sabato 22 dicembre 2012

Confessioni d'autore


Il romanziere, come sappiamo, mette la propria fantasia a disposizione dei lettori. Vive, con l’immaginazione, esperienze che la vita ci nega, oppure racconta esperienze, sia felici sia drammatiche, da lui vissute, o che magari gli sono state riferite, e le trasmette agli altri attraverso la parola scritta. Se la sua penna funziona, i lettori, scorrendo il testo con gli occhi, quelle esperienze le rivivranno anche loro.
Il fine della narrazione è suscitare emozioni e far riflettere. Obiettivo impossibile da raggiungere se l’autore non viene in prima persona emotivamente coinvolto in ciò che scrive. Se un evento, un argomento o un personaggio non catturano il suo interesse, non sarà mai in grado di accendere nelle menti altrui la scintilla che stuzzica la curiosità e invoglia a leggere.
Se i romanzi e i racconti hanno lo scopo di realizzare, sia pure attraverso l’immaginazione, desideri inappagati o mettere a nudo aspetti della realtà che ci circonda, la funzione ultima che lo scrittore, nolente o volente, finisce per svolgere è quella di ‘‘testimone’’.
Offre cioè una testimonianza dell’universo esistenziale nel quale è immerso e che condivide giorno per giorno insieme ai suoi simili. E questo universo comprende, ovviamente, sia i fatti reali che i desideri.
A qualcuno la mia tesi potrà sembrare errata. La fantascienza, per esempio, non ha nulla da spartire con la realtà. Il suo campo d’azione è il futuro. Un futuro che, in concreto, è frutto esclusivo della fantasia dei suoi autori. Pertanto gli scrittori di fantascienza non si possono e non si devono considerare dei testimoni. Raccontano vicende accadute in epoche e in mondi che non sono mai esistiti.
Ma in verità non è così. Il desiderio di conoscere e prefigurare il futuro lo abbiamo tutti. La fantascienza appaga questo desiderio e chi scrive storie ambientate nel futuro testimonia l’esistenza attuale ed effettiva di tale bisogno.
Quanto ho finora detto ha delle conseguenze inaspettate. Inaspettate soprattutto per gli scrittori. La loro brama d’essere e di apparire artisti che creano opere dal nulla subisce un sonoro schiaffo. Chiunque, potendo scegliere, preferirebbe presentarsi al pubblico nelle vesti di artista, anziché di semplice testimone.
Eppure le cose stanno così. Lo scrittore è senza dubbio un creativo, ma le parole che escono dalla sua penna gli sono alla fin fine dettate in larga misura dall’universo esistenziale nel quale è immerso e dalle esperienze che gli è toccato vivere. E’ per questa ragione se a volte, a chi mi chiede dove prendo lo spunto per i miei libri, rispondo con una battuta all’apparenza paradossale. Non è lo scrittore, dico, a scegliere le storie che vuole raccontare, ma sono le storie che scelgono lui.



mercoledì 5 dicembre 2012

Ah, che repubblica!


Quand’ero bambino e andavo alle elementari il maestro ci diceva: ‘‘Noi abbiamo la migliore costituzione del mondo’’.
Un assioma che ho condiviso con sincero fervore finché non andai all’università e studiai diritto costituzionale italiano e comparato.
Per me fu uno choc.
Il professore di diritto costituzionale era un intellettuale marxista e i testi sui quali dovevamo preparare l’esame erano il manuale e la costituzione della decaduta Urss.
Lo choc mi fu provocato dal confronto della costituzione sovietica con quella della repubblica italiana.
Quello sovietico era un sistema totalitario, ossia illiberale e non democratico. La sovranità, in buona sostanza, apparteneva al partito unico. O, se vogliamo esprimerci in termini un pochino più formali, ai lavoratori iscritti al partito. Lo stato, così come configurato dalla costituzione sovietica, altro non era che uno strumento in mano al partito per rendere concreta la realizzazione del socialismo.
In poche parole, nella costituzione sovietica – una costituzione, ripeto, propria di un sistema illiberale e non democratico – mancava del tutto il principio della superiorità etica dello stato. L’eticità era insita nella dottrina marxista, non nei principi costituzionali che sancivano struttura e funzionamento dello stato.
La nostra carta costituzionale – quella che alle elementari il mio maestro definiva ‘‘la migliore del mondo’’ – al secondo comma dell’artico quattro tuona invece in maniera perentoria: ‘‘Io, lo stato, indico a te cittadino quali sono i tuoi doveri morali e ti ordino di rispettarli’’.
Ossia, la nostra legge fondamentale si basa sul principio della superiorità etica dello stato, eredità culturale del precedente regime fascista.
Gli effetti sono paradossali. Abbiamo sì una repubblica democratica, dove si conquista il potere di governo, per una durata limitata, attraverso la competizione elettorale, e si garantiscono ai cittadini le libertà civili (libertà di voto, libertà d’espressione, libertà di manifestazione, libertà di fondare movimenti politici, ecc.), tuttavia non liberale.
Vale a dire che è lo stato che crea e forgia il cittadino, non sono i cittadini che creano e forgiano lo stato.
Non dobbiamo pertanto stupirci – o per lo meno non si stupiranno quanti di noi hanno viaggiato e vissuto all’estero – se il funzionamento della macchina statale in Gran Bretagna, Danimarca, Germania, Svizzera, Francia, Olanda, Austria e così via, sia di gran lunga più efficiente che non in Italia.
Uno stato non liberale è uno strumento di potere, non una struttura di servizio. La nostra repubblica, grazie alla carta costituzionale, rappresenta per i gerarchi di partito, di qualunque partito, una vera benedizione. Per i cittadini è invece qualcosa che costa molto e dà in cambio troppo poco.
Siamo infatti celebri nel mondo per la scadente qualità dell’azione dei pubblici poteri: carceri che scoppiano, lunghezza inusitata dei processi, aggressività perpetua della criminalità organizzata, città bellissime e sporche.
Come se ne esce?
Con un vigoroso sussulto dell’opinione pubblica, con una rafforzata sensibilità del corpo elettorale, cioè del popolo sovrano, che ha il pieno diritto di chiedere a gran voce le necessarie riforme costituzionali che trasformino la repubblica italiana in una democrazia liberale.



