sabato 27 luglio 2013

I miei bambini

Sua figlia si addormentò. Le vedeva il visino pallido adagiato sul cuscino. La bambina aveva dodici anni e la sorte era stata cattiva con lei: poliomielite.
Maria guardò l’ora - le cinque - e pensò che in quel momento suo marito usciva dalla fabbrica, giù al paese. Pensò che avrebbe dovuto cucinarsi da sé o andare in trattoria. Lei invece quella sera sarebbe tornata alla pensione e non avrebbe cenato. Non ne aveva voglia.
Di nuovo le risuonarono nella mente le parole del primario: «Sua figlia rimarrà zoppa. Inutile farsi illusioni».
E quando lei si era accasciata sulla sedia e aveva pianto, il primario aveva aggiunto che gli dispiaceva e poi era andato via con il suo assistente. Era stata una notizia tremenda e le sarebbe piaciuto dimenticarla e credere che il male non avrebbe lasciato tracce sul corpo di sua figlia.
*
La signora bionda entrò in camera, salutò e si mise a sedere vicino al letto del bambino. Il bambino poteva avere dieci anni, o anche meno. Aveva gli occhietti celesti e i capelli ricci. La signora bionda, che era sua madre, aveva portato una busta di plastica. Nella busta c’erano succhi di frutta, cioccolatini, biscotti, che sistemò sul comodino.
Maria osservò la donna. Era avvenente, aveva gli occhi verdi e indossava una pelliccia. Era gentile e veniva a trovare il figlio ogni giorno, ma non rimaneva più di mezz’ora. A un certo punto lanciava un’occhiata all’orologio e diceva che era tardi e che aveva da fare. Dava un bacio al figlio. Salutava Maria, la bambina e usciva.
Il ragazzino frignava per qualche minuto, ma poi si rassegnava. Passava il tempo leggendo i fumetti o parlando da solo. Si divertiva con alcuni suoi amici immaginari - uno di nome Flic e un tale di nome Floc - e faceva molte cose con loro. A volte pilotavano aeroplani da guerra, o corteggiavano bambine celebri per la loro bellezza, o si davano alla pesca di squali al largo delle coste australiane. Era un bambino intelligente, era un bambino con molta fantasia.
La madre, oltre a essere bella, era sempre elegante. Quando parlava era un piacere ascoltarne la voce melodiosa. Si truccava con discrezione e sorrideva con facilità. Un sorriso breve e nervoso.
Maria non apprezzava il modo in cui si comportava con il figlio. Era come se non le importasse che il bambino stava lì, in una clinica specializzata nella cura di quell’orribile malattia dal nome flautato.
La signora si rivolse a Maria, additando il letto della bambina.
«Dorme?».
«Sì».
«È proprio un tesoro. Questo birichino invece…».
«Perché? È tanto buono».
«Buono? Ma se appena provo ad allontanarmi», scherzò, «attacca subito con le lagne».
«La vuole avere vicina».
«Già, tutti mi vogliono avere vicina. Sì, anche gli altri. I miei bambini che sono a casa, voglio dire».
