mercoledì 26 ottobre 2016

Il declino americano, dopo l'apoteosi

Il nove novembre 1989 crollò il muro di Berlino.
Tredici anni prima, il nove settembre 1976, era spirato Mao Zedong, notissimo dittatore cinese.
Questi due eventi, insieme, hanno causato la morte delle dottrine economiche marxiste e, allo stesso tempo, il sorgere di un equivoco.
Lo sfacelo dell’impero sovietico e la conseguente fine della guerra fredda spinse infatti a credere che al sistema bipolare, caratterizzato dalla pluridecennale contrapposizione dei principali antagonisti, cioè Urss e Usa, ne sarebbe subentrato un altro dove un’unica superpotenza, gli Usa, avrebbe svolto il ruolo di gendarme del mondo.
Tale previsione politico-strategica, così come dimostrato dalle recenti crisi ucraina e siriana, si è rivelata del tutto infondata.
Le ragioni?
Economiche, in prevalenza, e non è male gettarci uno sguardo.

A partire dal 1976, defunto Mao e liquidata in un lampo la banda dei quattro, costituita da ferventi seguaci delle perniciose bizzarrie maoiste, la Cina, sotto la guida di Deng Xiaoping, straordinario e pragmatico riformatore per il quale il colore dei gatti non aveva alcuna importanza – bianchi o neri, l’importante era che acchiappassero i topi – intraprese un luminoso percorso di vigorosa e velocissima crescita economica, fino a diventare quello che è ora. Ossia, la seconda potenza economica del globo.
Ma che cosa, in pratica, Deng Xiaoping fece?
Nulla di straordinario. Buttando alle ortiche le dottrine economiche marxiste, disincagliò il suo paese dalle secche dell’economia pianificata e v’introdusse prassi e istituzioni dell’economia di mercato, inclusa la volgarissima e diabolica proprietà privata. Scusate se è poco.
Tutto ciò, né più né meno, si sarebbe ripetuto anche in Russia una volta crollato il muro di Berlino, sebbene a un ritmo più lento.

E’ difficile immaginare che Deng abbia mai letto gli scritti di Ludwig von Mises e di Friedrich von Hayek, due economisti liberali esponenti di prima grandezza della scuola austriaca. Con ogni probabilità si è limitato a seguire il proprio buonsenso e l’esperienza personale. Va comunque ricordato, tanto per dare a Cesare quel che è di Cesare, che furono Mises e Hayek a spiegare i motivi per cui un’economia pianificata, allorché tutti i mezzi di produzione sono detenuti nelle mani dello stato, non potrà mai produrre più ricchezza di un’economia di mercato.
Saremmo tutti istintivamente propensi a ritenere che l’economia pianificata sta all’economia di mercato come la razionalità sta al caos. Ma in realtà è il contrario. Per quanto i pianificatori possano essere abili e competenti, non disporranno mai delle specifiche conoscenze, né delle intelligenze e dei talenti in possesso a una miriade di operatori l’un l’altro concorrenti, ognuno dei quali decide e agisce autonomamente, tenendo però d’occhio l’andamento dei prezzi e adattandosi di continuo alle mutevoli condizioni per non soccombere.
L’operare in regime di concorrenza ha come effetto generale tanto una più intensa crescita della produttività quanto il moltiplicarsi delle innovazioni, a una cadenza impensabile in un regime pianificato, dove il movente del profitto non trova spazio.
In conclusione, i gatti di mercato acchiappano più topi e producono più ricchezza dei gatti colletivisti.

Il passaggio via via avvenuto dei paesi ex satelliti dell’Urss alla Nato ha rappresentato la prova tangibile dell’apoteosi americana. Ma nel frattempo anche l’economia russa si risollevava dalla stagnazione. Ed è cresciuta al punto che i russi hanno ripreso a pronunciare la parola ‘‘niet’’ senza più timidezza. Anzi, hanno saputo affrontare le crisi ucraina e siriana con una disinvoltura che ha lasciato a bocca aperta gli allocchi d’occidente.
Né appare fruttuoso l’aver imposto le sanzioni alla Russia dopo che, con un referendum plebiscitario, la Crimea si era riunita alla madrepatria. In primo luogo, le sanzioni danneggiano le imprese dell’Europa occidentale. In secondo luogo, caduta la cortina di ferro, nella coscienza di ogni europeo si è radicata la consapevolezza che il vecchio continente inizia a Lisbona e finisce a Vladivostok.
In altre parole, nessun europeo occidentale vuol morire per Kiev, o per Damasco. E se è pur vero, come c’insegna la storia, maestra di morte, non di vita, come erroneamente si ripete, che la follia dei politici al potere è illimitata, la prona sudditanza finora mostrata dai governanti dell’Unione europea alle richieste statunitensi si scontrerà presto o tardi contro la volontà dei loro elettori.

Il sogno americano di diventare il gendarme del mondo si è dunque infranto al cospetto di una Russia e di una Cina che hanno preferito perseguire la ricerca della prosperità anziché la magra povertà garantita dalle dottrine economiche marxiste. Pertanto gli Usa non potranno più primeggiare da soli, ma dovranno cooperare con le altre potenze. Altrimenti, verrà il peggio.





4 commenti:

  1. Un lampo che illumina bene i riflessi di un processo che continua a evolvere. Un galoppo sfiancante (quello dell'economia mondiale) che sperpera le proprie energie nella continua ricerca del "più opportuno", seminando miseria e disordine, e che sarà costretta ad accettare il principio: pensa globale, opera locale. Forse la nuova politica americana si muove inconsciamente in tale direzione.

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    1. Chiedo umilmente venia, Corrado, ma a mio modestissimo parere non è l'economia che semina miseria e disordine, bensì la politica. Sono però d'accordo sul fatto che si debba pensare globale e operare locale.

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    2. Non hai nulla da scusarti Gabriele, né tantomeno era mia intenzione indirizare l'indice contro l'economia. Non ho aggiunto quello che "rimuginavo" e una parte di esso, quale frase inserita in un romanzo in cantiere, la esprimo qui:
      «Cosa è la politica?»
      «È un aborto dell’economia! Veste l’abito del sociale elevato a vessillo, trasformandolo in strumento o ideale di potere.»
      Lo so che anche questo non è apprezzato ma ho le mie strane visioni per dirlo.

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    3. E' una definizione della politica che condivido.

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