minoranze affidabili alle quali conferire, in alternativa al pachiderma democristiano, la potestà di governare la nazione.
I missini, a destra, apparivano agli occhi dei più come puri e semplici nostalgici del passato regime fascista. Del resto, persino il nome della loro formazione, movimento sociale italiano, richiamava alla memoria la repubblica sociale italiana. E il fascismo aveva condotto il paese a una sconfitta così devastante e sanguinosa da non poter essere dimenticata. Nostalgici o meno, meglio tenerli alla larga dal governo, pensavano quasi tutti.
A sinistra i comunisti, che pur disponevano di un consistente patrimonio elettorale, non riuscivano a scavalcare la barriera rappresentata dal cosiddetto ‘‘fattore K’’. Essendo stato il paese militarmente occupato dagli americani, divenuti in seguito nostri alleati quando ci avevano accettato nella Nato, e mostrandosi i comunisti fidi seguaci di Mosca, capofila del patto di Varsavia, blocco contrapposto alla Nato, sarebbe stato ben strano se il popolo italiano avesse mandato al governo gli amici dei suoi nemici. Senza contare inoltre il fatto che l’arrivo di Baffone, seppur da molti agognato, alla maggioranza degli italiani piaceva quanto un incubo notturno.
Nelle normali democrazie gli elettori hanno la facoltà di scegliere chi deve governarli e, se delusi, alla scadenza del mandato punire chi non li ha soddisfatti, votando per altri. Per lunghi decenni in Italia tutto ciò non è avvenuto, provocando una grave degenerazione dell’apparato politico burocratico. Se la fazione politica che regge le redini del governo è sempre la stessa, lo spirito di servizio che dovrebbe animare gli eletti si affievolisce, sostituito dall’amore sconsiderato per le poltrone e i connessi vantaggi pecuniari, mentre lo stato si trasforma, nelle menti di chi lo domina, in un mero strumento di potere. L’inefficienza e lo spreco di risorse pubbliche diventano pertanto inevitabili.
Con la caduta del muro di Berlino e lo spirare della madrepatria sovietica, eventi che hanno costretto i comunisti a cambiare nome e a gettare alle ortiche l’ideologia marxista, nonché grazie alla successiva distruzione per via giudiziaria di democrazia cristiana e soci, si è aperta una nuova stagione politica durante la quale abbiamo finalmente conosciuto l’alternarsi al governo di schieramenti avversari.
I risultati di venti anni di alternanza tra coalizioni nate sulle ceneri dei vecchi partiti sono però stati tutt’altro che positivi. L’inefficienza dell’apparato politico burocratico è rimasta intatta mentre i suoi costi, in termini di pressione fiscale, sono saliti. La concorrenza tra le due ditte, che in astratto avrebbe dovuto rendere più efficace l’azione dei poteri pubblici, non ha prodotto invece alcun miglioramento. Il lupo, se mi è consentito indicare con una metafora zoologica il ceto politico nel suo complesso, ha sì perso il pelo ma non il vizio. Consistendo il vizio nel tenere il deretano saldamente appiccicato alle comode e remuneratissime poltrone. Dal novembre 2011 a oggi abbiamo inoltre assistito a un esito davvero beffardo. Cani e gatti, sempre per rimanere in ambito zoologico, si sono alleati per sostenere il governo. Alla faccia dell’alternanza!
Va comunque riconosciuto con la massima obiettività che i cani e i gatti, insieme, l’hanno combinata grossa sul serio. Hanno infatti attuato politiche economiche in virtù delle quali sono riusciti a ridurre il reddito nazionale, accrescere il numero dei disoccupati e peggiorare le condizioni della finanza pubblica, tanto che l’ammontare del debito statale è schizzato a livelli mai visti. Hanno così sfoggiato, negarlo non si può, una genialità economica da manicomio criminale.
Ad azioni di governo di tale indubbia immoralità, i cui effetti gravano soprattutto sui gruppi sociali più deboli, gli elettori hanno reagito in maniera impeccabile, lanciando agli smidollati al potere due messaggi chiari e forti. Da un lato l’astensione dal voto, a testimonianza del malessere e del disgusto, si è ampliata in misura notevole, raggiungendo alle ultime elezioni politiche un picco del venticinque per cento, e dall’altro un movimento di protesta ha mietuto un significativo e inatteso successo, ricevendo un quarto dei consensi.
E’ lecito aspettarsi, da questo inedito atteggiamento del corpo elettorale, sviluppi positivi?
Difficile dirlo.
L’ideale sarebbe la scomparsa, dalla scena politica, di cani e gatti. I ronzini sfiatati si mandano al mattatoio. Perché mai cani che mordono i più poveri e gatti che graffiano per pura malvagità dovrebbero godere di un trattamento privilegiato? Inoltre, sperare che cani e gatti tanto feroci e pericolosi rinsaviscono equivale a puntare un po’ troppo sulla buona sorte. Sarebbe come vincere una lotteria.
Né sembra possibile risolvere i problemi con il semplice astensionismo o con slogan di protesta. La protesta, lì per lì, può anche darti una bella fetta di voti, ma se non si elabora un preciso programma di governo da aggiungere alle parole d’ordine si perde gran parte della credibilità.
In conclusione, la situazione è tragica ma poco seria. Come al solito.