Da qualche tempo il noto femminista, nonché ex senatore, nonché ex cavaliere del lavoro, nonché mai pago d’essere ormai avviato su un malinconico viale del tramonto, propone d’introdurre nel nostro ordinamento costituzionale l’elezione diretta del capo dello stato.
A tanti sembrerà la solita idea più o meno strampalata tipica del personaggio in questione, ma da un punto di vista squisitamente tecnico non è affatto così, perché l’attuale carta già configura un sistema che potremmo a ragione definire semipresidenzialismo all’amatriciana.
«Ma come», esclamerete voi, «se in tutti i manuali di diritto costituzionale, come pure sui foglietti dei baci Perugina, c’è scritto che il nostro è un sistema parlamentare!».
A parte il fatto che il nostro è un sistema parlamentaristico, non parlamentare, e dunque lontano mille miglia dal modello Westminster, cioè quello britannico, ma vi basterà confrontare la nostra costituzione con quella francese del 1958 per scoprire che tra le due, per quanto riguarda le potestà del capo dello stato, esiste una sola differenza.
Quale?
La norma contenuta nell’articolo 9 della costituzione francese – ‘‘Il presidente della repubblica presiede il consiglio dei ministri’’ – che nella nostra manca. Tutto il resto, per quel che concerne monsieur le président e il signor presidente, è identico. Eccetto il fatto non insignificante, è chiaro, che in Francia a eleggere il presidente provvede l’intero corpo elettorale con suffragio diretto, mentre da noi lo si fa con suffragio indiretto.
Ergo, il nostro è un semipresidenzialismo all’amatriciana.
Di questa situazione non ci dobbiamo per niente meravigliare. La carta repubblicana entrata in vigore il primo gennaio 1948, per quanto attiene a funzioni, potestà e rapporti degli organi politici statali (parlamento, governo, capo dello stato), è una copia quasi perfetta dello statuto albertino. L’unica differenza tra la costituzione e lo statuto è che nella carta oggi in vigore non viene espressamente indicata una norma al contrario presente all’articolo cinque della vecchia carta: ‘‘Al re solo appartiene il potere esecutivo’’. Ma è un dettaglio insignificante, poiché il presidente della repubblica detiene, come deteneva il re, i poteri di controfirma sui decreti e i disegni di legge governativi. Ciò significa, tradotto in un linguaggio adamantino, che il presidente ha in pugno il governo e può condizionarne a piacere l’azione.
Aperta parentesi. A uso e consumo dei pedanti aggiungerò che il re aveva inoltre sulle leggi un assoluto potere di sanzione. Poteva cioè a sua discrezione promulgarle o meno, mentre al presidente è data facoltà di rinviare con messaggio motivato una legge alle camere. Se però il parlamento gli ripropone lo stesso testo è tenuto a promulgarlo. Oltre a ciò, va ricordato che a suo tempo il senato era per intero di nomina regia, adesso invece il presidente può nominare soltanto cinque sentori a vita. Chiusa parentesi.
I pilastri del sistema delineato dallo statuto albertino erano il parlamento e il capo dello stato, con al centro il governo, politicamente responsabile nei riguardi del parlamento e strattonato di qua e di là dalle camere e dal re. La costituzione repubblicana ha riprodotto, al millimetro, il medesimo schema.
Il parlamentarismo nostrano si differenzia quindi in maniera eclatante dal modello parlamentare Westminster, i cui pilastri sono il parlamento e il governo. Se volessimo imitare il sistema inglese dovremmo riscivere la costituzione da cima a fondo e, soprattutto, dovremmo abrogare il quarto e quinto comma dell’articolo 87, che conferiscono al presidente i poteri di controfirma sui disegni di legge e sui decreti governativi, lasciandogli solo la prerogativa di promulgare le leggi. In un paese culturalmente e politicamente reazionario come l’Italia, incapace persino di abolire le province come Dio comanda, ciò non avverrà mai.
Sarebbe pertanto più agevole correggere il nostro semipresidenzialismo all’amatriciana e farne un semipresidenzialismo tout court, alla francese. Basterebbe una piccola modifica all’articolo 83 della costituzione, che disciplina appunto l’elezione del presidente. Non sarebbe nemmeno indispensabile obbligare il capo dello stato a presiedere il consiglio dei ministri, i quali potranno continuare a recarsi loro stessi al Quirinale per far firmare le scartoffie e ricevere le insindacabili disposizioni, così come avveniva ai tempi del re e come avviene tutt’ora.
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