La signora scartò un cioccolatino e lo porse al figlio e Maria disse fra sé che un bambino lasciato solo tutto il giorno aveva il diritto di volere la mamma accanto. Quel tipo di donne Maria non le capiva. Non capiva come si potesse vivere con l’anima in pace e un figlio poliomielitico all’ospedale, come si potesse desiderare di apparire belle ed eleganti e nello stesso tempo avere un figlio che rischia di rimanere storpio.
Il silenzio era più fastidioso della conversazione e Maria domandò all’altra quanti anni avessero i suoi figli.
«La prima, è una femminuccia, ne ha tredici. Flavio ne ha undici, due in più di questo birichino qui».
«Sono grandicelli».
«Sì. Vorrei che anche lui», e fece un cenno verso il letto dove suo figlio sfogliava un album di Paperon de’ Paperoni, «stesse a casa, insieme ai fratelli. Li avrei tutti e tre sotto gli occhi e sarei più tranquilla».
«Ma deve essere curato. Per mia figlia non ci sono più speranze, l’ha detto oggi il primario, ma per suo figlio è…».
«Oh, mi dispiace. Peccato, una bambina così graziosa».
«Niente da fare, purtroppo. Ma per suo figlio è diverso, in questa clinica hanno risolto casi gravissimi, ho sentito».
«Io non ho fiducia, non ho più fiducia. Prima i medici mi dicono qualcosa di definitivo e meglio è. Se fosse stato per me non l’avrei neanche ricoverato. È mio marito quello che crede nei miracoli, io ormai…». Si morse il labbro e scosse lievemente la testa. «Mi dispiace per sua figlia. Peccato, è così carina».
«Grazie. Mi ha fatto male sapere che tutto era inutile, che tutto era…», e Maria alzò sconsolata le mani dal grembo.
«Oh, sì, l’immagino. Peccato, quanto mi dispiace».
«Ma lei perché dice così? Suo marito ha ragione. Io non mi pento di essermi illusa. La speranza aiuta».
«Al mio posto non lo penserebbe», disse la donna, prendendo la pelliccia dalla sedia.
Maria si arrabbiò un po’. “Al mio posto non lo penserebbe. Di’ piuttosto che non t’importa niente di tuo marito e di questo povero piccolo. Di’ piuttosto che devi correre a un ricevimento, o a una sfilata di moda, o al teatro”.
«Ora devo andare. Tu fa’ il bravo e non disturbare la signora», diceva la bionda al bambino e gli sbaciucchiava le guance.
«Ma no, mamma, resta un altro poco».
«Devo andare, caro. Non aver paura. Se hai bisogno di qualcosa, suona all’infermiera. Domani verrà anche papà e dirà al dottore che deve guarirti presto presto e tu tornerai a casa con Marta e Flavio. Va bene? Ma ora fa’ il bravo e sta’ quieto». Lo baciò ancora e si rivolse a Maria, per salutarla: «Buona sera, signora, ci vediamo domani. Io devo proprio andare, a casa ho gli altri due che mi aspettano. Sono pure loro poliomielitici».
*
Quella notte, nella camera della pensioncina, Maria pianse. Anche suo marito, sul letto della casa solitaria, giù al paese, pianse. Maria gli aveva detto per telefono come stavano le cose.
Maria, quella notte, ripensò a lungo alla signora bionda e ai suoi figli poliomielitici. Avrebbe voluto avere un po’ del suo coraggio.



