martedì 1 gennaio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - prima puntata


Gli scrittori vanno sempre a caccia di materiale per i loro libri. E’ un vizio che hanno nel sangue e sarebbe in realtà buffo se non l’avessero. Sarei perciò uno spudorato bugiardo se sostenessi d’esserne privo.
Ce l’ho anch’io, non me ne vergogno.
Nell’anno appena trascorso mi è però capitato qualcosa di sconcertante. Ho raccolto un bottino talmente putrido da non essere utilizzabile, se non forse in minima parte.
A maggio decisi di rimbiancare le stanze di casa. Andai perciò a chiedere al giardiniere custode del ‘‘Gabbiano’’, il quartierino residenziale dove abito e così denominato in due miei racconti, se mi aiutava a spostare i mobili.
‘‘Il Gabbiano’’ è un villaggio turistico costruito a ridosso della spiaggia. Tra la statale sedici e il mare, a voler essere pignoli, sette chilometri a nord di San Leonardo. Si riempie durante la stagione estiva mentre gli altri mesi rimane quasi vuoto. Sono in tutto nove villette in stile moresco più un ex albergo, da tempo trasformato in un blocco di mini appartamenti.
San Leonardo è una cittadina rivierasca bagnata dall’Adriatico centro meridionale. Vi ho ambientato alcuni racconti ma se vi venisse l’idea di cercarla sulla carta geografica non la troverete. Ciò nonostante preferisco ambientarci anche le vicende che sto per raccontare, pur se realmente accadute.
Il giardiniere del ‘‘Gabbiano’’ è rumeno e si chiama Gregorio. Possiede una ragguardevole pancia da cirrotico, occhi furbi e porcini, una faccia da finto fesso e spicca per i suoi modi servili – con i condomini ma non con i suoi connazionali, sia chiaro – nonché per le indubbie qualità di lavoratore tenace.
Andai dunque a chiedergli se mi dava una mano a spostare i mobili perché dovevo pittare le pareti di casa e lui disse:
«Faccio venire la ragazza. E’ una brava ragazza. Ha già lavorato per Giosuè».
‘‘Capirai che referenze’’, pensai. E ciò per tre ordini di motivi. I primi riguardavano la ragazza, i secondi riguardavano Giosuè, gli ultimi riguardavano entrambi.
La ragazza m’ero immaginato fosse la moglie o la convivente di Gregorio. Tanto ragazza, inoltre, non mi sembrava. Dimostra infatti una quarantina d’anni. Abitava da un paio di mesi insieme a lui e altri due rumeni nell’appartamentino di proprietà del condominio, cedutogli in comodato al momento dell’assunzione, risalente al 2008. Una coabitazione – una donna e tre uomini ristretti in un alloggio angusto – che suscita fatale tristezza.
Giosuè è da me simpaticamente soprannominato il Bullo di Casacalenda, paese che gli ha dato i natali. Ama vestirsi come un pagliaccio, profumarsi come una puttana, portare al polso orologi da cafone e, giorno e notte, i Rayban sul naso. D’estate va in giro con slip gialli canarino e, ai piedi, sandali dello stesso colore. Esercita la nobile arte dello sfaccendato e gode del massimo disprezzo da parte di tutti i condomini. Nel senso che nessuno lo guarda in faccia. Sta sempre solo come un cane, se si esclude l’anziana madre con la quale da maggio a settembre vive nell’ultima villetta del villaggio, la più a nord.
Una dozzina d’anni or sono riuscì, per un breve periodo, a farsi eleggere dall’assemblea amministratore condominiale. Alla scadenza del mandato, in vista della nuova riunione annuale, inviò com’è d’uso ai condomini il consuntivo della sua gestione. Mi bastò uno sguardo per accorgermi che l’avanzo di cassa del suo predecessore, ben sette milioni e mezzo di lire, erano d’incanto scomparsi dalla contabilità. In altre parole, se li era intascati.
Alle riunioni di condominio non vado mai, quella volta invece sì, malgrado qualcuno mi consigliasse di lasciar perdere. «Il Bullo», mi dissero «è capace di mandarci i ladri a casa, se gli chiediamo i soldi che ci ha rubato». Non desistetti. Redassi un circostanziato promemoria, da allegare al verbale, per documentare il furto da lui compiuto, e feci del Bullo di Casacalenda carne di porco, schiacciandolo davanti a tutti come si schiaccia un verme. Fu compito del suo successore scucirgli il maltolto e restituirlo pro quota ai condomini.
E ora torniamo alla ragazza – a proposito, le piace che la chiami Ela, vezzeggiativo di quand’era bambina – e al momento che mi accorsi della sua esistenza.
Fu un giorno di marzo, allorché la notai di sfuggita sulla macchina del Bullo, una Fiat Panda color verde pisellino. Supposi fosse una sua rarissima conoscente, o una parente, e l’avesse accompagnato al villaggio per dar da mangiare ai gatti. D’inverno infatti il Bullo dimora nell’altra casa che ha a San Leonardo.
Dovetti tuttavia ricredermi nei giorni successivi. La rividi varie volte spazzare insieme a Gregorio e agli altri due rumeni i viali del villaggio. Capii così ch’era pure lei un’immigrata, probabilmente moglie o comunque compagna di Gregorio, dato che abitava con lui nell’appartamentino del condominio. Né mi meravigliai più di tanto se l’avevo intravista andarsene a spasso in macchina con il Bullo. Non trovando mai nessuno con il quale scambiare una parola, il Bullo con Gregorio s’intrattiene volentieri. Diciamo anzi che sono amici. Ciò doveva avergli facilitato la conoscenza della donna. Lei magari gli aveva chiesto un passaggio e lui non glielo aveva negato. Oltre tutto il Bullo, divorziato da tempo immemorabile, non disdegna le servette. Non per niente fino a una decina d’anni fa conviveva con la sua donna di servizio. La serva, come diceva Totò, serve.
Via, siamo uomini di mondo.
(1 – Continua)

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