venerdì 15 novembre 2013

La tristezza della finanza allegra

Desidero affrontare oggi un argomento che ha il raro dono di mandarci in bestia.
Le tasse.
E’ in realtà un tema dagli appassionanti risvolti intellettuali ed etici, ma sarei un maledetto seccatore se volessi rompervi l’anima sciorinando una sfilza di pedanti nozioni, magari impreziosite d’astrusi tecnicismi che fanno tanto bon ton. Niente di tutto questo, state tranquilli. Preferisco puntare l’attenzione su un solo aspetto, seppur cruciale: l’evasione.
Tanti anni fa, leggendo un articolo scritto da uno studioso di scienza delle finanze, m’imbattei in una considerazione degna di nota. A livello individuale, sosteneva quello studioso di cui ahimé non ricordo il nome, potrebbe sembrare razionale non pagare le imposte. ‘‘Finché ci sono gli altri che le pagano’’, ragiona il singolo evasore, ‘‘che bisogno c’è che le paghi anch’io?’’.
All’apparenza un discorso da furbi, senza dubbio. Se però una tale filosofia venisse condivisa da tutti, cioè se nessuno versasse più i tributi, le entrate fiscali precipiterebbero a zero e lo stato non avrebbe le risorse per erogare ai cittadini i servizi richiesti (ordine pubblico, difesa, giustizia, istruzione, assistenza previdenziale, eccetera). Ecco dunque che una scelta apparentemente logica a livello soggettivo risulta del tutto irragionevole sul piano generale.
In altre parole, il furbacchione che si sottrae agli obblighi fiscali, perché tanto c’è chi paga per lui, è un puro e semplice ladro. Un ladro che imbastisce e ritiene vero, oltre tutto, un ragionamento da dementi.
E’ questo comunque solo un lato della medaglia. Ve ne è purtroppo un altro, a mio avviso di maggior gravità, che riguarda l’uso delle risorse pubbliche da parte dell’apparato politico burocratico. Se quelle risorse vengono infatti impiegate in maniera inefficiente, si offrono all’evasione fiscale ampie giustificazioni morali.
Per rendere concreto il concetto di ‘‘uso inefficiente di fondi pubblici’’ racconterò una vicenda capitata pochi anni or sono a mia sorella.
Mia sorella si chiama Mariangela e fa la commercialista. Vive e ha lo studio in una città di media grandezza bagnata dall’Adriatico centrale. Gode di ottima reputazione e i suoi clienti la stimano. Conobbe, in casa d’amici, l’allora sindaco della città. Costui aveva un problema serio. La società comunale addetta alla raccolta dei rifiuti era un profondissimo pozzo di San Patrizio e ingoiava quattrini a non finire. Avendo, il sindaco, ricevuti da conoscenti comuni vivi apprezzamenti sulle capacità professionali di mia sorella, le chiese se era disposta a dargli una mano per capire perché la raccolta dei rifiuti risultasse tanto onerosa e, se possibile, ridurne i costi.
Mariangela non ha mai bazzicato in vita sua una sezione di partito, né è mai stata iscritta a partiti. Considera i politicanti, in linea di massima e salvo rarissime eccezioni, delle macchiette incorreggibilmente dedite alla tutela delle proprie saccocce, da loro definite ‘‘interessi della collettività’’. Ciò malgrado, forse perché stimolata dal vigoroso entusiasmo di quel sindaco e dalla bontà dei suoi propositi, accettò la proposta e divenne così membro del consiglio di amministrazione della società Nettezza.
Rimettere in sesto i conti dell’azienda fu un gioco da ragazzi. Per riuscirci, ecco la cosa buffa, mia sorella non dovette perdere nemmeno un minuto per analizzare al microscopio bilanci e contabilità. Le bastò alzarsi presto la mattina e recarsi al distributore di carburante dove i mezzi di Nettezza spa riempivano i serbatoi. Oltre ai camion portaimmodizie, davanti alla pompa si allungava una fila di autovetture appartenenti ad amministratori e dipendenti dell’onorata società comunale, in attesa di fare il pieno a scrocco. Mariangela impose uno stop a quella cattiva abitudine.
Lasciato il distributore, doveva poi recarsi alla discarica ove gli autocarri conferivano i rifiuti, di proprietà di un privato, e controllare le operazione di pesatura. La bascula rinsavì di colpo e la quantità d’immondizia smaltita scese in misura statisticamente significativa. Nell’ordine di tonnellate, per capirci, con conseguenti risparmi sul costo del servizio di raccolta.
Il proprietario della discarica non aprì bocca, giudicando prudente non forzare oltre il lecito l’ago della bilancia. Ai dipendenti di Nettezza spa non andò invece giù l’addio alla benzina gratis. Avvicinarono perciò mio cognato, un notaio tra i più attivi in città, pregandolo di convincere la moglie a desistere da quei comportamenti antifurto. Rubare il carburante alla ditta nella quale lavoravano era ormai un diritto acquisito e negarglielo pareva, a lor signori, iniquo.
Mio cognato, che fuma il sigaro e ha un indomito spirito ironico, disse:
«Eh, Mariangela è quella che è, cosa vogliamo farci? Guardate me come mi ha ridotto», e mostrò il sigaro. «Mi ha lasciato solo questo sigaro. Nient’altro mi rimane, soltanto il sigaro».
Ascoltata la musica, il comitato aziendale sloggiò dallo studio di mio cognato.
A sconcertare mia sorella, tuttavia, al di là del ladrocinio esercitato dal padrone della discarica e dagli impiegati di Nettezza, fu il compenso elargito ai membri del consiglio d’amministrazione, inclusa quindi lei.
Reggetevi forte, perché adesso sparo la cifra.
Venticinquemila euro ogni tre mesi a ciascun consigliere – avete capito bene: tre mesi, venticinquemila – e cinquantamila – ripeto, cinquantamila – al presidente del consiglio. Sempre ogni tre mesi, ovvio.
Tutto legale. Nessuna pesatura generosa, nessuna illegittima erogazione di carburante.
L’inefficiente uso di fondi pubblici appare qui lampante. Regalare soldi a iosa, regalare la ricchezza ai membri di un consiglio d’amministrazione, giusto per un paio di riunioni al mese cui partecipano, significa rubare ai contribuenti. Significa rendere il prelievo fiscale immorale e giustificare gli evasori.
Esiste una soluzione?
Domanda difficilissima. Con ogni probabilità, se l’opinione pubblica venisse informata sulle modalità di spesa adottate negli enti pubblici, l’apparato politico burocratico ridurrebbe gli sprechi. Ma per risultare utile, l’informazione dovrebbe essere tanto dettagliata da riguardare dati in realtà difficili da reperire.
Gli economisti liberali suggeriscono di limitare per legge la misura del prelievo fiscale. In tal modo, disponendo di minori risorse, gli apparati pubblici sarebbero costretti a sprecare di meno. Forse.
Alcuni sostengono sia necessario affidare taluni servizi a ditte private, riservando agli enti pubblici compiti di controllo, nella speranza che i controllori non siano avidi di bustarelle.
La verità nuda e cruda è che la responsabilità ultima grava sugli elettori. In un sistema democratico ogni popolo ha il governo che si merita. Sta ai cittadini contribuenti ostacolare gli sprechi negando il voto ai partiti che fanno della spesa pubblica à gogo il proprio vessillo. Ai partiti che considerano lo stato, in tutte le sue articolazioni, uno strumento di potere e non una struttura di servizio.
Noi italiani, nel corso del ventesimo secolo, partiti di tal fatta ne abbiamo conosciuti sin troppi. La lezione, a quanto pare, non l’abbiamo ancora appresa.