martedì 4 dicembre 2012

Il sangue e l'anima


C’è chi sostiene che scrivere non sia un mestiere ma un modo di vivere.
E’ un’affermazione estrema, d’accordo, esagerata. Tuttavia, non del tutto falsa.
Vediamo perché.
L’autore di romanzi e racconti è un artigiano, su questo non ci sono dubbi. Il suo lavoro consiste nel forgiare un genere molto particolare di materia per ricavarne testi capaci di catturare la mente e il cuore del lettore.
La materia è l’immaginazione. Le parole, invece, sono lo strumento.
E’ impossibile quindi negare che lo scrittore, come ogni altro artigiano, abbia innanzitutto il dovere di acquisire le abilità necessarie a usare lo strumento e maneggiare la materia. Per riuscirci ha bisogno di esperienza. Deve insomma impratichirsi nell’uso dei ferri del mestiere.
In altre parole, s’impara a scrivere scrivendo. L’apprendistato gli è indispensabile come lo è per il sarto, il fornaio, il muratore.
Qui però finisce ogni somiglianza con tutte le altre professioni.
Il narratore infatti non riuscirà mai a scrivere prosa accattivante da divorare con passione se non si lascia lui stesso coinvolgere in prima persona dalle vicende che racconta. Nessun autore riuscirà cioè ad avvincere i lettori se lui per primo non viene avvinto dalla materia che sta forgiando. Il suo coinvolgimento dovrà essere totale, altrimenti non avrà alcuna speranza di suscitare interesse. Deve metterci l’anima e il sangue.
Questa singolare caratteristica del prosatore – questa condanna, potremmo dire – rende unico il suo lavoro. Ed è in questo senso che scrivere diventa un modo di vivere.
Per meglio comprendere le mie affermazioni può forse essere utile riportare un esempio concreto. Uno dei più grandi geni letterari del XX secolo, Georges Simenon, confessò una volta in una intervista televisiva d’avere l’abitudine d’immergersi nei suoi personaggi in maniera assoluta. Perciò, se stava scrivendo di un malato di cuore, ne imitava durante la giornata i comportamenti. Ai figli la cosa non sfuggiva e chiedevano alla moglie: ‘‘Ma cosa succede a papà?’’.
‘’Niente’’, rispondeva lei, ‘‘sta scrivendo un romanzo con protagonista un malato di cuore’’.
Sì, serve il sangue e l’anima.



