mercoledì 16 gennaio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - quarta puntata


Riassunto delle puntate precedenti
Ela è un’immigrata rumena di trentadue anni.
A maggio dello scorso anno Gregorio, giardiniere e custode del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’, con il quale lei vive insieme ad altri due rumeni, me la mandò per aiutarmi e a tinteggiare le stanze.
Durante il nostro primo incontro Ela, tra l’altro, mi disse:
«Non voglio andare né sulla strada né ai night».
Lavorò per me nei pomeriggi del nove e del dieci maggio. L’undici, giorno del suo compleanno, non si presentò, benché mi avesse promesso il contrario. Verso le sei e mezzo di sera mi chiamò al telefono, ma non le risposi.
Domenica tredici, dopo pranzo, mi ritelefonò affermando che voleva parlare con me. Arrivata a casa mi disse che la sera precedente il Bullo di Casacalenda, da considerare quanto meno un suo spasimante, aveva dato una festa per lei. Si era divertita ma adesso aveva mal di testa. Interpretai la notizia, e lo scarso entusiasmo speso per esprimerla, come un penoso tentativo di seduzione.

Quarta puntata
Passò quasi una settimana prima che ci rivedessimo. Ad aiutarmi a pitturare non tornò, né a me saltò in mente di chiamarla. Le sue poche ore di lavoro gliele avevo pagate, e dunque non c’era ragione.
La mattina di sabato diciannove maggio fu lei a telefonarmi.
«Gabi, oggi pomeriggio vengo da te».
Immaginai le fosse rispuntata la voglia di lavorare e guadagnare qualche soldo.
«Va bene».
Arrivò poco dopo le due e mezzo.
«Ela, come sei elegante».
Indossava un paio di calzoncini bianchi e una maglietta di cotone dello stesso colore, sbracciata e con scritto sulla schiena, a lettere argentate, ‘‘Job’’. A tracolla portava un borsone bianco e nero. I piedi li aveva infilati in scarpe da ginnastica rosse. Infine, pur annusando con insistenza, cattivi odori non si percepivano.
Rise compiaciuta ed entrò.
«Non puoi lavorare vestita così. Devi cambiarti».
«Eh, non lavoriamo».
«No?».
«No, no. Usciamo».
«A quest’ora? Ma è prestissimo. E per andare dove?».
«Ai cinesi. Voglio comprarmi il costume».
«Dai cinesi? Se nemmeno so dove stanno».
«Lo so io. Davanti ai carabinieri».
Conosceva San Leonardo meglio di me, a quanto pareva. O almeno, sapeva meglio di me dove si vende roba a poco prezzo.
«E’ presto, prima magari prendiamo un gelato e poi andiamo da questi cinesi. Tanto, prima delle quattro, quattro e mezzo, non aprono».
Salimmo in macchina e la portai in centro. Se affermassi che l’accontentavo per pura e disinteressata generosità non sarei sincero. Di me, come datore di lavoro, aveva dimostrato di non sapere che farsene. Mi premeva perciò appurare fin dove volesse spingersi. A quale gioco giocava?
E mi sarebbe inoltre piaciuto scoprire la vera natura dei sui rapporti con Gregorio. Nonché la vera natura dei suoi rapporti con il Bullo, considerando in particolare l’ulteriore complicazione dovuta al fatto che Gregorio e il Bullo erano amici. ‘‘Menage à trois?’’, mi domandavo.
Parcheggiai e c’inoltrammo a piedi nei vicoletti del borgo medievale, che si erge su uno sperone incuneato nel mare, dominato dal castello svevo e sorretto da un altissimo muraglione tondeggiante.
Raggiungemmo la piazzetta del Duomo. Trovammo però la gelateria chiusa.
«Forse aprono più tardi», dissi. «Potremmo andare a prendere il gelato da un’altra parte».
«No, no».
Passeggiammo per perder tempo nei freschi vicoli stretti e, a uno slargo che dava sul mare, ci affacciammo a guardare il porto dal parapetto del muraglione.
Suppergiù alle quattro tornammo alla macchina. Misi in moto e mi diressi verso la caserma dei carabinieri. Di fronte, in effetti, un negozio cinese ci stava sul serio. Entrammo ma costumi da bagno femminili non ne avevano. Non ancora. Su un espositore presso il banco tenevano gli occhiali da sole. Ela cominciò a provarseli, rimirandosi davanti allo specchio. Un paio le piacque.
«Ti piacciono?», fece.
Non tanto, a esser sinceri.
«Certo, sì, mi piacciono. E ti stanno pure bene».
«Quanto costano?», chiese alla negoziante.
«Sei euro».
Glieli pagai io. Per una coppa gelato, grosso modo, avrei speso la stessa cifra.
Tornammo al villaggio. Sembrava contenta. Gli occhiali, naturalmente, erano da subito diventati un ornamento indispensabile. Non glieli avresti levati neanche con le tenaglie. Si era quasi arrivati, quando disse:
«Stasera telefono a mia figlia e le dico che mi sono innamorata di un uomo che si chiama come lei».
‘‘Ah’’, pensai, ‘‘è dunque questo il tuo gioco’’.
«Ma scusa, tua figlia non si chiama Joana?».
«Si chiama Joana Gabriela. Gabriela è il secondo nome».
Dentro di me, da principio, risi. Provai presto però una pena infinita. Se sperava di sedurmi con tattiche così puerili, senza neppure vergognarsi di tirare in ballo la figlia, qualcosa, in quella donna, funzionava male. Decisi, a quel punto, di parlar chiaro:
«Ela, scordati che io possa trattarti come si tratta una puttana. Non ti chiederò mai quanto vuoi per venire a letto con me. E togliti dalla testa che tu possa diventare la mia mantenuta».
L’effetto di queste parole, purtroppo, non sarebbe durato a lungo.
(4 – Continua)

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