venerdì 2 agosto 2013

Le rumene, istruzioni per l'uso

1.
Nel febbraio di due anni fa una falda del tetto della mia casa di San Leonardo se ne venne giù. L’increscioso episodio accadde di notte e i violenti e ripetuti rumori, di conseguenza, mi spezzarono il sonno. Sembrerà magari strano, ma se escludiamo l’indesiderato risveglio non me la presi più di tanto. L’evento, benché non voluto, era comunque atteso.
Abito infatti al villaggio ‘‘Il Gabbiano’’, nove villette allineate lungo la spiaggia con al centro un ex albergo trasformato nel corso del tempo in complesso di mini appartamenti, il tutto edificato alla fine degli anni Sessanta. L’architetto che lo progettò finì in galera per abusi edilizi. Da un uomo dotato di un così ricco curriculum professionale ci si può benissimo aspettare la realizzazione di opere appiccicate con lo sputo. Conclusione, i tetti di tutte e nove le villette sono via via crollati. Il tetto della mia, vai poi a sapere perché, è caduto per ultimo.
Al mattino telefonai al muratore che una decina d’anni prima mi aveva rintonacato i muri perimetrali. Il suo numero, però, risultava non più esistente. A trarmi d’impaccio ci pensò Gregorio, il custode giardiniere del villaggio, un rumeno dagli occhi porcini, i viscidi modi servili e la pancia da cirrotico.
«Non si preoccupi», mi disse, «conosco io un’impresa. La chiamo subito».
L’impresario, tale Ernesto Occhionero, si presentò da me in mattinata. Constatò quali fossero i lavori necessari e nel pomeriggio venne a portarmi il preventivo. Gli affidai l’incarico e non me ne pentii, perché lo svolse con sorprendente rapidità.
Tutti i suoi operai erano rumeni. Uno di loro, un certo Nico, mi domandò di punto in bianco se mi piacevano le donne. Ho l’abitudine di trattare le persone con cortese formalismo. Atteggiamento che molti interpretano, a torto, come espansivo. Nico, probabilmente, era incappato nell’equivoco e nulla feci, del resto, per correggere il suo sbaglio.
«Mi piacciono sì. Moltissimo».
«Bene, ci penso io».
‘‘Muratore di giorno e pappone di notte?’’, mi chiesi.
Quella stessa sera i miei sospetti ebbero conferma. Sentii suonare alla porta e aprii. Era lui con una ragazza sorridente.
Grassottela, sui venticinque, carnagione chiara, occhi e capelli scuri.
Appetitosa?
Appetitosa.
Tramite un appropriato gesto della mano li invitai a prendere il largo.
Trascorsero un paio di giorni e un altro dipendente rumeno di Occhionero, di nome Mirko, mi domandò a sua volta se mi piacevano le donne.
‘‘Ah-ah’’, pensai, ‘‘ma allora ce l’avete proprio nel sangue. Papponi dal primo all’ultimo’’.
«Sì, mi piacciono, però preferisco scegliermele da me».
Capì che non era il caso d’insistere.
Qualche giorno più tardi, quando il tetto era ormai stato riparato, mentre una mattina alzavo la saracinesca del garage mi si avvicinò Gregorio, il giardiniere rumeno.
«Signor Gabriele, le serve una donna?».
I muratori suoi connazionali dovevano averlo evidentemente informato che mi piacciono le donne.
«No», gli risposi.
Da quel giorno smise per me d’essere Gregorio e divenne il Pappone.