sabato 1 dicembre 2012

Un giornalista scomodo


Com’è risaputo, non sono un critico letterario e non sono pertanto in grado di scrivere recensioni. Inettitudine, lo confesso, che non mi ha mai sconvolto l’esistenza. Si dà pero il caso che abbia letto, con appassionato trasporto, “Un giornalista scomodo” (Aliberti, 2008), autobiografia dell’avezzanese d’adozione, e dunque mio conterraneo d’adozione, Gennaro De Stefano, scomparso il primo maggio 2008, e mi dolgo assai di non saperla recensire.
Il libro di Gennaro De Stefano non mi è semplicemente piaciuto. Mi ha emozionato. Mi ha commosso. E ha rinnovato in me l’aspra e vivida fierezza d’appartenere alla sana razza montanara abruzzese. Io infatti sono dell’Aquila, una città nel cui stemma s’erge una nera aquila arcigna, coronata dal motto “Immota manet”. E state certi che noi montanari d’Abruzzo, se il dovere e la dignità ce lo impongono, rimaniamo fermi e arcigni come il granito dei nostri monti sui capisaldi dell’onore e della verità.
Di Avezzano e della Marsica ho una buona conoscenza, a ragione del fatto che fino al 1969, anno della sua morte, vi abitava la mia nonna materna, fascinosa e volitiva signora dagli occhi verdi screziati di pagliuzze d’oro. Anch’io dunque, come De Stefano, ho giocato, insieme ai miei cuginetti, con i bigliardini dell’oratorio situato sotto l’abside della cattedrale dei Marsi, in piazza Risorgimento. Anch’io ho mangiato le fette di cocomero comprate dai venditori ambulanti che, per proteggerle dalle mosche, le esponevano in cassette dalle pareti di rete metallica. Anch’io, come De Stefano, ho viaggiato sulla Millecento di papà per le curve della statale ottantadue, fino a San Vincenzo Valle Roveto, comune confinante con Balsorano (eh, Balsorano, toponimo che avrebbe marchiato a fuoco la mente e la carne di De Stefano), dove la famiglia di mia madre ha la casa avita e i possedimenti terrieri, coltivati a ulivo.
E non solo ho una buona conoscenza dei luoghi, ma pure della gente. Posso perciò assicurarvi che i marsicani sono testardi e sanguigni, giusto come li ha raffigurati De Stefano, nelle cui pagine si riconoscono a occhi chiusi i contadini di Fontamara, nonché lo spirito caparbio di Luca – sì, il Luca siloniano di “Il segreto di Luca” – un impasto di onestà, sopportazione, senso dell’onore e sacrificio. Come anche balza agli occhi, immergendosi nelle pagine di “Un giornalista scomodo”, la fanatica arroganza della borghesia di provincia, specie della borghesia meridionale. E difatti noi aquilani, che di snobismo provinciale siamo imbevuti fino al midollo, tanto d’averne fatto una filosofia di vita, diciamo con grezza e puerile superbia che nel terremoto del ’15 ad Avezzano sono morti i marsi e sono rimasti i cani.
L’autobiografia di De Stefano, in tutta oggettività, si divora come un giallo di gran classe, e ciò grazie alla malizia affabulatoria dell’autore. Malizia che sgorga dal talento e contraddistingue gli scrittori di mestiere, quelli veri, capaci d’intingere la penna nel proprio sangue e nella propria anima. Ecco perché il libro non è soltanto “bello” ma, in un certo senso, “necessario”. Necessario per i lettori.
De Stefano, come i più ricorderanno, il 31 agosto del 1992 subì un’oscena carognata da parte di un pubblico ufficiale. Da parte di un soggetto, cioè, stipendiato da questa nostra repubblichina postfascista che mi dà spesso l’impressione, sotto certi versi, più d’essere figlia spuria della repubblichina di Salò che figlia legittima, come invece dovrebbe, del referendum del 2 giugno ’46.
Un poliziotto, per l’appunto, svolse in maniera criminosa le proprie funzioni d’ufficio e fece infilare cocaina nella macchina di proprietà della moglie del giornalista, il quale per combinazione vi si trovava alla guida. E tutto ciò perché quel giornalista, unica voce fuori dal coro armata soltanto d’intelligenza e professionalità, stava smontando l’indagine sul presunto mostro di Balsorano, il muratore Michele Perruzza, accusato dell’assassinio della nipotina di sette anni, Cristina Capoccitti. Risultato: il giornalista scomodo, immediatamente arrestato, passò due mesi al fresco. Mentre vari anni dovettero trascorrere prima che il sullodato “servitore dello stato”, artefice dello scherzetto da prete (pardon, volevo dire da vice ispettore ps), finisse condannato con sentenza irrevocabile.
De Stefano inizia a raccontarci di sé partendo da quel momento cruciale, per scendere poi a ritroso fino al matrimonio dei genitori e risalire via via agli episodi successivi d’una vicenda esistenziale densa di singolari esperienze, ora dolci ora amare, tutte affrontate, secondo la testimonianza della sua collega Antonella Amendola, con “l’animo di ragazzo mai cresciuto, che andava alla sfida della vita con baldanza ingenua e felice”.
E così, leggendone con gaio accanimento l’autobiografia, ci appassioniamo alle avventure d’un uomo che fu seminarista da ragazzino e funzionario del partito comunista da giovane, per diventare poi, in un incredibile e avvincente susseguirsi di attività, direttore sportivo in squadre di serie C, ristoratore, emigrante in Germania, venditore d’articoli per dentisti, giornalista e scrittore. Ne scopriamo gli amori, la frenetica sensualità tipica dei marsicani, i legami struggenti con i propri cari, le delusioni ideologiche, la malattia che lo avrebbe condotto alla morte e, last but not least, la passione viscerale, irrefrenabile, imperiosa per l’arte di scrivere, che lo ha reso, stando al competente parere del cronista investigativo Edoardo Montolli, “uno dei più grandi giornalisti italiani”.
Se la scrittura – e di conseguenza la lettura – è un processo di scoperta, De Stefano ha colto nel segno, mettendo a nudo lo squallore delle istituzioni pubbliche italiane. Istituzioni alle quali è possibile dare precisi nomi e precisi cognomi. Nomi e cognomi che Gennaro De Stefano, con sprezzante signorilità, ha evitato con cura di citare nel suo libro. Non vi viene infatti mai nominato né il patronimico del vice ispettore di polizia che lo inguaiò, né tanto meno vi si azzarda una qualche ipotesi su chi fosse stato il mandante. A pagina 289 appare comunque un brano rivelatore: “Un avvocato mi raccontò: ‘Qualche giorno prima che arrestassero il poliziotto, io ero nel corridoio della procura quando arrivò l’ex capo. Bussò alla porta della collega che indagava, impegnata in quel momento con un colonnello dei carabinieri. La donna magistrato non fece entrare l’ex superiore nella sua stanza, ma gli parlò sulla porta. Io potei udire distintamente le parole: ‘Tu mi hai insegnato a fare questo mestiere e io l’ho imparato. In questa circostanza so come mi devo comportare, non ho bisogno di consigli’. Quale fosse il consiglio o la richiesta non so dirtelo, però qualcosa era andato a chiedere”.
Ebbene, tale “ex capo” non è ignoto a nessuno. Tra l’altro, è un mio concittadino, ossia un aquilano di buonissima famiglia – tanto buona che nel basso medioevo i suoi avi possedevano, nei dintorni dell’Aquila, decine d’ettari di pascoli utili a nutrire sterminati greggi di pecore. Lo stesso individuo, cioè, che nel mio noir “Un buon sapore di morte” ho chiamato Lorenzo Nardis, cambiandogli di necessità il nome e le origini sociali, poiché mi disgusta, come avrebbe disgustato De Stefano, conferire fama letteraria ad antieroi tanto squallidi.
La sostanza intima, profonda, dei libri non è, come sappiamo, puramente estetica, o puramente tecnica, bensì etica. E l’eticità, nel libro di De Stefano, la si respira dalla prima all’ultima parola, dal primo all’ultimo rigo (p.es. v. a pag. 305: “Avevano vinto i garantisti, aveva vinto un giornalismo scomodo – ma qual è il giornalismo comodo? – e testardo e aveva vinto soprattutto una regola: quando si subisce un’ingiustizia non ci si deve rassegnare, si deve lottare fino in fondo utilizzando tutti i mezzi che il codice consente, anche quelli più remoti”), fino all’impeccabile finale, dove incontriamo uno scrittore, un uomo, che ha saputo morire con il sorriso sulle labbra, resistendo al cancro per sette lunghi anni di vita piena e laboriosa.
Sì, amici, “Un giornalista scomodo” è un signor libro, come se ne legge uno ogni cento, se non forse uno ogni mille, e mi piacerebbe vivere abbastanza da scriverne anch’io uno altrettanto bello. Nella vana attesa m’illudo, forse un giorno lontano, di riuscirci.



lunedì 26 novembre 2012

Contro la cultura bisbetica


Nel 2008 venni intervistato da un sito culturale. Dopo qualche mese di presenza quell’intervista scomparve dalla testata telematica. Ignoro le ragioni, ma ho un sospetto. A Natale il suo direttore m’inviò gli auguri. Gli risposi telegraficamente: ‘‘Grazie, altrettanto’’. Forse si aspettava qualcosa di più natalizio, con gli scampanellii, le palline colorate e una stellina splendente in cima all’albero.
La ripropongo qui – a casa mia, potrei dire – perché mette a nudo i miei gusti. Soprattutto le mie preferenze e le mie antipatie letterarie. E a me piace giocare a carte scoperte.

Un’intervista che è anche uno scambio di battute. Gabriele Damiani racconta di sé e del suo nuovo romanzo intitolato “Un buon sapore di morte”. La storia è ambientata a Civita, “fantomatico capoluogo della provincia abruzzese”, e ha per protagonista il commissario Mauro Alesi.

