giovedì 18 luglio 2013

Euro sì, euro no

Tra teoria e pratica c’è sempre il solito abisso. In economia, poi, tra universo teorico e realtà il più delle volte non esiste alcun legame. Gran parte delle teorie economiche – in particolare le sedicenti ‘‘teorie pure’’ – sono infatti normative, non esplicative. Vale a dire che prefigurano un mondo desiderato, anziché cercare di descrivere e spiegare il mondo vero. Insomma, la teoria economica è parente stretta dell’ideologia politica. Dietro la cortina fumogena di equazioni e grafici si nasconde in realtà il sostegno alle ideologie stataliste o, se si è schierati dall’altra parte, a ideologie antistataliste, con un’ampia gamma di preferenze intermedie tra i due opposti. Si rintraccia sempre, implicito nelle teorie economiche, un giudizio di valore.
Ciò rende l’analisi economica, per chi non ama barricarsi dietro patetiche pretese di scientificità, un po’ imbarazzante. Perché tutto si riduce, alla fin fine, a esprimere opinioni personali. E le opinioni enunciano ciò che secondo noi sia giusto o ingiusto, anziché affermare cosa sia vero e cosa sia falso.
Per tale ragione su uno stesso argomento i pareri degli economisti il più delle volte divergono in maniera impressionante. Se ne trovate due che condividono una stessa idea vuol dire che appartengono alla medesima parrocchia.
Una prova delle divergenze dottrinali ce la offrono in questi anni tormentosi i pasticci causati dall’euro. La cronaca è nota. Alcuni paesi dell’eurozona, in primis l’Italia, persa la sovranità monetaria perché entrati nella moneta unica, devono accrescere la pressione fiscale, facendo così salire la disoccupazione, nella speranza di non perdere del tutto la fiducia dei sottoscrittori di titoli del debito pubblico, senza i quali non avrebbero alcuna speranza di pareggiare i buchi di bilancio.
Alcuni propongono come soluzione l’uscita dall’euro. Altri considerano folle un’ipotesi del genere. Nella disputa non ho alcuna intenzione d’infilare il becco, preferisco infatti attenermi alla realtà nuda e cruda. E la nuda realtà è chiara. La necessità – e parlo, si badi, di necessità, non di semplice possibilità – di sganciarsi dall’euro è tutt’altro che inverosimile. Conviene pertanto progettare il miglior modo per farlo.
Qualcuno già ci ha pensato. Posto che uscire dall’euro con una conversione appare poco fattibile, in quanto i trattati non ne prevedono, per gli stati aderenti, neppure la facoltà, a meno che non vogliano andar via anche dall’Unione Europea, per riacquistare di fatto la sovranità bisogna sganciarsi dalla moneta unica e formalmente rimanervi.
Il piano elaborato da Warren Mosler, uno dei più brillanti neocartalisti, esponente cioè della cosiddetta Modern Money Theory, e Philip Pilkington, un giornalista irlandese, rispetta entrambe le condizioni.
Suggeriscono che uno stato in difficoltà, dal momento che gli è sempre più difficile indebitarsi a tassi d’interesse sostenibili e la Bce non può finanziarlo con lo scoperto di tesoreria o tramite l’acquisto dei titoli alle aste, provveda semplicemente a emettere biglietti del tesoro con i quali pagare le sue spese e, per renderli ben accetti alla collettività, riscuotere con essi le tasse al posto dell’euro.
Al fine d’impedire la fuga di capitali tutti i contratti già posti in essere tra privati, inclusi i depositi bancari, rimarrebbero denominati in euro e l’euro potrebbe continuare a circolare insieme ai biglietti del tesoro. Si verificherebbe in sostanza una concorrenza tra le due monete, libere entrambe di circolare all’interno della stessa nazione, un po’ come von Hayek suggeriva tanti anni fa. Naturalmente la legge di Gresham (la moneta cattiva scaccia la buona) opererebbe a tutto spiano e ognuno preferirà tenere in deposito gli euro e usare i nuovi biglietti per gli acquisti. Il tasso di cambio tra le due valute lo deciderà il mercato. Se lo stato si farà prendere dalla frenesia tipografica e stamperà i nuovi biglietti a ritmi frenetici, di sicuro la parità con l’euro andrà a farsi benedire a velocità pari se non superiore.
Gli unici contratti preesistenti da convertire nella nuova moneta, altrimenti l’intera operazione non avrebbe senso, sono quelli relativi alle obbligazioni pubbliche. Lo stato dovrà dichiararsi disposto a pagare alla scadenza i titoli del suo debito solo ed esclusivamente con la nuova valuta e sempre a un tasso di uno a uno con l’euro, salvo riservarsi il diritto di rinegoziare il debito.
In fin dei conti, come si vede, la soluzione ai disastri provocati dalla moneta unica esiste. Se l’opinione pubblica ne fosse sufficientemente informata diventerebbe difficile, per i governanti, non attuarla.




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