2.
A maggio dell’anno passato decisi di rimbiancare pareti e soffitti. Comprai carta vetrata, tempera e pennellessa e chiesi al Pappone se mi aiutava a spostare i mobili.
«Faccio venire la ragazza. E’ una brava ragazza. Ha già lavorato per Giosuè».
‘‘Lenocinio, il tuo, davvero incallito’’, fu la mia inevitabile riflessione.
«Va bene, la faccia venire domani pomeriggio, alle tre».
Questa ragazza l’avevo notata per la prima volta a marzo nella Panda color verde pisellino di un noto sfaccendato, tale Giosuè Zanchiello, mentre giravano per il villaggio in quella che potrebbe definirsi una gita turistica. Immaginai fossero parenti o conoscenti. Nei giorni successivi dovetti ricredermi, poiché la notai spazzare i viali insieme al Pappone. Dunque, era nel frattempo diventata la convivente di quest’ultimo.
A essere obiettivi, tanto ragazza non pareva, dato che dimostra una quarantina d’anni. Lavorò per me due mezzi pomeriggi a maggio e due mezze mattinate ad agosto, quando, finito di pittare, mi aiutò a pulire.
Con il supporto del Pappone all’inizio tentò, senza riuscirci, di far di me un suo cliente. Cliente, intendo, di un’operatrice sessuale. Con il tempo le sue aspirazioni sarebbero diventate più elevate e, per me, più pericolose.
Il primo giorno che ci conoscemmo mi disse che Giosuè è vecchio. Affermazione che tradotta in linguaggio d’affari s’interpretava così: ‘‘Sì, è vero, ho una tresca con lui, però non mi soddisfa. Non disdegno perciò altri clienti’’.
Lasciai cadere l’appello nel vuoto. Le dissi invece che avevo soprannominato il suo spasimante il Bullo di Casacalenda, paese dove quasi sessant’anni or sono è nato, perché ama vestirsi come un pagliaccio, si profuma come una baldracca in disarmo e porta al polso giganteschi orologi da cafone.
Ela – vezzeggiativo da bambina con il quale la rumena desiderava la chiamassi – nelle settimane successive mi avrebbe inoltre informato che il Bullo trinca a volontà, sniffa cocaina e appartiene al terzo sesso.
Quest’ultima notizia mi sarebbe poi stata confermata anche dal Pappone, seppur lievemente corretta. Secondo il Pappone il Bullo non sarebbe un semplice invertito, bensì un bisessuale. O, come s’usa meglio dire, un ambidestro. In termini commerciali il messaggio suonava chiaro: ‘‘Sì, è vero, Mihaela fila con il Bullo, ma uno che va a letto pure con gli uomini non soddisfa a pieno una donna e la verginella da me protetta cerca perciò altri clienti’’.

3.
La prima domenica d’ottobre un episodio avrebbe comunque costretto il Pappone a cambiare del tutto politica. Ela, in un certo senso, gli fece vedere i sorci verdi e venire i sudori freddi.
Il sabato precedente, all’imbrunire, terminata la giornata di lavoro e riposti gli attrezzi nell’apposita baracca, il Pappone, tornando nel suo alloggio, un appartamentino di proprietà del condominio concessogli in comodato, era passato sotto la mia terrazza, dov’ero seduto a leggere, e mi aveva chiesto se mi piaceva la zuppa di pesce.
«Veramente, non l’ho mai mangiata».
«E allora domani venga a pranzo da noi, cuciniamo zuppa di pesce. Ci saranno anche degli amici».
Una scusa plausibile e al tempo stesso poco offensiva per rifiutare l’invito non ero riuscito a trovarla e, controvoglia, avevo accettato.
L’indomani, al termine del pranzo e delle cospicue libagioni, a tramonto ormai incipiente, si aggiunse agli invitati un omaccione di mezz’età. Era italiano e si distingueva per le spalle e le braccia vigorose, la voluminosa faccia rossastra e la pancia di chi a tavola non teme rivali.
Era venuto per riaccompagnare a casa una coppia di coniugi e la loro bambina, privi di macchina. Lo conoscevano tutti, capii. A Ela, stravaccata sul divanetto con svariati cicchetti di grappa nello stomaco, chiese evidentemente chi fossi, perché la sentii dire:
«Lui è l’amore mio».
Non mi scomposi, benché la notizia risultasse abbastanza stravagante, specie a me che ne ero all’oscuro. Nell’intimo però una domanda divertita me la rivolsi: ‘‘Ah, sì, e da quando?’’.
Ma fu qualche minuto più tardi che Ela sparò la bordata, dichiarando ad alta voce – del resto ero seduto a una certa distanza da lei – affinché ognuno dei presenti, Pappone compreso, udisse bene:
«Io voglio un figlio da te».
Stavolta non mi venne da ridere. Lo sconcerto m’inibì ogni spiritosaggine. Lasciai trascorrere alcuni minuti e me ne tornai alla chetichella a casa.
Al Pappone il clamoroso annuncio sfuggito alla gallinella dalle uova d’oro non piacque affatto. Le ordinò pertanto di tenersi lontano da me, minacciando chissà quali pene.
Non posso dargli torto. Ela, con le sue parole, aveva in buona sostanza dichiarato in pubblico di non volermi come cliente ma di aspirare addirittura a diventare la mia mantenuta. E i papponi, si sa, hanno una fottutissima paura di perdere le loro protette.