Mi racconti un po’ di lei e del suo approccio al mondo della scrittura.
«Sul mio conto non ho molto da dire. Sono abruzzese, nato cinquantadue anni fa a settecentoventi metri di quota, tale è infatti l’altitudine dell’Aquila. Mi è perciò naturale amare la cruda asprezza delle mie montagne e la loro stupefacente spettacolarità. Ho ricevuto dai miei genitori un’educazione impeccabile, grazie alla quale considero, affronto e mi godo la vita per quello che è, cioè una ruvida avventura. Ecco perché per me scrivere è così essenziale. Mettere nero su bianco, parola dopo parola, ciò di cui siamo testimoni, mettere nero su bianco le nostre come le altrui esperienze, rappresenta la più eccitante e godibile delle avventure. Non a caso a diciassette anni ero già cronista in un quotidiano di provincia, “Il Mezzogiorno d’Abruzzo”, che da decenni non si stampa più. In seguito sono stato, sia pure non contemporaneamente, imprenditore, consulente fiscale e professore di metodologia della scienza economica, finché mi sono arruolato, forse allo scopo d’imitare Ernest Hemingway, nel corpo militare della Croce Rossa, di cui sono ufficiale. Il primo racconto, intitolato “L’ultimo incontro”, lo scrissi nel 1971, quand’avevo quindici anni. È apparso qui e là innumerevoli volte, sia su riviste sia su internet. Anzi, la rivista “Il convivio” l’ha appena ripubblicato sul numero 34, Luglio-Settembre, di quest’anno. Ma il primo che riuscii a pubblicare fu “Il movente”, uscito inizialmente su “Inchiostro”, nel giugno del 1997, e poi, nel corso degli anni, su “Cambio”, su “Noialtri”, su “Universo”, su “Cronaca Vera” e su “Tonic Magazine”».

Quando e perchè ha iniziato a scrivere?
«Cominciai da ragazzino e il perché è presto detto. Lessi, nell’antologia di testo della prima media, “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque e ne rimasi commosso e sbalordito. Fino a quel momento avevo letto i libri di fiabe e gli albi di “Collana Eroica”. “Niente di nuovo sul fronte occidentale” fu il primo romanzo in cui m’imbattei, grazie al quale capii il valore stupefacente della prosa narrativa. Se la creatività umana era capace di arrivare a tanto, allora il massimo in assoluto cui potessi aspirare era diventare scrittore. E cominciai subito a darmi da fare per raggiungere lo scopo, intestardendomi a provare e a riprovare all’infinito per apprendere i rudimenti del mestiere».

In termini umani, cosa significa per lei scrivere?
«Graham Greene non si spiegava come facciano a non impazzire coloro che non svolgono un’attività creativa. È una domanda che mi pongo anch’io. E, in definitiva, se scrivo è perché bisogna pur far qualcosa per non impazzire. Dirò quindi che scrivo per non impazzire. A livello umano non mi sembra poco, se uno ci riesce».

Quali sono i libri che più l’hanno formata?
«Lessi, dopo Remarque, Malaparte, Pavese e Hemingway, e la loro mostruosa bravura mi lasciò letteralmente senza fiato. Se uno voleva imparare a scrivere, quelle erano le stelle polari».

Il libro più bello che ha letto negli ultimi tre anni?
«E lei ritiene che negli ultimi tre anni mi sia limitato a leggere un solo libro formidabile? No, no, no, sbaglia, e di grosso. Io amo leggere e ho avuto, negli ultimi tre anni, la strepitosa fortuna di trovarne e goderne in numero soddisfacente. In elenco, sono: “Un amore di zitella” di Andrea Vitali, “La signorina Tecla Manzi” di Andrea Vitali, “La figlia del podestà” di Andrea Vitali, “Il procuratore” di Andrea Vitali, “Olive comprese” di Andrea Vitali, “Il segreto di Ortelia” di Andrea Vitali, “La modista” di Andrea Vitali, “La tela di Sant’Agata” di Patrizia Morlacchi, “Il treno” di Georges Simenon, “Mi piaci da morire” di Federica Bosco, “Cercasi amore disperatamente” di Federica Bosco, “L’amore non fa per me” di Federica Bosco, “Un giornalista scomodo” di Gennaro De Stefano, “Il vizio” di Carmen Scotti e “L’ottava vibrazione” di Carlo Lucarelli. Inoltre ho riletto, perché è impossibile non rileggere di quando in quando i libri che si amano, “Addio alle armi” di Ernest Hemingway, “Fiesta” di Ernest Hemingway, “I quarantanove racconti” di Ernest Hemingway, “La fine dell’avventura” di Graham Greene, “La bella estate” di Cesare Pavese, “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia, “Una storia semplice” di Leonardo Sciascia, “Don Camillo” di Giovannino Guareschi, “Il segreto di Luca” di Ignazio Silone, “I Malavoglia” di Giovanni Verga, “La promessa” di Friedrich Dürrenmtt, “Il sospetto” di Friedrich Dürrenmtt e “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati. Ha la mia parola d’ufficiale che non ne ho dimenticato nessuno».

Ma lei cosa intende per “libro bello”?
«Un testo che conquisti il cuore e il cervello del lettore. Prosa che dia emozione e che faccia riflettere. Oh, non volendo le ho dato la migliore definizione possibile di opera narrativa, mi sa».

E quello che meno le è piaciuto?
«Il più brutto in assoluto che abbia letto da quando sono nato è “City”, di un certo Baricco Alessandro. Illeggibile e impubblicabile. E infatti sono riuscito, con tutta la mia santa pazienza, ad arrivare fino a pagina nove, poi l’ho buttato nelle fiamme del caminetto. Un altro superlativo esempio di non-romanzo, che la mia insaziabile curiosità mi ha spinto a leggere, mettendoci molti mesi, benché sia un libercolo di un centinaio scarso di paginette, è “Va’ dove ti porta il cuore”, scritto dalla nipote di Italo Svevo, giavanotta della quale, per carità di patria, non cito il nome. Un terzo cospicuo esempio di non-libro è “Spider”, scritto da un certo McGrath Patrick, finito pure quello in mezzo alle fiamme. Una pizza micidiale».

Qual è il rapporto con la sua regione e con la sua terra?
«È lo stesso rapporto che una pianta ha con il terreno dal quale spunta. Anche noi esseri umani in realtà abbiamo le radici, pure se non sembra. E le mie radici di aspro montanaro abruzzese forte e gentile affondano nella roccia dei miei Appennini, anche quando mi trovo a migliaia di chilometri di distanza».

Cosa le piace e cosa non le piace dell’editoria odierna italiana?
«Mi piacciono i miracoli. Chi avrebbe mai immaginato che in Italia potesse esistere un editore professionalmente tanto preparato da pubblicare il geniale Andrea Camilleri? Disprezzo, date tali premesse, l’incompetenza e il dilettantismo dei correttori di bozze, che adesso si fanno chiamare editor, all’americana. Chi avrebbe mai immaginato che potessero esistere correttori di bozze tanto incompetenti da rifiutare, per lunghissimi lustri, di stampare i libri del geniale Andrea Camilleri? Una casa editrice dovrebbe essere un’impresa commerciale e dovrebbe pertanto puntare alla massimizzazione dei profitti. E invece gli editori hanno in testa tutti i bernoccoli possibili e immaginabili, fuorché il bernoccolo degli affari. Chi vivrà riderà ancora a lungo».

