venerdì 8 febbraio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - settima puntata


Riassunto delle puntate precedenti
A Ela, immigrata rumena che coabita in un piccolo alloggio con tre suoi connazionali e intrattiene rapporti, non solo di lavoro, con il Bullo di Casacalenda, domenica diciassette giugno muore la madre.
Parte in aereo per partecipare ai funerali e dalla Romania mi telefona più volte, passandomi addirittura la figlioletta di dieci anni. Al suo ritorno a San Leonardo io mi trovo altrove e, per ovvi motivi, preferisco tenere il cellulare spento. Non appena però mi rivede, oltre una settimana più tardi, allorché transita davanti casa seduta sul cassone dell’Ape di Gregorio, attacca a inviarmi sms piuttosto teneri. Cerco, con le mie risposte, di smorzarle gli ardori, arrivando persino a dire: ‘‘Ela, io non sono l’uomo per te, perché ho un carattere duro. Accontentati di chi si veste come un pagliaccio, si profuma come una puttana e porta al polso orologi da cafone’’.
E lei ribatte: ‘‘Ma il Bullo non fa l’amore con le donne. E quindi...’’.
Il Bullo, cioè, sarebbe un pederasta.

Settima puntata
Ai primi di agosto finii di ripittare le pareti di casa, feci perciò venire Ela ad aiutarmi a pulire. Non la chiamai direttamente, rivolsi la richiesta a Gregorio, dato che il capoccia della combriccola rumena del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’ era lui.
La trattai con misurata cortesia. Fui insomma estremamente compito. Non proprio freddo ma nemmeno caloroso, ecco. Un datore di lavoro molto, molto a modo. Pignolo quanto basta, esigente quanto basta, alla mano quanto basta. Ci sbrigammo in due mezze mattinate, dopo di che, per giorni interi, non la rividi.
Ah, dimenticavo, la pancia le era cresciuta. Le larghe camicie che indossava non riuscivano a nascondere la realtà.
Verso la fine del mese, un pomeriggio, dovendo uscire per fare la spesa, scesi in garage. Davanti alla saracinesca Ela e Gregorio ramazzavano il viale asfaltato. Li salutai.
«Signor Gabriele, vuol venire a pesca con noi?», Gregorio mi chiese.
«A pesca? In riva al mare?».
«No, no in riva al mare. In un lago. Tra un po’ andiamo».
«In macchina?».
«Sì, con la macchina di un amico mio».
«Io veramente dovrei andare a fare la spesa». Gli occhi, non volendo, mi caddero sulla pancia di Ela. Non che sperassi di appurare chi sa che cosa, ma l’evidente ingrossamento stuzzicava la mia curiosità. «E va bene, la spesa la farò domattina. Quando si parte?».
«Tra mezz’ora. L’aspettiamo a casa, d’accordo?».
Una mezz’oretta più tardi raggiunsi il piccolo appartamento di proprietà del condominio situato nell’ex albergo. Non vi avevo mai messo piede. La porta d’ingresso era spalancata.
«Permesso?».
«Avanti», mi rispose pronta la voce di Gregorio.
Dalla soglia si accedeva in un angusto disimpegno che aveva una porta per lato. Quella dirimpetto all’entrata e quella a destra erano chiuse. Quella a sinistra, aperta, immetteva nel soggiorno. Qui Gregorio e un altro uomo mai visto prima sedevano spalla a spalla su un divanetto troppo piccolo per le loro stazze, ciascuno con un bicchiere in mano. Lo sconosciuto somigliava all’omino Michelin, tanto era cicciotto. Ela sedeva accanto alla porta, con la schiena alla parete.
«Una grappa, signor Gabriele?», Gregorio mi offrì.
I due, dunque, per affrontare al meglio le immani fatiche della pesca sportiva stavano trincando grappa.
«Grazie, no».
L’omino Michelin si alzò, non senza sforzo, e mi strinse la mano, presentandosi con il nome di Ovidio. Mancavano gli altri due rumeni, quelli che lì abitavano insieme a Gregorio e a Ela. O continuavano a lavorare nel villaggio, oppure la pesca non era il loro sport preferito.
Gettai uno sguardo intorno. La mobilia sembrava raccattata in oscure soffitte dopo decenni d’abbandono. Delle tre o quattro sedie non ve ne erano due uguali. Una era impagliata, un’altra era di formica marrone, un’altra ancora di plastica bianca. Sul pavimento, in mattonelle bordò misura quindici per quindici, la scopa e lo straccio non venivano passati dai tempi di Noè.
Davanti al divanetto stava un tavolino rotondo. Accostato alla parete dov’era seduta Ela stava un altro tavolino, ma rettangolare. A colpirmi in maniera sorprendente fu, nell’angolo in fondo, il televisore. Era un modello antidiluviano, d’accordo, ma di grandezza smisurata. Cinquanta, sessanta pollici? Un Polifemo, lo definirei, anzi un autentico King Kong del tubo catodico.
Entrò dal balcone un gattino metà bianco e metà tigrato e mi si strusciò alle gambe. Mi chinai e lo carezzai.
«Oh, ma che bel micio»
«E’ di Mihaela», intervenne Gregorio. «Si chiama Suso».
«Suso?».
«Sì, Suso. Quand’era più piccolo si chiamava Susi. Ma adesso che è cresciuto ci siamo accorti che non è femmina, è maschio».
Ela, sottraendolo alle mie carezze, lo prese in braccio, quasi ne fosse gelosa.
Gregorio scolò l’ultimo sorso di grappa rimasta nel bicchiere, che posò vuoto sul tavolino rotondo, e si tirò su dal divano. Pensavo fosse giunta l’ora d’andare. E invece no, desiderava farmi visitare tutto il quartino, così potevo rendermi conto fino a che punto fosse bravo a tenerlo in maniera impeccabile.