4.
La nuova situazione mi andò perfettamente a genio. Passai il resto dell’autunno in santa pace, senza aspiranti mantenute tra i piedi.
E’ vero, talvolta Ela mi telefonava per comunicarmi in tono lacrimoso:
«Tu non mi chiami mai e non mi mandi mai un messaggio. Non vuoi più parlare con me».
«Ma che dici? Adesso non stiamo parlando?».
In un’occasione, prendendo a pretesto che al mattino mi aveva visto passare in macchina, esagerò un po’:
«Stamattina, quando t’ho visto, mi si sono rifatti gli occhi», e sputacchiò con le labbra una raffica di baci.
Insomma, grosse seccature non ne ebbi.
Lei nel frattempo proseguiva con il Bullo la sua missione di operatrice sessuale. Poteva infatti capitare, allorché la sera tornavo a casa, di vedere la macchina del Bullo – il tizio nei mesi invernali dimora in un’altra sua abitazione al centro di San Leonardo – parcheggiata all’ingresso del villaggio. Segno che i congressi carnali, come li si definiva un tempo, dovevano per forza svolgersi in presenza e al domicilio del Pappone. Tutti e tre appassionatamente, cioè.
L’unico incidente di rilievo si verificò dieci giorni prima di Natale. Sapevo, perché proprio lei mi aveva ragguagliato, che il diciotto sarebbe partita in corriera per tornare ad Augustin, paesino della Transilvania orientale, a passare le festività insieme ai suoi. Anzi, mi aveva persino chiesto se l’accompagnavo io alla fermata e poiché la sua partenza mi avrebbe riempito di gioia le avevo di buon grado risposto di sì.
Sabato quindici dicembre, verso le cinque di sera, tornavo dal supermercato dopo aver fatto la spesa e chi ti trovo davanti al cancello automatico del villaggio?
Lei che piange a dirotto.
Scorgo, in sosta nel piazzale, la Panda color verde pisellino del Bullo di Casacalenda, e intuisco quale sia l’inghippo.
Ela spalanca lo sportello e sale nella mia macchina, io supero il cancello automatico e mi fermo lungo il viale. Il suo pianto è davvero qualcosa d’impressionante. Singhiozza disperata e il torace le si gonfia e le si sgonfia a ritmo frenetico. Dagli occhi diluviano le lacrime.
Cerco di rassicurarla battendole colpetti sulle spalle.
«Adesso vado a casa, bevo un po’ di grappa, rompo la bottiglia e taglio la faccia a Gregorio».
«No, Ela, non farlo. Se lo fai, tra qualche giorno non potrai rivedere Joana».
Joana Gabriela è la figlioletta di dieci anni.
«Ha fatto venire il Bullo»,
«Sì, Ela, lo ha chiamato per fare con te le cose che sappiamo. Ma tu consideralo un lavoro. Stringi i denti e pensa a Joana. E fatti pagare bene».
«Non vuole che carichi la valigia sulla macchina tua».
Per impedirmi evidentemente di accompagnarla alla corriera. Capisco così che le mie intuizioni erano esatte. Il Pappone, spifferando al Bullo che lei in un modo e nell’altro mi gironzolava ancora attorno, fino a strapparmi la promessa di accompagnarla lunedì notte alla fermata dei pullman, aveva indispettito l’affezionato cliente e magari compromesso la riscossione delle marchette.
«Se vuoi, vengo io e la prendiamo. A me non possono dire né fare nulla».
«Sono in quattro. Ci stanno pure Emilio e Miha».
I due erano operai clandestinamente alloggiati nell’appartamentino condominiale. Il Pappone li utilizzava per eseguire lavori in nero.
«Sai che facciamo, invece? Adesso mio faccio bella e usciamo».
Sorrido e obietto:
«L’hai appena detto, Ela, sono in quattro. Sei sicura che ti facciano uscire? Se t’impediscono di prendere la valigia non possiamo far nulla. Né potrai stare da me fino a lunedì notte, perché senza valigia non potrai tornare in Romania. Nella valigia ci sono i dolci per Joana, la Barbie per Joana».
Piange e piange e dopo infiniti strepiti e sussulti capisce che non può fare altro che sottoporsi all’orgia. Mi bacia piangendo e torna dai porcelli.
All’incirca un’ora e mezzo più tardi mi chiama:
«Gabi, vieni, voglio parlare con te».
Vado e la trovo all’ingresso del villaggio, da dove si accede all’alloggio di proprietà del condominio. Noto che la Panda verde pisellino del Bullo non c’è più.
Ela in verità non deve dirmi niente, solo baciarmi con l’alito che puzza d’alcol, tanto che neanch’io so come faccio a non svenire. E’ spaventosamente sbronza, ma non piange più. Ride.
«Adesso mi chiudo in camera e bevo tutta la notte».
Non replico. ‘‘Mio Dio’’, penso, ‘‘mio Dio, che squallore’’.
Le do la buonanotte e torno a casa.
Alle dieci mi chiama.
«Gabi, voglio un passaggio».
«Un passaggio? Con la macchina?».
«Sì».
«E per andare dove?».
«A casa tua».
«Ma per venire a casa non serve la macchina. E poi l’ho rimessa in garage».
«Perché l’hai rimessa in garage?», e riattacca.
Dopo poco richiama ancora.
«Be’, no, Gabi, meglio di no. Ci sentiamo domani».
Ma la domenica, con la sbornia da smaltire, non si fa sentire. Né si fa sentire il lunedì, perché ha da smaltire pure la vergogna. La notte, alle quattro e un quarto, parte. Per me, meglio così. Mi sono almeno risparmiato il fastidio di accompagnarla al pullman in orario indecente.