Cosa le piace e cosa non le piace del panorama culturale italiano d’oggi?
Il cinema non vale una cicca, la grande stagione cinematografica è ormai morta e sepolta, l’unico cineasta oggi vivo è Giuseppe Tornatore, tutti gli altri sono puri simulacri. Il teatro non esiste. Idem la musica, ad eccezione di Ennio Moricone. Non parlo naturalmente della musica leggera, che a me non piace perché la trovo troppo pesante. L’architettura, malgrado goda di una sperticata pubblicità, fa sganasciare dalle risate. Va meglio per la pittura. Per la letteratura, al contrario, è un momento magico. Chi si sarebbe mai sognato che in un paese a basso livello d’istruzione come il nostro si potessero trovare nelle librerie i romanzi di Andrea Vitali, Andrea Camilleri, Federica Bosco, Gianrico Carofiglio, Carlo Lucarelli? Lassù qualcuno ci ama, viene quasi da pensare. Peccato però che io non sia credente».

Come è arrivato alla pubblicazione del suo lavoro?
«Grazie a “Il movente”. Sì, il racconto di cui le accennavo in precedenza, uscito la prima volta nel 1997 su “Inchiostro”. All’inizio di quest’anno lo inviai al premio letterario “Ilbox”, indetto da Aliberti Editore in collaborazione con “Cronaca Vera” e Tonic Network Benessere. Lo lesse il presidente della giuria, Edoardo Montolli, che oltre ad essere un raro (in Italia) giornalista investigativo e un invidiato (da me e da molti altri) autore di ottimi thriller, è anche direttore della collana Yahoopolis per Aliberti Editore. Gli piacque al punto che il 12 febbraio mi chiamò al telefono per chiedermi se avevo qualche romanzo nel cassetto. Li avevo e glieli mandai. Il 12 marzo mi richiamò per dirmi che li aveva letti e che li avrebbe inseriti nella sua collana. Ho di conseguenza nei riguardi di Montolli un debito inestinguibile, e non solo perché gli devo la gioia d’essere giunto in libreria, ma per tutta una serie d’altre infinite ragioni, compresa quella d’aver scritto una luminosa prefazione al mio libro».

Il suo romanzo è un noir: come mai ha scelto di cimentarsi con la narrativa di genere?
«Quand’ero un ragazzino pletore e pletore d’intellettualoidi spargevano ai quattro venti la fenomenale notizia che in Italia il più grande prosatore vivente fosse l’aspirante pornografo Pincherle Alberto detto Moravia. Il soggetto in questione, se avesse saputo scrivere, forse sarebbe stato davvero un grande scrittore. Le trame, dopo tutto, non gli riuscivano male. Tant’è che i film tratti dai sui libri erano eccellenti, in quanto le sceneggiature venivano riscritte da veri professionisti, ma i suoi libri rimanevano penosi senza rimedio. Il Pincherle, poverino, con la penna non ci si raccapezzava proprio, digiuno com’era di tecnica e costituzionalmente incapace d’esprimersi con una prosa accattivante. E pretendeva pure di ricevere il Nobel! Insomma, un dilettante da operetta, una macchietta italica che sarà ricordata dai posteri con sincero sollazzo. Notavo contestualmente che da noi autori di gialli non esistevano. Non potevo difatti ancora sapere, perché purtroppo la Sellerio non era ancora nata, che durante il nero ventennio avevamo avuto il talentuoso Augusto De Angelis. La Rai, è vero, negli anni Sessanta trasmetteva sceneggiati ricavati dai suoi libri, con Paolo Stoppa nei panni del commissario De Vincenzi, ma nelle librerie non si trovavano. Leggendo Simenon e Chandler mi rendevo inoltre conto della grande abilità tecnica e della professionalità indispensabili per scrivere un giallo. Mi era perciò facile giungere alla logica conclusione che un penoso dilettante come l’aspirante pornografo Pincherle Alberto detto Moravia non sarebbe mai stato all’altezza di scrivere un giallo. E se noi in Italia non avevamo giallisti, a parte la superba eccezione di Sciascia, era perché eravamo privi d’autori capaci di scriverne, dato che un giallo è un genere difficile da affrontare e solo talenti straordinari come Simenon o Chandler o Dürrenmatt o Sciascia erano in grado di farlo. E da questa semplice constatazione ho preso lo stimolo per scrivere gialli. Mi sono cioè lasciato impossessare dal gusto di affrontare un genere difficile, alla portata solo dei veri scrittori».

Cos’è per lei la narrativa di genere?
«Tutta la narrativa è di genere. Solo il defunto Siciliano Enzo distingueva tra narrativa di genere e narrativa “tout court”, come diceva lui per far credere al popolino d’essere una personcina istruita. Ma il defunto Siciliano Enzo, essendo un patetico cultore dell’aspirante pornografo Pincherle Alberto detto Moravia, di letteratura non ne capiva ovviamente un emerito nulla».

Il suo romanzo ha un titolo forte: “Un buon sapore di morte”…
«Forte? Dolce, a me pare, romantico. Va bene, va bene, scherzavo. Ma non sono stato io a sceglierlo, vi ha provveduto una delle protagoniste del libro, che in un momento cruciale della vicenda chiede al commissario Alesi: “Non ti piacciono i cimiteri?”. Ricevuta risposta negativa aggiunge: “A me sì, hanno un così buon sapore di morte”. E il lettore a quel punto scoprirà che nel titolo è racchiuso il senso profondo di tutta la storia».

Quanto tempo ha lavorato alla stesura di questa storia?
«Un tempo infinito. So che nessuno ci crederà, visto che dà l’impressione d’essere stato scritto di getto, tuttavia iniziai il romanzo nel 1998 e lo finii nel 2003. Ciò avvenne perché alla sua stesura ho potuto dedicare non più di due o tre mesi l’anno, in quanto in quel periodo ero molto preso dai miei interessi patrimoniali».

Com’è quando scrive? Metodico, disordinato, improvvisa, si organizza… che fa?
«Mio Dio, questa sua domanda mi lascia inorridito. Ho diretto aziende e ho insegnato economia nella più grande università d’Italia. Inoltre, sono un ufficiale. Come può venirle in mente che io possa essere disordinato o, peggio, che improvvisi? Solo i maledetti dilettanti improvvisano, incapaci come sono di programmare. Io invece amo lavorare con la precisione di un orologio svizzero a cucù. E mi godo il mio lavoro minuto per minuto. Godimento e precisione svizzera sono per me sinonimi».

