venerdì 29 agosto 2014

Potere e libertà

Tutti ricorderanno la celebre battuta di Jean-Jacques Rousseau: l’uomo nasce libero ma la società lo rende schiavo. E’ di sicuro una frase a effetto, però priva di qualunque plausibile significato. Per un animale definito sin dall’antichità come ‘‘sociale’’ vagheggiare il ritorno a un mitico stato di natura è chiaramente un nonsenso e, con buona pace di Rousseau, nessuno nemmeno ci pensa.
Per amor di verità va comunque riconosciuto che all’epoca di Rousseau gli intellettuali cominciarono a rivolgere con insistenza la loro attenzione alle profonde differenze esistenti tra chi stava su e chi stava giù. Ai loro occhi il mondo era senza dubbio popolato da tanti schiavi e pochi padroni, tanti sfruttati e pochi sfruttatori. E così le ingiustizie sociali divennero, per una moltitudine di pensatori, rivoluzionari e politici riformisti, oggetto di lotte accanite. Insomma, qualcosa da abbattere.
La rivoluzione francese rappresentò il primo grande sommovimento volto a realizzare una maggiore uguaglianza fra gli uomini. Altri ne seguirono, finché nel Novecento si affermò e trovò pratica attuazione il concetto di stato sociale. L’azione pubblica avrebbe dovuto prefiggersi di redistribuire più equamente redditi e ricchezza. E nelle opulente nazioni industrializzate d’oggi, ammettiamolo pure, questo obiettivo è stato grosso modo raggiunto. O almeno, ci si è avvicinati.
Nei paesi ricchi il numero di coloro che vivono nell’indigenza si è ridotto, rispetto al passato, in misura sbalorditiva. Le diffuse condizioni di benessere hanno di conseguenza modificato la percezione che abbiamo della società. Ci è ora più difficile considerare l’ambito in cui viviamo diviso in sfruttati e sfruttatori. Certo, le ragioni d’attrito tra chi sta giù e chi sta su non sono venute meno, ma dominano meno d’un tempo i nostri pensieri. Siamo adesso un po’ meno scontenti, ecco.
Ad attirare le maledizioni degli insoddisfatti, e a guadagnarsi così l’epiteto di sfruttatrici, sono oggigiorno le grandi aziende multinazionali, nonché le grandi banche. In altre parole, chi sta giù non digerisce il potere economico dei grandi gruppi produttivi e finanziari. Il potere economico fa ancora paura.
Buone ragioni per diffidare dello strapotere dei giganti industriali e finanziari non mancano e non ho alcuna intenzione di sminuirele. Resta però il fatto che dalle guerre napoleoniche in poi a rilevarsi davvero mortifero è stato il potere politico, il potere degli stati. I grandi crimini di massa sono stati tutti realizzati dai poteri pubblici. O vogliamo forse affermare che le guerre mondiali, lo sterminio dei kulaki, il genocidio degli ebrei, il bombardamento di Dresda o quelli di Hiroshima e Nagasaki sono stati innocenti scherzetti di politicanti un po’ pazzerelloni?
Le potenzialità criminali dei poteri pubblici sono ovviamente superiori nei sistemi assolutistici e totalitari e inferiori, per nostra fortuna, in quelli democratici. Purtroppo, però, la perniciosità della politica abbonda anche nelle democrazie. Quello che negli ultimissimi anni è accaduto in taluni paesi d’Europa aderenti alla moneta unica ce ne fornisce cruda e amara prova. In questi paesi i governi hanno difatti adottato deliberatamente, nella speranza di non farsi cacciare dall’euro, politiche economiche distruttive, le quali hanno peggiorato le condizioni di vita di ampi strati della popolazione, ampliato le masse di disoccupati e fatto salire come non mai il debito pubblico. L’arte dei pazzi assurta a dottrina di governo.
Lo slogan coniato da Rousseau va quindi leggermente corretto.
L’uomo nasce libero ma la politica lo rende schiavo e, più spesso che no, lo ammazza.



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