sabato 28 settembre 2013

Produttività, salari, occupazione

Verso la fine del Settecento – per l’esattezza a far tempo dal 1776 – Adamo Smith insegnò ai suoi contemporanei, come anche alle generazioni future, che la causa della ricchezza delle nazioni risiede nella divisione del lavoro.
Grazie alla divisione del lavoro cresce infatti la quantità di prodotto per lavoro impiegato. Ossia, se più vi aggrada, cresce la produttività. Vale a dire il valore della produzione per addetto.
Nel lungo periodo gli effetti dell’aumentata produttività sono stati socialmente strepitosi. Il popolo lavoratore, come lo si chiamava un tempo, ha smesso di morir di fame e d’essere sfruttato dai biechi capitalisti. Il salario reale ha superato il livello di mera sussistenza e l’orario di lavoro si è accorciato di quasi la metà. Le profezie ottocentesche di un barbuto filosofo tedesco, che molti avevano scambiato per oro colato, sono così diventate risibili elucubrazioni di un miope storicista.
Nel lunghissimo periodo l’accresciuta produttività ha dunque consentito un miglioramento consistente delle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti. E’ un fatto positivo che non va messo in discussione in nessun modo. La crescita della produttività può però presentare un aspetto negativo. Se difatti la produttività sale più della domanda aggregata, cioè del totale della spesa in beni di consumo e in beni d’investimento, si verificherà uno spiacevole aumento della disoccupazione.
Negli ultimi decenni si è provveduto a contrastare la disoccupazione per mezzo di politiche economiche di sostegno della domanda aggregata attraverso un aumento della spesa pubblica. Tuttavia il salire delle spese statali ha alla lunga prodotto, come contraltare, un aumento della pressione fiscale. Ossia qualcosa di sfavorevole ai produttori. Dunque, agli investimenti. Dunque, alla domanda di lavoro.
Ciò spiega perché il pieno impiego sia diventato una chimera. Un sogno irrealizzabile.
Viviamo così in una situazione paradossale. Redditi pro capite tanto alti da non conoscere uguali nella storia si accompagnano a una disoccupazione alta e insopprimibile. Qualcosa, perciò, non funziona.
Posto che la disoccupazione rappresenta la maniera più brutale per peggiorare la distribuzione del reddito, va da sé che ogni misura atta a ridurla debba essere ricercata a pié sospinto.
La soluzione, in un’economia di mercato aperta agli scambi internazionali di merci, capitali e forza lavoro, è una sola. Gli ingenui potrebbero forse credere che essa consista nel ridurre i salari. Ma questo convincimento è falso. La riduzione dei salari avrebbe quale effetto la discesa dei consumi, quindi degli investimenti, quindi della domanda di lavoro. Tradotto in soldoni, la disoccupazione aumenterebbe. Affinché la riduzione della domanda interna dovuta al calo dei consumi sia più che compensata da un incremento delle esportazioni bisognerebbe infatti far scendere il costo del lavoro al livello dei paesi del terzo mondo. Impossibile.
Per spingere le aziende a investire, e a impiegare quindi quantità aggiuntive di forza lavoro, è invece necessario ridurre in misura vistosa la pressione fiscale. Troppe tasse falcidiano i profitti, che sono il motore degli investimenti, e deprimono i consumi. Se le prospettive economiche rimangono negative perché il governo taglieggia investitori e consumatori, le imprese si trasferiscono all’estero e il numero dei disoccupati si moltiplica.
Tutto ciò, nell’ultimo lustro, si è verificato nei paesi dell’Europa mediterranea, ai quali i tedeschi, al fine di danneggiarne gli apparati produttivi, hanno imposto politiche economiche procicliche. I tedeschi conoscono bene l’economia e sanno che più tasse significano più povertà.
Volete diventare più poveri? Chiedete ai politicanti che vi governano di aumentare le tasse.
Amen.




11 commenti:

  1. Condivido l'analisi e mi ricollego al primo assioma: la ripartizione del lavoro. L'economia nel corso della sua evoluzione presenta più sfaccettature di un diamante, sfaccettature che si combinano per rifrangere i loro raggi sulla società i cui elementi passano dalla soddisfazione del bisogno oggettivo a quello soggettivo. Sotto questo punto di vista ha ragione Smith e non ha del tutto torto Marx. Oltre i confini dei prati dove si muovono i precedenti e le falange dei loro seguaci, ci sta qualcosa che condiziona tutta la società produttiva. È come una sorta di gene che si annida nelle mente di ogni capitano di industria, in quella degli Share Holders , in chi vuole arrivare ad una posizione di egemonia ecc.: aumentare ogni anno cifra di affari e profitto, DOMINARE. Rappresentatevi questo giuoco all'infinito che anche se "calmierato" dalla politica del prodotto "usa e getta", spingendoci a continuare nel cammino intrapreso sbocca presto o tardi nell'autodistruzuione di realtà locali, o forse (non auguriamocelo) globali. Filosofia, etica ed economia non hanno senso senza un fondamento comune, la politica dovrebbe avere solo e soltanto una funzione esecutiva e usare il contributo dei cittadini nel rispetto delle linee concordate.