giovedì 18 luglio 2013

Euro sì, euro no

Tra teoria e pratica c’è sempre il solito abisso. In economia, poi, tra universo teorico e realtà il più delle volte non esiste alcun legame. Gran parte delle teorie economiche – in particolare le sedicenti ‘‘teorie pure’’ – sono infatti normative, non esplicative. Vale a dire che prefigurano un mondo desiderato, anziché cercare di descrivere e spiegare il mondo vero. Insomma, la teoria economica è parente stretta dell’ideologia politica. Dietro la cortina fumogena di equazioni e grafici si nasconde in realtà il sostegno alle ideologie stataliste o, se si è schierati dall’altra parte, a ideologie antistataliste, con un’ampia gamma di preferenze intermedie tra i due opposti. Si rintraccia sempre, implicito nelle teorie economiche, un giudizio di valore.
Ciò rende l’analisi economica, per chi non ama barricarsi dietro patetiche pretese di scientificità, un po’ imbarazzante. Perché tutto si riduce, alla fin fine, a esprimere opinioni personali. E le opinioni enunciano ciò che secondo noi sia giusto o ingiusto, anziché affermare cosa sia vero e cosa sia falso.
Per tale ragione su uno stesso argomento i pareri degli economisti il più delle volte divergono in maniera impressionante. Se ne trovate due che condividono una stessa idea vuol dire che appartengono alla medesima parrocchia.
Una prova delle divergenze dottrinali ce la offrono in questi anni tormentosi i pasticci causati dall’euro. La cronaca è nota. Alcuni paesi dell’eurozona, in primis l’Italia, persa la sovranità monetaria perché entrati nella moneta unica, devono accrescere la pressione fiscale, facendo così salire la disoccupazione, nella speranza di non perdere del tutto la fiducia dei sottoscrittori di titoli del debito pubblico, senza i quali non avrebbero alcuna speranza di pareggiare i buchi di bilancio.
Alcuni propongono come soluzione l’uscita dall’euro. Altri considerano folle un’ipotesi del genere. Nella disputa non ho alcuna intenzione d’infilare il becco, preferisco infatti attenermi alla realtà nuda e cruda. E la nuda realtà è chiara. La necessità – e parlo, si badi, di necessità, non di semplice possibilità – di sganciarsi dall’euro è tutt’altro che inverosimile. Conviene pertanto progettare il miglior modo per farlo.
Qualcuno già ci ha pensato. Posto che uscire dall’euro con una conversione appare poco fattibile, in quanto i trattati non ne prevedono, per gli stati aderenti, neppure la facoltà, a meno che non vogliano andar via anche dall’Unione Europea, per riacquistare di fatto la sovranità bisogna sganciarsi dalla moneta unica e formalmente rimanervi.
Il piano elaborato da Warren Mosler, uno dei più brillanti neocartalisti, esponente cioè della cosiddetta Modern Money Theory, e Philip Pilkington, un giornalista irlandese, rispetta entrambe le condizioni.
Suggeriscono che uno stato in difficoltà, dal momento che gli è sempre più difficile indebitarsi a tassi d’interesse sostenibili e la Bce non può finanziarlo con lo scoperto di tesoreria o tramite l’acquisto dei titoli alle aste, provveda semplicemente a emettere biglietti del tesoro con i quali pagare le sue spese e, per renderli ben accetti alla collettività, riscuotere con essi le tasse al posto dell’euro.
Al fine d’impedire la fuga di capitali tutti i contratti già posti in essere tra privati, inclusi i depositi bancari, rimarrebbero denominati in euro e l’euro potrebbe continuare a circolare insieme ai biglietti del tesoro. Si verificherebbe in sostanza una concorrenza tra le due monete, libere entrambe di circolare all’interno della stessa nazione, un po’ come von Hayek suggeriva tanti anni fa. Naturalmente la legge di Gresham (la moneta cattiva scaccia la buona) opererebbe a tutto spiano e ognuno preferirà tenere in deposito gli euro e usare i nuovi biglietti per gli acquisti. Il tasso di cambio tra le due valute lo deciderà il mercato. Se lo stato si farà prendere dalla frenesia tipografica e stamperà i nuovi biglietti a ritmi frenetici, di sicuro la parità con l’euro andrà a farsi benedire a velocità pari se non superiore.
Gli unici contratti preesistenti da convertire nella nuova moneta, altrimenti l’intera operazione non avrebbe senso, sono quelli relativi alle obbligazioni pubbliche. Lo stato dovrà dichiararsi disposto a pagare alla scadenza i titoli del suo debito solo ed esclusivamente con la nuova valuta e sempre a un tasso di uno a uno con l’euro, salvo riservarsi il diritto di rinegoziare il debito.
In fin dei conti, come si vede, la soluzione ai disastri provocati dalla moneta unica esiste. Se l’opinione pubblica ne fosse sufficientemente informata diventerebbe difficile, per i governanti, non attuarla.