Buono a sapersi e molti complimenti. Ma, battute a parte, mi dica: il romanzo è ambientato a Civita, “fantomatico capoluogo della provincia abruzzese”. Come è nata questa città?
«Nacque alla metà del tredicesimo secolo, grazie a una bolla di Federico Secondo di Svevia che ne autorizzava la fondazione. Le ragioni furono di squisita natura economica. Si rendeva infatti necessario creare un centro mercantile per smerciare la lana prodotta dagli ovini sui pascoli alle pendici del Gran Sasso».

A quali città si è ispirato?
«Alla mia, a L’Aquila. Dico sul serio».

L’Abruzzo, narrativamente parlando, che tipo di territorio rappresenta?
«E me lo chiede? È la terra dove sono nati Ignazio Silone e Ennio Flaiano. Quest’ultimo è l’autore di “Tempo di uccidere”, un romanzo semplicemente perfetto, e il primo è l’autore di “Fontamara”, un capolavoro».

Sì, glielo chiedo. Per dirla tutta l’Abruzzo è anche la terra dove sono nati Mario Pomilio e Laudomia Bonanni, Gennaro Manna ed Eraldo Miscia, lo stesso D’Annunzio… Ma andiamo avanti.
«Narrativamente parlando, l’Abruzzo è una terra stupenda. Certo, nel 1863, in una cittadina della costa, per un’ostile scelta del destino, vi nacque purtroppo un grosso trombone, di cui, per gentilezza d’animo e per non sporcarmi la bocca, non pronuncerò il nome. Costui comunque era, e gli va riconosciuto, un abile mestierante. Eia eia, alalà. Appunto».

È nel destino del Vate quello di essere amato e odiato. Senta, cos’è per lei la provincia?
«La provincia è la madre di tutti i romanzi. Be’, no, forse ho esagerato. Diciamo del novanta per cento. La provincia è la personificazione dell’ipocrisia, lo squallore umano ammantato di perbenismo e quieto vivere. Per uno scrittore, una vera miniera».

Quella che lei racconta è una provincia-teatro: tanti personaggi, tante figure, tante vicende…
«Sì. Non mi dica che le dispiace».

Manco per sogno, mi piace molto. Ma di mezzo c’è una tinta nera…
«Tinta nera, dice? Io preferisco chiamarla realtà. Sì, di mezzo c’è la realtà. Che vogliamo farci, non so scrivere favole».

Buon per lei. Sbaglio se parlo di sapore tragicomico del romanzo?
«Non sbaglia affatto. Anzi, afferma la pura e semplice verità. L’Italia d’oggi, del resto, è il paese più tragico e ridicolo esistente al mondo, pari solo all’Iran dei santoni e alla mitica repubblica delle banane. E si dà il caso ch’io racconti l’Italia dei nostri giorni, dove siamo tutti costretti a ridere per non piangere.

Quindi la provincia è il teatro della commedia – e della tragedia – umana?
«Eh, così è, se ci pare».

Ci pare, ci pare. Il suo romanzo è un mix di finzione narrativa e fatti realmente accaduti. Come mai questo mix?
«Semplice, le vicende che ho raccontato sono tratte da un episodio di cronaca giudiziaria verificatosi a L’Aquila nel 1993-1994, al quale la stampa locale diede il meritato risalto. Si trattò di una ridicola scopiazzatura provinciale di mani pulite e finì, more solito, in burletta. Mi sono limitato a cambiare nome ai protagonisti, dato che mi disgusterebbe conferire fama letteraria a gentucola tanto meschina, e poiché un noir non può finire in burletta, ma deve raccontare drammi autentici, ho aggiunto il sangue alla farsa, la tragedia alla mediocrità».

Il protagonista è il commissario Mauro Alesi. Mi racconta come se l’è inventato? Cosa ha significato, quanto le è costato, quanto ci ha lavorato…
«L’aspetto fisico l’ho preso da un simpatico conoscente, Massimo Di Carlo, un promotore finanziario che vende fondi d’investimento per conto di Berlusconi Silvio. Massimo, da giovane, giocava a pallone per squadrette di serie C. Chissà perché, per anni ho invece creduto che avesse fatto il giocatore di rugby, ecco come mai il commissario Alesi si ritrova un passato sportivo quale terza linea del Civita Rugby. Le qualità psicologiche e caratteriali derivano tutte dal capitano Bellodi e da Philip Marlowe. Alesi è un uomo integerrimo dato che, come sosteneva Raymond Chandler, chi combatte il crimine deve possedere una specchiata moralità, non può essere un ominicchio da due soldi, né un mezzo uomo, né un quaquaraquà. Mentre scrivevo mi sono più volte chiesto per quale congiura del caso un uomo dalle caratteristiche così rare, proveniente per di più da una buonissima famiglia, fosse finito in polizia. Scoprii poi un po’ alla volta, dalla stessa voce del commissario, sebbene non lo dichiarasse in maniera esplicita, che vi era stato costretto dalla cruda necessità economica, giacché l’impresa edile appartenente al padre era andata fallita. Se ciò non fosse avvenuto, Mauro Alesi del posticino statale non avrebbe saputo che farsene».

Come ha elaborato la trama?
«Dall’inizio alla fine. La prego, non rida, non è una battuta».

E chi ride? Vada avanti…
«La mia è una precisa scelta tecnica. Non sono infatti un emulo di Edgar Allan Poe, che suggeriva di elaborare la trama partendo dalla fine e proseguendo a ritroso. Preferisco seguire le orme di Georges Simenon, che quando iniziava a scrivere un libro non sapeva mai come sarebbe andato a finire. E così faccio io. Spio le azioni e le reazioni dei protagonisti, che mi si parano sempre davanti per loro scelta, non perché li invento io, poi li osservo vivere e cerco si scoprire quello che succede. Parola dopo parola, rigo dopo rigo, scena dopo scena».

Mi parli del lavorio che le è stato necessario per trasformare questa trama in una storia.
«Mi dispiace ma non posso. E sa perché? Perché a me non piace un granché partire dalla trama. Sono i personaggi a smuovere il mio interesse. La trama, come l’intendenza, seguirà. Cerco in pratica di riferire vicende cruciali della vita di una o più persone, e lo faccio vivendo insieme a loro, vivendo dentro di loro. Vicende che segnano per sempre il loro e, di rimando, il mio cuore. Nonché il cuore del lettore, mi auguro».