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    1. Sollevi, Corrado, questioni molto complesse, sia dal punto di vista intellettuale che etico. Io mi sono limitato a considerare aspetti assai elementari. Se la produttività cresce più della domanda aggregata la disoccupazione aumenta. Se la domanda aggregata viene sostenuta sempre e solo con l'aumento della spesa pubblica, finanziata in parte con il debito e in parte con un'accresciuta pressione fiscale, alla lunga le tasse scoraggeranno gli investimenti e la domanda di lavoro cadrà.
      A Marx rimprovero l'idea, coerente con la sua teoria del valore, che l'aumento della produttività dovuta all'impiego di metodi di produzione a più alta intensità di capitale avrebbe ridotto il saggio di profitto - o saggio di sfruttamento, come preferiva chiamarlo lui - e condotto all'autodistruzione del capitalismo. Ciò non è accaduto, e dunque la sua teoria del valore era sbagliata.
      Se poi il cosiddetto sistema capitalistico altro non è che una giostra irrazionale che fa crescere la produzione oltre limiti ragionevoli e distruggerà la natura e l'uomo stesso, proprio non so dire. Io so solo una cosa: un'eccessiva pressione fiscale - diciamo superiore al 30-35% - rende impossibile il pieno impiego. A questo punto sta a noi decidere. O passiamo a un sistema socialista, nazianalizzando tutti i beni strumentali (secondo Schumpeter il socialismo non era incompatibile con la democrazia, benché storicamente abbiamo conosciuto solo l'avvento del socialismo criminale predicato da Marx), o si riduce la pressione fiscale. Ricordo che bene o male il socialismo, compreso quello criminale dominato dai gerarchi di partito, un posto di lavoro e un tozzo di pane non l'ha mai negato a nessuno. I gerarchi comunisti, tolto il molto per sé, dividevano la povertà in parti uguali. Va però detto che un esempio storico recente ci rende piuttosto scettici nei riguardi del socialismo. Alludo naturalmente ai cinesi che, morto Mao, hanno gettato alle ortiche Marx e avviato un miracolo economico da primato. E quella cinese, come sappiamo, è oggi un'economia dirigista di tipo misto, così come fu in Italia sotto il fascismo e in Germania sotto il nazismo. I capoccia cinesi non hanno però, a differenza del caporale austriaco e dello smargiasso romagnolo, nessuna intenzioni di fare le guerre.

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  2. Gran bella analisi, sviluppata alla perfezione con il piglio giornalistico asciutto e competente di sempre.
    Mi piacerebbe conoscere l'opinione del caro signor Smith in merito alle fibrillazioni riguardanti l'acquisizione della Telecom da parte degli Spagnoli e la solita inverosimile alzata di scudi con annesse proposte di legge quale l'innalzamento della Golden share e chissà cos'altro, ogni volta che in questo "mercato globale" qualcuno poi viene per davvero a cercare di comprarsi un pezzo del nostro paese che sta andando a rotoli, chiaramente incapace di reggere l'urto di economie ben più consolidate e responsabili della nostra.

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    1. Adam Smith era un liberista, perciò contrario a ogni forma di mercantilismo, a ogni protezionismo. Fissava per lo stato compiti ben precisi: l'erogazione di servizi squisitamente pubblici (difesa, ordine interno, ecc); l'intervento in quei settori dai quali i privati si tengono alla larga perché poco profittevoli o perché esigono grossi investimenti (strade, porti, ecc.); l'assistenza verso chi è privo di mezzi di sostentamento.
      La Telecom quando fu privatizzata, sia pure a prezzi di saldo, aveva 80.000 esuberi. Era cioè un'azienda morta, sopravvissuta grazie al monopolio e ai quattrini di Pantalone. Colaninno la rifilò a Tronchetti che, per tappare i buchi del suo pessimo affare, a momenti non si giocava la Pirelli. Adesso i politicanti vorrebbero di nuovo nazionalizzare la rete con la scusa ridicola, condivisa però da tanti fessi, che altrimenti sarebbe messa a rischio la sicurezza nazionale.
      Diciamoci la verità, Enrico, siamo un popolo di macchiette. Se non facciamo ridere i polli non siamo contenti.

