La storia, si dice, la scrivono i vincitori. Di sicuro la storia dell'unità d'Italia, il cosiddetto risorgimento, è in gran parte frutto della propaganda sabauda. Un frutto non propriamente veritiero, ma di cui ciò malgrado ancora oggi quasi tutti continuano a cibarsi. Mentre invece una descrizione dettagliata degli avvenimenti accaduti, basata soltanto su fonti documentali, sfata i miti dell'epopea risorgimentale tanto cara ai testi scolastici.
Per fortuna anche in campo storiografico il progresso è possibile, consentendo la correzione degli errori. Ne è prova il recente volume, edito da Magenes e a firma di Patrizia Morlacchi, intitolato "L'assalto alle Due Sicilie" e sottotitolato "La riduzione del Mezzogiorno a colonia interna".
E' pur vero che Patrizia Morlacchi gode meritata fama d'essere autrice di romanzi gialli, quali "La tela di Sant'Agata" e "Hanno ammazzato il guercio", però la sua attenzione per il risorgimento non è di fresca data. Risale infatti al 2011 la pubblicazione di "Caro Macchi... Palermo 1860", nel quale ha raccontato le vicende di Agostino Depretis nelle vesti di prodittatore di Sicilia. La sensibilità della giallista per l'unità d'Italia costituisce pertanto un elemento costante dei propri orizzonti culturali. Possiede dunque tutti i numeri per parlarne con competenza.
I fattori che condussero il piccolo regno di Sardegna a trionfare nelle campagne militari e politiche del 1859 e 1860 vengono con minuzia indicate da Morlacchi. Viene innanzitutto presa in considerazione la luciferina abilità del conte di Cavour, primo ministro dello stato sabaudo, uno statista tanto spregiudicato da perseguire gli scopi prefissi con qualunque mezzo, sporco o raramente pulito che fosse. Né viene dimenticato il carisma di Giuseppe Garibaldi, il celebrato comandante dell'impresa dei mille, cui si contrappose l'inesperto ventitreenne Francesco II di Borbone, meglio noto come Franceschiello, ultimo sovrano del regno delle Due Sicilie, mal sostenuto da vertici politici e militari di scarsa competenza e troppo spesso infedeli, per di più osteggiato da Francia e, soprattutto, Gran Bretagna, potenze sostenitrici del Piemonte.
L'isolamento diplomatico del regno del sud, bisogna sottolinearlo, giocò un ruolo decisivo. Il re Ferdinando II di Borbone, ossia il papà del succitato Franceschiello, che regnò dal 1830 al 1859, in politica estera aveva sempre mantenuto la più stretta neutralità. Né nelle guerre carliste in Spagna, né tanto meno nel caso della guerra di Crimea, aveva voluto in un modo o nell'altro compromettersi, suscitando l'ostile irritazione dei governi di sua maestà britannica. Gli inglesi avevano inoltre con lui il dente avvelenato perché aveva cercato di privarli della concessione dello zolfo estratto dalle miniere siciliane, tentando vanamente di cederla a una società francese per ricavarne una rendita superiore. Una linea politica, insomma, diametralmente opposta a quella di Cavour, che alla guerra di Crimea aveva partecipato eccome, ricevendone vantaggi smisurati. Cioè, impadronirsi dell'Italia. O almeno, di quasi tutta.
Patrizia Morlacchi c'invita a non tralasciare il motivo vero che spinse il governo di Torino a mettere occhi e mani sul regno borbonico. La situazione finanziaria del regno di Sardegna era disastrosa, con un pesante debito pubblico, piazzato a tassi d'interesse superiori a quelli degli altri stati italiani, al quale si aggiungeva persino un forte indebitamento con i famigerati banchieri Rothschild. All'opposto le finanze pubbliche del regno delle Due Sicilie erano sane. Per esprimersi in soldoni, l'oro di Napoli faceva gola. E ciò spiega in fin dei conti perché la conquista piemontese ebbe effetti nefasti sull'economia del Mezzogiorno.
La propaganda sabauda ha sempre raffigurato un sud arretrato e povero, per non dire addirittura straccione, contrapposto a un nord già industrializzato e quasi prospero. In altre parole, la sventurata "questione meridionale" sarebbe stata una caratteristica congenita del meridione, comunque preesistente all'unificazione. Nulla di più falso.
La situazione economica delle Due Sicilie non era affatto peggiore di quella del resto d'Italia. L'industria siderurgica e quella cantieristica, solo per fare un paio d'esempi, erano invidiabili e davano lavoro a migliaia di addetti. La flotta mercantile era una delle maggiori d'Europa. L'emigrazione era inesistente, al contrario di quanto verificabile al nord.
La tragedia economica del sud fu causata dalle conquista piemontese e dalla lunga guerra condotta per piegare la resistenza popolare. Contadina, per essere esatti. E fu così che agli inizi degli anni Settanta dell'Ottocento al sud non vi erano più industrie, ma in compenso più tasse e leva obbligatoria e per i poveri non rimaneva altro sfogo che l'emigrazione.
Sì, inutile tacerlo, "L'assalto alle Due Sicilie" racconta una storia amara. Però è di sicuro un libro che accresce la nostra consapevolezza su quegli eventi e ciò basta per sentire il bisogno di leggerlo.