«I mobili sono suoi?».
«E’ tutta roba mia. Quando sono venuto non c’era niente».
Il soffitto del cucinino, sopra la finestra, era nero di muffa. Più al centro era caduto l’intonaco, lasciando a nudo i travetti di laterizi.
«Ma qua ci piove».
«Eh, sì, all’amministratore gliel’ho già detto. Bisognerà mettere a posto».
Sui pensili erano accatastate pentole e padelle. Pile di piatti, bicchieri e altre pentole stavano pure su un tavolo di fianco al lavello.
Riattraversammo il soggiorno. Mi aprì una porta del disimpegno. Era il bagno. La scarsa luce entrava da una finestrella trenta per quaranta, a vasistas e con il vetro opaco. La tazza non aveva il coperchio e la ruggine stava divorando la lavatrice.
Richiuse la porta e aprì l’altra.
«Questa è la camera di Mihaela».
Sembrava copiata di sana pianta dal set di un film ambientato in un bordello. Pareti rosa confetto e letto matrimoniale dalle spalliere d’ottone. Dalla mantovana pendevano tende bianche a pois celesti. Non mancava nemmeno, nell’angolo opposto alla porta, una poltrona imbottita in vinilpelle color crema, con un tappeto steso ai piedi. Sotto la finestra e lungo la parete di fronte al letto erano allineate scansie rigurgitanti di pupazzi e pupazzetti.
I guanciali, entrambi non sprimacciati e visibili perché i bordi della sovraccoperta cresimi e del lenzuolo aragosta erano stati rimboccati, fornivano senz’ombra di dubbio la prova che in quel letto non dormiva una persona sola.
«Bella, eh?».
‘‘Da rimanerci secco’’, pensai.
«Sì, molto».
Concluso il tour della reggia, finalmente si partì. Caricarono canne e borse nel portabagagli della Ford giardinetta di Ovidio, blu e con targa rumena. Suso, il gattino, seguì la padroncina, accovacciandosi tra me e lei sul sedile di dietro.
Ovidio uscì sulla statale sedici, prendendo a sinistra. Un paio di chilometri più giù girò a destra nel sottopassaggio che trafora la massicciata della ferrovia e s’inerpicò su una stradina interpoderale, molto stretta ma con il manto d’asfalto, che risaliva la collina. Sul crinale incrociò una strada migliore, sulla quale svoltò a destra. Ne percorremmo qualche centinaio di metri per poi voltare a sinistra in una stradina ghiaiata. Si avanzò per un breve tratto e nei pressi di una casa colonica Ovidio fermò la Ford sotto l’ombra di un olmo.
Smontammo.
In basso, alla base del versante occidentale della collina, il laghetto rifletteva i raggi del sole calante. Era un invaso artificiale, realizzato probabilmente negli anni Sessanta a scopi irrigui, quattro o cinquecento metri di lunghezza e trecento di larghezza, chiuso a sud da una diga di cemento armato e con le sponde cinte da canneti.
I pescatori presero dal bagagliaio dell’auto la loro attrezzatura. Cominciammo a scendere costeggiando una vigna. Suso, il gattino, seguiva Ela, che appesantita dalla pancia e da un borsone si muoveva cauta. Attraversammo un campo di girasoli e fummo al lago.
Ovidio aveva una canna da pesca nuovissima e super tecnologica, in fibra di carbonio. Gregorio ne aveva una così e così, forse ereditata dal padre. Quella di Ela era invece ereditata di sicuro dal nonno, vecchia e malandata.
Attraverso un varco nel canneto raggiungemmo la riva. Gli uomini si appollaiarono su dei massi. Ela no, rimase in piedi. Infilarono i vermi negli ami e lanciarono le lenze in acqua. Ela, prima d’infilarli all’amo, li passava nella farina di mais.
In circa un’ora e mezza di languido sport, con il sole che a ponente si abbassava e c’inondava di luce e di calore, all’amo di Ovidio abboccarono tre pesci, a quello di Gregorio due. Ela non pescò nulla.
Non saprei dire che pesci fossero. Di certo non erano trote. Le trote le conosco bene, perché mi piace mangiarle. Erano piccoli, lunghi non più di quindici centimetri, dal profilo tozzo e spessi sì e no un centimetro e mezzo.
Al tramonto tornammo in macchina. Si partì e Ela disse qualcosa a Ovidio. Capii quel che gli aveva detto quando la Ford, anziché ridiscendere verso ‘‘Il Gabbiano’’, proseguì in direzione di San Leonardo. Mi stavano portando al supermercato per consentirmi così di far la spesa quella sera stessa, senza che il mattino appresso dovessi più pensarci.
Al parcheggio del supermercato scendemmo tutti. O meglio, quasi tutti. Suso no, rimase in macchina.
Presi il carrello.
Ela restò con me, mentre gli uomini ci precedettero puntando dritto agli scaffali degli alcolici. Davanti al banco del pane s’imbatté in Sara, la sua amica italiana incontrata un paio di mesi addietro proprio in quel supermercato.
Si salutarono e l’italiana con un sorriso radioso le chiese:
«Sei in dolce attesa?».
«No», rispose Ela a voce smorta.
Al che l’amica mi lanciò uno sguardo che avrebbe incenerito un toro. Il tacito significato di quell’occhiataccia era lampante: ‘‘Brutto porco, adesso la fai pure abortire’’.
Non avevo mai sfiorato Ela neanche con un dito. Ma sarebbe servito spiegarlo a quella donna? Tra me e me, ci risi su.
E comunque quel pancione, i primi di settembre, si sgonfiò come d’incanto.
(7 – Continua)

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