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  3. Gabriele a mio parere sbagli a liquidare così il barbuto filosofo tedesco: anche se proponeva un rimedio peggiore del male, aveva analizzato bene il capitalismo e i suoi limiti ( per esempio le crisi periodiche). Ad alcune delle domande poste da Marx ancor oggi non è stata data risposta, mentre altre sue previsioni si son dimostrate errate ( una per tutte, lo sviluppo dei paesi del terzo mondo tramite la colonizzazione europea}.

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    1. La descrizione della realtà della sua epoca, fatta da Marx, era impeccabile e nessuno la discute. La sua analisi economica è invece improponibile sia perché aveva una concezione sbagliata della moneta (credeva che l'inflazione non dipendesse dall'aumento della base monetaria ma che succedesse il contrario) e sia perché la sua teoria del valore lavoro, dalla quale ha ricavato previsioni fallaci, non sta in piedi.
      Ma ciò che non possiamo accettare del suo pensiero è quello che io chiamavo, quando insegnavo queste cose, "assiomatismo dogmatico". Spiegava infatti il divenire storico con la lotta di classe (per dirla nella maniera più semplice e concisa), insomma, con il cosiddetto materialismo storico, o materialismo dialettico, tutta roba da lui ricavata lavoricchiando sulla dialettica hegeliana. La sua cosa più buffa, però, era che credeva al progresso storico. Non a caso il mio maestro, all'università, lo definiva l'ultimo degli illuministi. Da un punto di vista politico, poi, il mio giudizio è per forza di cose feroce. Il suo pensiero ha rappresentato l'eutanasia del socialismo. E infatti le sue teorie avevano come fine quello di santificare il furto, facendolo passare per esproprio (la rivoluzione), e di creare un sistema totalitario (il paradiso in terra per i gerarchi di partito). In questo modo ha ucciso gli ideali socialisti.

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  4. Bella analisi, ma mi sembra manchi un importante passaggio. E' vero che la spesa pubblica, in origine, sosteneva la domanda tramite l'acquisto di beni e servizie quindi l'occupazione privata, ma in Italia alla lunga si è saltato il passaggio mediato e si è andati al dunque: la spesa pubblica sostiene il potere di acquisto direttamente tramite gli stipendi di milioni di persone direttamente impiegate (che, se non ricordo male, costituiscono un quinto od un quardo degli 800 miliardi di spesa pubblica) ed indirettamente tramite un sistema pensionistico estremamente "liberale" (280 miliardi di euro) fino all'inizio di questa decade (per le pensioni da lavoro, taccio per carità di patria sulle pensioni di invalidità, sociali etc etc che in alcune regioni di italia raggiungono livelli da apocalisse medica, se fossero vere).

    In Italia il numero di impiegati nell'educazione non è mai stato più alto ed il numero di discenti più basso. Il 50% almeno delle persone impiegate nell'amministrazione pubblica dal livello nazionale al locale sono sostanzialmente improduttive ed effettivamente inutili e così via.

    Il punto è che se lo stato tagliasse veramente le tasse e quindi fosse davvero costretto a tagliare i costi, e visto che le pensioni sono "congelabili", ma generalmente intoccabili a parte ciò, dovrebbe attaccare i costi "vivi", ovvero acquisti e stipendi e la disoccupazione esploderebbe (Grecia, caso esemplare).

    Favorevole, ovviamente, alla diminuzione del cuneo fiscale e delle tasse in generale, ma mi sembra che molti (non lei, ovviamente) ne parlino senza avere idea delle conseguenze in un paese dove le spese dello stato sono il guadagno quotidiano di una buona metà degli occupati (inclusi quella parte dei privati che, pur pagati con mesi di ritardo, lavorano principalmente con la PA) e di tutti i pensionati andati in pensione con il retributivo, magari considerato sull'ultimo anno di stipendio...

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    1. Quel che lei sostiene è tutto vero. 1) La spesa pubblica ha sostenuto soprattutto i consumi. 2) In un mercato aperto (con in più salari alti e livelli di vita da "società opulenta") gli effetti delle politiche economiche Keynesiane sulla domanda di lavoro sono scarsi, perché parte dell'aumentata domanda aggregata si rivolge a favore dei produttori stranieri. 3) La spesa pubblica, come sottolineava Galbraith, per i beneficiari rappresenta un reddito, o comunque un'entrata, e ridurla ha effetti negativi sul settore privato (salto per brevità tutta una serie di considerazioni relative all'efficienza della spesa e ai modi per ridurre gli sprechi e alla distorta allocazione di risorse provocata dalla voracità statale).
      Non vi sarebbero dunque soluzioni? A mio modesto parere una soluzione esiste, almeno in teoria. Qual è? Imitare i tedeschi. Favorire cioè i produttori, bloccando la dinamica salariale, anziché sostenere i consumi. 