sabato 13 luglio 2013

Lavorare meno lavorare tutti

Chi mi conosce sa che ho una miriade di difetti. All’occorrenza so rendermi estremamente odioso e immagino sia questo il difetto che i miei conoscenti considerano il peggiore. Personalmente non lo valuto per niente grave. A mio parere il più serio è un altro.
Non possiedo una sfera di cristallo.
Se ne avessi una potrei prevedere il futuro. Azzeccherei tutti i terni, tutte le quaterne e tutte le cinquine di ogni ruota e nel giro di poche settimane diventerei ricco sfondato. Investirei i soldi così sapientemente guadagnati in vizi e stravizi. Ossia, per essere meno generici, in belle donne. L’unica attività spirituale degna di un uomo consiste infatti nel donarsi anima e corpo alla dea Venere.
Malgrado questa carenza vi sono però alcune fatterelli che riesco anch’io a prevedere. Se un governo attua per esempio politiche economiche procicliche – ossia quelle misure che peggiorano le condizioni del settore privato senza apportare benefici alla finanza pubblica – mi è facile prevedere che il numero dei disoccupati crescerà.
I soliti spiritosoni, sghignazzando, coglieranno subito la palla al balzo per canzonarmi: «Capirai che mago! Qualunque idiota è capace di fare una previsione del genere».
Verissimo, sta però il fatto che i paesi dell’Europa mediterranea, compresa quell’espressione geografica, nonché, secondo l’eminente giudizio del principe Metternich, sedicente Italia, adottando politiche economiche procicliche stanno distruggendo le loro economie e gettando in mezzo alla strada milioni di persone.
Se i governanti dei citati staterelli mediterranei dovessero per miracolo rinsavire, toglierebbero ai loro popoli il cappio che gli hanno infilato al collo riacquistando la sovranità monetaria o battendosi per modificare lo statuto della Bce, al fine di consentirle di finanziare gli stati, come fanno tutte le banche centrali degne di questo nome. L’uno come l’altro sono presupposti indispensabili per poter mettere in campo misure anticicliche che consentano di ridare fiato alle economie dissestate e riassorbire la disoccupazione.
Ma se, come pare altamente plausibile, i governanti non dovessero rinsavire, non resta, quale ultima spiaggia, che un’unica soluzione: ridurre l’orario di lavoro.
Insomma, lavorare meno per lavorare tutti.
Non si creda che si tratti di una trovata strampalata. Da circa un secolo nei cosiddetti paesi sviluppati l’orario di lavoro è sceso a otto ore giornaliere e a tale livello si è grasso modo assestato. Nel frattempo la produttività, vale a dire il valore della produzione per addetto, è aumentata in misura consistente. Il presupposto fondamentale per ridurre l’orario di lavoro, dunque, non manca e appare irrazionale non agire di conseguenza.
In secondo luogo, a partire dagli anni Settanta del secolo passato il pieno impiego pare sia diventato una chimera. Pur nei periodi di vacche grasse, infatti, il tasso di disoccupazione sembra non voler mai scendere, nel migliore dei casi, al di sotto del 3-4%. Qualcuno, al riguardo, parla di disoccupazione ‘‘strutturale’’. Risulta difficile ritenere che in quella percentuale non proprio insignificante si raggruppino solo gli scansafatiche.
Ergo, le buone ragioni non scarseggiano.
Ogni medaglia ha però il suo rovescio. La riduzione dovrebbe avvenire a paghe orarie invariate, altrimenti gli effetti positivi sul tasso di disoccupazione subirebbero il contraccolpo dell’aumentato costo del lavoro. Ciò significa che le paghe mensili di chi attualmente lavora dovranno per forza di cose ridursi.
Tuttavia, chi adesso non lavora e non guadagna disporrebbe di un reddito da spendere. Gli effetti sui consumi, e quindi sulla domanda aggregata, sarebbero perciò positivi. L’economia, in altre parole, tornerebbe a crescere.
Scusate se è poco.



