venerdì 5 aprile 2013

I paradossi del principio proletario


Il celebre smargiasso romagnolo, alias Benito Mussolini, riferendosi agli anni del suo avvento al potere parlava di ‘‘rivoluzione proletaria e fascista’’. E non a caso i militi della repubblica sociale, durante i mesi dell’agonia del fascio, cantavano: ‘‘Contro l’oro sarà il sangue a far la storia’’.
Pur provando ribrezzo per il linguaggio da spacconi, bisogna tuttavia riconoscere che il principio proletario fu uno dei cinque fondamentali della dottrina fascista. Gli altri quattro furono il principio totalitario, il principio bellicista (o nazionalismo bellicista), il principio della superiorità etica dello stato e il principio corporativo. A questi ne andrebbe aggiunto un sesto che non fu però di pretta marca fascista, bensì importato dalla Germania, il principio razziale.
Il fascismo, benché a noi piaccia ricordarlo come un regime da operetta, tutto passi romani, saluti romani, inni imperiali e pennacchi in testa, fu qualcosa di terribilmente serio. Al principio proletario dette pertanto concreta attuazione. Nessuno dimenticherà, voglio sperare, la politica demografica, finalizzata a dare alla patria più carne da cannone possibile.
Sarebbe comunque da meschini negare che la politica economica e sociale del fascismo fu di prim’ordine. Non starò a dilungarmi in noiosi dettagli, mi basta infatti citare alcune sigle: Agip (Azienda generale italiana petroli), Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro), Inps (Istituto nazionale della previdenza sociale), tutte creazioni del ventennio.
Né dobbiamo scordarci che il solco lasciato dalle dottrine fasciste nella cultura italiana è stato profondo e permane tutt’ora. Non potrebbe essere diversamente, dal momento che tre di quei cinque principi fondamentali sono stati assorbiti dalla costituzione repubblicana entrata in vigore il primo gennaio 1948.
La nostra carta costituzionale, essendo per fortuna democratica, ha sì rigettato con sdegnoso disprezzo il principio totalitario e il principio bellicista, non però il principio proletario, né quello corporativo (Cnel, natura semipubblica dei sindacati, organizzazione corporativa della magistratura) e neppure il principio della superiorità etica dello stato, sancito dal secondo comma dell’articolo quattro.
Il principio proletario lo troviamo, sia pure nella forma del cosiddetto ‘‘principio lavorista’’, al primo comma dell’articolo uno, che recita: ‘‘L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro’’. Il che significa che non è fondata né sulla terra (i beni naturali), né sul capitale.
Terra, lavoro e capitale, come c’insegna la teoria economica, sono i tre fattori di produzione necessari a produrre ogni bene o servizio. Nessun bene può essere prodotto senza l’impiego combinato dei tre fattori. Che dunque uno stato, nella sua legge fondamentale, si dichiari fondato su uno solo dei tre fattori appare quanto meno bizzarro.
E’ chiaro che la norma costituzionale in questione determina un discrimine classista a favore dei lavoratori (coloro cioè che erogano i servizi del lavoro, i proletari, come li si chiamava un dì) e non dei rentier (i percettori di rendite) e dei capitalisti (i percettori di profitti). Paradossalmente, però, non vi è nessun’altra norma nella costituzione che stabilisca che i lavoratori debbano essere comproprietari di tutti i beni strumentali o che la proprietà di ogni bene strumentale appartenga allo stato in nome e per conto dei lavoratori. In altre parole, il primo comma dell’articolo uno enuncia una pura e semplice petizione di principio, vigorosamente contraddetta dalle norme successive.
L’articolo quarantuno, infatti, dispone che ‘‘l’iniziativa economica privata è libera’’, ossia la costituzione non vieta il profitto. Mentre l’articolo quarantadue, al primo comma, addirittura sancisce: ‘‘La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati’’.
Tradotto in soldoni, rendite e profitti privati sono consentiti. Ovverosia, il discrimine classista a favore del proletario è, di fatto, un puro e impossibile enunciato di principio. Uno slogan. In pratica, lettera morta, né più né meno.
Non solo, ma è pure del tutto superfluo, perché il primo comma dell’articolo quattro fissa un preciso e razionale obbligo giuridico a carico dello stato al fine di tutelare i lavoratori: ‘‘La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto’’.
I paradossi del principio proletario qui illustrati – vetusta eredità del passato regime – andrebbero perciò eliminati riscrivendo il primo comma dell’articolo uno sulla base del principio di libertà e del principio di cittadinanza. Per esempio così:
‘‘Le repubblica italiana è liberamente fondata dai cittadini a tutela della propria libertà e del proprio benessere materiale e spirituale’’.



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