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    2. ono daccordo sull'imitare i tedeschi, in linea teoretica (buffo che scriva questo proprio durante una parentesi lavorativa in Germania...), ma bisogna capire che il sistema tedesco ha basi totalmente diverse dal nostro. Solo per fare alcuni esempi che credo di maggior importanza:

      - ha dei sindacati che, se da un aparte hanno un ruolo all'interno dei consigli diamministrazione, dall'altro accettarono nei '90 misure draconiane per aumentare la produttività: blocchi salariali, diminuzione degli orari di lavoro, straordinari non pagati ed altro. Non ce la vedo la CGIL (ma anche gli altri) a seguire l'esempio

      - ha una realtà industriale ancora basata sulla grande produzione con grandi imprese ed medie imprese a queste satelliti, (relativamente) più facile da gestire e a cui far "cambiare direzione" che un sistema italiano ormai basato sulle medie, piccole e piccolissime aziende dopo venti anni di annientamento della grande industria (vedi ILVA)

      - ha un sistema di educazione predisposto al sostegno di detta industria: se praticamente tutti finiscono la scuola media superiore, a seconda dei risultati ottenuti (test standard), una minoranza viene ammessa all'università (forse troppi pochi, se effettivamentehanno problemi a trovare abbastanza ingegnieri e chimici, ma è una cosa sanabile nel giro di qualche anno, volendo), il resto finisce nelle FH (specie di politecnici, anche di buon livello, molto legati alle industrie dove gli studenti studiano per metà del tempo e per l'altra metà fanno apprendistato presso le aziende collegate). Vogliamo parlare dei 320.000 giovani italiani che si iscrivono OGGI alle facoltà di lettere e di scienze della formazione per fare i maestri o i professori? Quasi 100.000 a scienze politiche, tutti o quasi con il sogno del concorso per carriera diplomatica che ammette una cinquantina di persone l'anno? 66.000 ad architettura, 60.000 a farmacia (che neanche la più grande liberalizzazione del settore potrebbe mai piazzare). Mezzo milioni di giovani l'anno sostanzialmente inutili per un sistema industriale o anche di servizi avanzati. E trlasciamo una disquisizione sul fatto che la categoria di chi lavora nella scuola, dai professori universitari ai bidelli degli asili, sia la più di sinistra, conservatrice (nientaffatto un ossimoro) e furibondamente ostile ad ogni cambiamento e riforma, riuscendo sempre a cooptare nelle loro proteste gli studenti che, beta gioventu, marcia per la propria rovina sociale.

      - ha quasi un quinto della forza lavoro costituita da gastarbeiter turchi, che aiutano a tenere il costo del lavoro basso deprimendo i salari per i non specializzati, che in confronto alla soluzione italiana degli immigrati irregolari pagati in nero è un altro mondo (ad onor del vero, bisogna dire che a tutt'oggi non godono di pieni dirittie che, adesso, cominciano a creare forti problemi sociali e di integrazione, specialmente in alcuni zone.)

      Per dire, evviva il sistema tedesco, ma l'infrastruttura necessaria a sostenerlo non si costruisce dal nulla, ma in decenni (quando non si lavora attivamente per smantellare quel poco di simile che si ha, come successo in italia già a partire dagli anni '70). La detassazione sui produttori punto e basta (sopratutto in un sistema come il nostro dove la compartecipazione agli utili o la distribuzione di azioni ai lavoratori rimane perlopiù fantascienza) porta a risultati americani: una nuova gilded age dove (e non volgio essere comunista, lungi da me) i proprietari di capitale sono sempre più ricchi, il coeffciente GINI esplode e dove gli effetti di trickle down sono finiti negli anni 70s.

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    3. Tutto vero, tutto esatto, tutto giusto. Noi non siamo la Germania (dove tra l'altro ho lavorato anch'io per un breve periodo della mia vita). Ma qualche linea di politica economica per contrastare la disoccupazione bisognerà pure deciderla. Non possiamo sognare in eterno di sostenere i consumi con l'aumento del debito pubblico e della pressione fiscale (chiudendo gli occhi sul fatto che in verità dal 2011 si stanno semplicemente attuando politiche economiche procicliche il cui effetto sarà quello di peggiorare le condizioni del settore privato e, di riflesso, anche della finanza pubblica.

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