Per il ritmo della narrazione, per i dialoghi, per le atmosfere, come si è regolato?
«Applicando la tecnica. In un testo di narrativa il ritmo è dato dai colpi di scena. Se in un romanzo non succede mai niente il lettore si addormenta. A me piace invece tenerlo ben desto, e ciò si ottiene intensificando via via il numero e il rilievo dei colpi di scena. Per i dialoghi, naturalmente, ho consumato ettolitri ed ettolitri d’olio di gomito, poiché sono la cosa più difficile da scrivere. La più difficile e… la più appagante. Oltre che la più produttiva, perché i dialoghi conferiscono autenticità ai personaggi. Per le atmosfere sono stato molto attento a captare, momento per momento, l’evolversi dell’emotività dei personaggi, dato che le atmosfere rappresentano per me un elemento di natura psicologica. Gente allegra crea un’atmosfera vivace, gente arrabbiata crea un’atmosfera elettrica, e via discorrendo».

Un tema centrale del romanzo è la ricerca della verità: con una citazione a Sciascia…
«Il commissario Mauro Alesi, come successe al capitano Bellodi in “Il giorno della Civetta”, scopre la verità ma giustizia non verrà fatta. In un paese civile questo non potrebbe accadere, se non in casi del tutto sporadici. In Italia è la norma, altrimenti tutti i mafiosi siciliani, calabresi, campani e pugliesi starebbero in galera. Se tali figuri non soggiornano in massa nelle patrie galere vuol dire che la nostra società è malata. Per spiegare le cause di tutto ciò andrebbero affrontati discorsi molto tecnici sulla natura post-fascista, anziché anti-fascista, come una retorica sinistra si sforza da decenni di convincerci, della nostra costituzione. Sta di fatto che il principio fascista della superiorità etica dello stato, che impone ai cittadini la condotta morale cui devono attenersi (articolo quattro, secondo comma), come pure il principio corporativo applicato all’ordinamento giudiziario (articoli centoquattro, centocinque e centosei) equivalgono a un suicidio civile. Suicidio che noi italiani continuiamo da sessant’anni beatamente a perpetrare ai nostri danni. In “Un buon sapore di morte” ho voluto mostrare, senza però avventurarmi in uno sproloquio da comiziante, i tristi effetti umani e sociali causati da istituzioni pubbliche mal congegnate».

Quindi lei riconosce al noir una possibilità di scavo?
«Sì. Diversamente non avrei mai scritto un noir».

Questo scavo, se ho ben capito, dovrebbe condurre a una riflessione del lettore: dove inizia, secondo lei, questa riflessione e dove finisce il lavoro di chi narra?
«Mostrare senza dire, è questo il vincolo del narratore. Deve limitarsi ad emozionare e a far riflettere, ma non può spingersi oltre, scimmiottando gli arruffapopolo. La riflessione, nel lettore, deve scaturire dall’emozione provata, non dagli sproloqui di un comiziante o, peggio, dalla prosa soporifera di un romanzo-saggio, come a suo tempo provò a scriverne, schiavo del proprio incommensurabile dilettantismo, l’aspirante pornografo Pincherle Alberto detto Moravia».

Lei pensa che il romanzo, anche quello di genere, debba denunziare qualcosa che sia socialmente significativo?
«Sì, ne sono fermamente convito. E agisco, cioè scrivo, di conseguenza».

Dunque, lo scrittore ha o non ha un ruolo riguardo al mondo in cui vive?
«Certo che ce l’ha. Un ruolo e una responsabilità, direi, a condizione che non sia ottuso o insensibile. Ma la prima qualità dello scrittore è la sensibilità, e la seconda è l’intelligenza. La terza è il coraggio. È vero, gli scaffali delle librerie rigurgitano di robaccia scritta da vigliacchi asserviti ai partiti, e/o da ottusi che confondono l’attualità con la “Divina Commedia”, e/o da teste di granito che credono alle fandonie che la pubblicità editoriale diffonde sul loro conto. Ma è tutta colpa del pressappochismo che affligge le case editrici. Lo scrittore, quello vero, sa perfettamente che il suo ruolo principale consiste nell’offrire ai lettori d’oggi e di domani una testimonianza delle proprie e delle altrui esperienze di vita».

La scrittura, intesa come atto del narrare, è un’arte o un mestiere artigianale?
«È un mestiere artigianale. L’arte lasciamola agli aspiranti letterati, ossia ai dilettanti. Il libro è un prodotto industriale, destinato a soddisfare i profondi bisogni psicologici del lettore. Quindi scrivere narrativa non è un gioco, né tanto meno una perdita di tempo. È una faccenda terribilmente seria. Chi pensa il contrario è un misero ingenuo che non riesce ancora a capire in quale mondo è nato».

Realtà, attualità, contemporaneità: mi dice come si confronta, e come lo ha fatto nel caso specifico di questo suo libro, con questi concetti?
«Usando i cinque sensi. In altre parole, vivendo e… studiando. E poi leggendo i giornali, guardando i telegiornali e ascoltando i giornali radio. Che io sappia, altri sistemi non esistono».



giovedì 22 novembre 2012

Il brutto dell'Italia


Ho finora pubblicato tre noir (‘‘Commedia all’italiana’’, ‘‘Un buon sapore di morte’’, ‘‘Il destino, forse’’) e tre racconti (‘‘Capitali freschi’’, ‘‘La visita’’, ‘‘Il movente’’, inseriti adesso nella raccolta ‘‘I racconti di Civita’’, Meligrana Editore, Collana just-E) nei quali ho sentito la necessità di affrontare il tema della perniciosa inefficienza delle pubbliche autorità nel nostro paese.
Chi scrive narrativa è soprattutto un testimone. Ha però l’obbligo d’essere un testimone informato e consapevole. Prima di comporre i miei testi ho dunque studiato il problema, cercando di capire le sue cause. La risposta che ho trovato è molto tecnica e riguarda le caratteristiche delle democrazie liberali e delle loro leggi fondamentali. La illustro qui in rapida sintesi, indicando anche l’indispensabile soluzione.