5.
La mattina del cinque gennaio, dopo la doccia, uscendo dal bagno sentii squillare il telefonino. Era un numero a me ignoto, non lo tenevo in rubrica. Apparteneva a un cellulare rumeno, avrei poi appurato.
«Pronto?».
«Sono io. Mi riconosci, sì?».
«Oh, Ela, buon anno. Tanti auguri».
«Senti, io Gregorio non lo voglio più vedere. Voglio venire a stare con te».
«Vuoi che ti ospiti io? Be’, devi però lasciarmi un po’ di tempo. L’estate scorsa, quand’ho ripitatto, ho buttato i vecchi materassi e i nuovi li ho comprati soltanto per una camera».
«No, non servono due camere. Io voglio venire a vivere con te come una moglie. Hai capito che t’ho detto, sì?».
«Sì, ho capito».
Non aggiunsi altro. L’indomani sarebbe stato il giorno della Befana e mi ripugnava dirle subito che consideravo inaccettabile la sua pretesa. Ospitarla avrei potuto, ma assoldarla in qualità di mantenuta superava qualunque ragionevole limite. Generoso sì, pazzo no.
Mi richiamò quel giorno più volte. Una volta mi passò la figlia.
«Ciao, Gabi».
«Ciao, Joana. Buon anno».
E intorno all’ora di pranzo persino il padre. Un vocione stentoreo che pronunciò parole incomprensibili.
«Hai capito che t’ha detto?».
«No».
«Sta mangiando e t’ha detto: ‘‘Venga in Romania a pranzo da noi’’».
Nel pomeriggio l’ultima telefonata, all’improvviso, s’interruppe. I soldi, grazie al cielo, erano finiti.
Il sei, giorno della Befana, evitai di mandarle il triste regalo. La mattina del sette le spedii il seguente sms: ‘‘Tra due settimane avrò cinquantasette anni, sono troppo vecchio per te. E se non hai un lavoro è inutile che torni in Italia’’. Con la mente aggiunsi: ciao, Ela, ciao. Ti auguro di trovare un uomo che ti voglia bene e ti rispetti. Ma sta a te cercarlo.



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