lunedì 8 luglio 2013

Il lavoro che non c'è

Magari a tanti non importa un emerito fico secco, me ne rendo perfettamente conto, ma qualcuno potrebbe, per pura curiosità intellettuale, domandarsi se la disoccupazione di massa deve essere accettata come un’insindacabile imposizione della sorte o se invece esiste la possibilità di contrastarla.
La risposta al quesito, da un punto di vista teorico, è facilissima. E poiché considero la crescente disoccupazione come il sistema più brutale per peggiorare la distribuzione del reddito, è mia opinione che bisogna essere pronti a stipulare patti con il diavolo, per dir così, pur di creare un posto di lavoro.
Per riuscirci in tempi rapidi andrebbero fatte due cose. Primo abbassare di colpo la pressione fiscale del 10-15%. Secondo, bloccare la dinamica salariale.
La riduzione delle imposte deve essere consistente perché il sistema economico ha bisogno d’un colpo d’ariete per invertire il ciclo e far lievitare consumi, risparmi, investimenti e, quindi, domanda di lavoro.
I salari, almeno agli inizi, vanno tenuti fermi, altrimenti gli effetti positivi del calo dell’imposizione fiscale sul tasso di disoccupazione verrebbero in parte sviliti. Ma ciò non sarà sentito dai lavoratori come un sacrificio, per la semplice ragione che una riduzione delle aliquote delle imposte dirette accrescerà il loro reddito spendibile e la riduzione delle aliquote delle imposte indirette determinerà una relativa discesa dei prezzi, facendo così salire, a parità di reddito nominale, i loro redditi reali. Una volta che il percorso verso il pieno impiego prende consistenza, anche i salari potranno naturalmente salire a un tasso inferiore o pari all’aumento della produttività.
Vi è però un piccolo problema. Proposte di politica economica teoricamente risolutive, inclusa quella appena illustrata, non sono in pratica attuabili. L’Italia, infatti, aderendo all’unione monetaria europea ha perso la facoltà di stampare moneta e non sarà in grado di finanziare il più ampio deficit pubblico provocato nell’immediato dal minor gettito dovuto alla riduzione delle aliquote. Né appare plausibile che il buco di bilancio possa essere coperto dal debito pubblico, giacché i giudizi delle agenzie di valutazione peggiorerebbero e il servizio del debito diverrebbe perciò insostenibile.
La lezione da trarne è chiara. O si riacquista la sovranità monetaria oppure si riscrive il trattato di Maastricht per consentire alla Banca centrale europea di finanziare gli stati con lo scoperto di tesoreria o con l’acquisto dei loro titoli alle aste.
Comunque, né l’una né l’altra cosa si verificheranno mai. La seconda non la vogliono i tedeschi. La prima non la vogliono i governanti dei paesi in crisi. Sognando il pieno impiego, ci resta pertanto una sola speranza: che la dea bendata ci regali una lunga e deprimente stagnazione. E’ il massimo di ottimismo possibile. Ma forse è pure questa una speranza irrazionale. Nulla ci vieta infatti di prevedere che anche da noi la disoccupazione raggiunga quanto prima percentuali greche e spagnole.
Abbiamo voluto la moneta unica?
Arrangiamoci.