2 commenti:

  1. L'articolo afferma grandi verità, ma la soluzione c'è: bisogna azzerare l'evasione fiscale azzerando il prelievo tributario. Lo Stato deve andare avanti solo con le tasse in modo che non ci sia un apparato inutile, sostanzialmente teso a vessare i cittadini. Basta applicare la teoria della condivisione del valore dei beni ed è fatta.

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    1. Solo le tasse, dici, ossia corrispettivi per servizi resi. Niente imposte dirette, niente imposte sui redditi né patrimoniali. Né tanto meno imposte indirette, come quelle sui consumi o le accise.
      La soluzione da te proposta, Paolo, è esposta a due problemi. Primo, il sostegno economico, tramite trasferimenti unilaterali, ai ceti svantaggiati non sarebbe più possibile. Secondo, i servizi erogati potrebbero essere ugualmente di scadente qualità e di costo elevato. Il secondo problema lo possono risolvere solo i cittadini diventando più accorti e più prudenti quando vanno a votare, nella consapevolezza che il massimo possibile che si può ottenere dalla politica è la buona amministrazione, e non palingenesi o paradisi in terra buoni solo a imbrogliare i fessi che si lasciano ingannare dalla propaganda. Il primo problema lo si risolve, almeno in parte, fissando un limite costituzionale all'imposizione fiscale. Insomma, secondo me un po' di imposte, oltre alle tasse, sono necessarie.

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