venerdì 5 luglio 2013

La strategia del grillo

Da svariate settimane tra i sostenitori e simpatizzanti del compagno Gargamella una domanda sorge e risorge spontanea: perché grillo sparlante non ha fatto il governo con noi, perché ci ha costretti a replicare l’incestuosa alleanza con il noto femminista?
La risposta è banale. Grillo sparlante, fatti due conti, ha preferito così.
Non posso a questo punto sottrarmi all’obbligo, morale e logico, di chiarire il significato dell’inciso ‘‘fatti due conti’’, da me inserito senza alcun intento sibillino.
I conti si fanno con i i numeri e i numeri usciti dalle urne dopo la tornata elettorale del 24 e 25 febbraio 2013 erano di due tipi: ovvi da un lato, sorprendenti dall’altro.
La fazione guidata dal compagno Gargamella ha ottenuto il 29,54%, mentre quella capitanata dal noto femminista il 29,13%. Sostanzialmente, un pareggio, come era nelle attese. Alla camera, comunque, quell’unghia di consensi in più ha consentito al compagno Gargamella di papparsi il premio di maggioranza. Non così al senato, per effetto della diversa modalità di calcolo del premio. Non a caso il compagno Gargamella durante la campagna elettorale aveva programmato, al senato, di ricorrere alla stampella del neopartitucolo montiano. Sogno che è stato punito dagli elettori con una sonora pernacchia.
Altri sono stati invece i risultati importanti. Primo, un quarto degli elettori ha disertato il voto. Secondo, i cri cri hanno registrato il 25,55% dei consensi, cifra da nessuno prevista.
Per un paio di giorni, come si ricorderà, grillo sparlante rimase abbottonatissimo, ritirandosi a confabulare in separata sede con il suo guru telematico. Riemerse dai segreti colloqui avendo in testa una precisa strategia operativa, quella del ‘‘tutto o niente’’. Tradotto in soldoni: non appoggeremo un governo diretto dal compagno Gargamella.
Molti, e tra questi tanti cri cri, si aspettavano il contrario. Con ogni probabilità, se grillo sparlante avesse raccolto una messe meno imponente di voti, avrebbe accontentato il Gargamella, per la semplice ragione che gli sarebbe convenuto. Ma con un bottino pari al 25,55% allearsi con un mezzo perdente significava sputare in faccia alla fortuna. Meglio attendere con un po’ di pazienza il sicuro aumento dei disoccupati, inevitabile grazie alle politiche economiche procicliche imposteci da Frau Merkel, e sbaragliare al prossimo giro i concorrenti. In politica, come nello sport, partecipare è facoltativo. Obbligatorio è vincere.
La strategia del ‘‘tutto o niente’’ ha un precedente storico di grande rilievo. In Germania, alle elezioni del luglio 1932, Adolf Hitler conquistò, con 230 seggi, la maggioranza relativa al Reichstag. Il cancelliere Franz von Papen gli offrì la carica di vice-cancelliere, nonché alcuni ministeri per i suoi tirapiedi. Il caporale austriaco rispose di no, pretendendo per sé la poltrona più ambita. A novembre si tornò di nuovo al voto e stavolta i nazisti persero 34 seggi, pur rimanendo il primo partito. Von Papen rinnovò al caporale il suo invito, ricevendo un altro no, benché tra i nazisti non mancasse chi avrebbe invece preferito acconsentire, in base al noto principio etico secondo il quale è meglio qualche poltrona che nessuna poltrona.
Von Papen si dimise e il presidente von Hindeburg nominò al suo posto Kurt von Schleicher che, per ottenere l’incarico, non se ne era certo stato con le mani in mano. Ma a Franz von Papen l’aver perso la poltrona rodeva non poco. Il 4 gennaio del 1933 s’incontrò con Hitler, proponendo di formare un governo composto da nazisti e conservatori. Il caporale non si dichiarò contrario, purché cancelliere del nuovo governo fosse lui. Il 18 gennaio ci fu tra i due un nuovo incontro, neanche questo però terminò con un accordo, dato che ambivano entrambi alla poltrona più prestigiosa. Il 22 gennaio si videro ancora e Von Papen, stavolta, si dichiarò disposto ad accettare per sé la carica di vice-cancelliere, lasciando al caporale austriaco la guida del futuro governo. Il 30 gennaio, come si sa, il caporale giurò da cancelliere davanti al presidente Paul von Hindenburg.
Che la strategia del ‘‘tutto o niente’’ possa oggigiorno risultare fruttuosa anche per i cri cri appare un’ipotesi tutt’altro che bislacca. L’unica condizione che dovrà verificarsi affinché ciò avvenga consiste nell’aggravarsi della crisi economica. In tal caso l’attuale governo formato da cani e gatti pagherà, in termini elettorali, lo scotto per non aver saputo invertire il ciclo economico e grillo sparlante innalzerà così il vessillo della vittoria. Se c’è riuscito a suo tempo un caporale, perché ora non dovrebbe riuscirci pure lui?