In una democrazia liberale il rapporto tra stato e cittadini è di natura squisitamente patrimoniale. E difatti i cittadini di una democrazia liberale, quali elettori e contribuenti, si mostrano in genere ben disposti a pagar le tasse ‘‘solo se’’ lo stato fornisce loro in contropartita servizi di qualità apprezzabile e a costi accettabili. La retorica delle ideologie patriottarde nelle democrazie liberali non attecchisce.
Nelle democrazie liberali lo stato non è uno strumento di potere, com’è al contrario nei regimi illiberali, bensì una semplice struttura di servizio. Qualcosa, insomma, di molto simile a ciò che gli studiosi di scienze aziendali definiscono ‘‘azienda d’erogazione’’.
Per sapere se una democrazia è liberale o illiberale (eh, sì, purtroppo, esistono anche democrazie illiberali) basta leggere le costituzioni. Una costituzione che ha nel suo preambolo espressioni del tipo: ‘‘Noi, il popolo, per la nostra libertà e il nostro benessere, indichiamo qui di seguito ciò che tu stato devi fare’’ è liberale. Viceversa sono illiberali quelle costituzioni al cui preambolo troviamo espressioni del tipo: ‘‘Io, lo stato, in base a questo o a quel principio sociale o morale, elenco qui di seguito ciò che tu cittadino devi fare’’.
La costituzione della repubblica italiana appartiene al secondo tipo, non al primo. Ciò si deve all’arretratezza culturale e politica dei costituenti. I quali, poverini, scrissero sì una carta di tipo democratico che consente la conquista del potere di governo, per una durata limitata, attraverso la competizione elettorale e garantisce ai cittadini le libertà civili (libertà di voto, libertà d’espressione, libertà di manifestazione, libertà di fondare movimenti politici, ecc.), mentre invece il precedente regime totalitario le libertà civili le aveva eliminate, ma vi inserirono pure, nella carta, i tre principi dottrinali del fascismo. Vale a dire il principio proletario, il principio della superiorità etica dello stato e il principio corporativo .
Il principio proletario lo si trova al primo comma dell’articolo uno della nostra costituzione, sia pure nella forma del cosiddetto ‘‘principio lavorista’’. Il principio della superiorità etica dello stato è sancito al secondo comma dell’articolo quattro (‘‘Io, lo stato, dico a te cittadino quali sono i tuoi doveri morali’’). Il principio corporativo lo si trova un po’ dovunque (natura semipubblica dei sindacati, Cnel, organizzazione corporativa della magistratura).
Gli effetti di questo bel capolavoro d’ingegneria costituzionale sono poteri pubblici superbamente costosi e sovranamente inefficienti (ad esempio, municipalità incapaci di raccogliere l’immondizia, inesistenza di un reale ordinamento giudiziario, sostituito da un simulacro neanche in grado di produrre sentenze in tempi ragionevoli, sprechi immani di risorse in lavori pubblici iniziati e mai terminati, enti inutili a iosa, munifiche prebende a gerarchi e gerarchetti di partito, e via discorrendo).
Ben venga dunque ogni riforma costituzionale che limiti l’invasività e i dannosi poteri dello stato, cancellando dalla carta i tre residuati del precedente regime, e trasferisca maggiori potestà al corpo elettorale.
Nel frattempo le leggi in vigore vanno rispettate e le tasse, ahinoi, pagate.



mercoledì 21 novembre 2012

Comicità editoriale


I miei rapporti con gli editori di libri sono finora stati fonte d’esilaranti sollazzi. Ho specificato ‘‘editori di libri’’ perché devo escludere dal novero una casa editrice seria, la GVE, che pubblica però rotocalchi, sul cui settimanale ‘‘Vera’’ sono usciti vari miei racconti e un romanzo a puntate, per i quali ho riscosso puntuali e soddisfacenti compensi.
Di solito chi stampa libri non è purtroppo fatto della stessa pasta. Sulla rete esiste un sito dal nome che non lascia spazio a dubbi, ‘‘Scrittori in Causa’’, dove vengono illustrate le mirabolanti gesta di quella infinita schiera di ciarlatani e/o accattoni, nerbo dell’editoria italica.
Le caratteristiche basilari che contraddistinguono le case editrici sono il dilettantismo e l’incompetenza, binomio dalla comicità irresistibile. Per lo stesso romanzo, ‘‘L’ultima missione’’, ebbi da un editore veneziano un giudizio positivo per i contenuti ma negativo per lo stile, mentre un suo collega milanese giudicò negativamente i contenuti e positivamente lo stile. Insomma, valutazioni opposte dalle quali è impossibile ricavare alcuna utile indicazione. Ciascuno di loro ha in pratica dato prova d’essere vittima di un soggettivismo tanto estremo quanto sterile. Imprese commerciali in mano a tali dilettanti, nemmeno in grado di analizzare con criteri oggettivi la merce da vendere, suscitano l’ilarità più gustosa.
La stessa situazione si ripeté per ‘‘Un buon sapore di morte’’. Un editore romano mi scrisse una lettera nella quale al mio noir venivano riconosciute ‘‘una grande inventiva, una spiccata intuizione, una scrittura matura, interessante e ben collaudata, una buona capacità di elaborare gli spunti proposti, un modo elegante di condurre il lettore’’, ma non poteva pubblicarlo perché andavano fatti dei tagli che gli costavano evidentemente troppa fatica.
Sempre per ‘‘Un buon sapore di morte’’ una domenica pomeriggio mi chiamò al telefono un talent scout che lavora per uno dei marchi appartenenti a Silvio Berlusconi, il noto femminista. Esordì con delle lodi sperticate e terminò l’arguto sermone suggerendomi di allungare il testo di altre cento cartelle. Supposi fosse un estimatore della letteratura a peso e dopo qualche giorno di divertite riflessioni gli scrissi dicendogli che non avevo nessuna voglia di allungare la brodaglia. Rinunciai in sostanza a entrare nel parco buoi del femminista.

E passiamo ora all’accattonaggio editoriale, perché quattro ricche risate addolciscono la vita.
Nel 1999 feci stampare da un sedicente editore ‘‘Commedia all’italiana’’. Si trattò di un’edizione puramente nominale, a uso e consumo dei miei amici, parenti e conoscenti, in quanto non cedetti i diritti alla sedicente casa editrice. Qualche anno dopo scoprii tuttavia che i furbi avevano messo il libro in vendita sui bookshop presenti in rete. Spedii subito una raccomandata dal tono dolcissimo, avvertendoli che non l’avrebbero passata liscia se (cito alla lettera) ‘‘non rimediate con rapidità fulminea alla violazione dell’articolo 640 del vigente codice penale di cui Vi siete macchiati stampando sul mio romanzo “Commedia all’italiana” il simbolo © vicino al nome della Vs. ditta, inducendo così gli ignari a credere che Vi avessi ceduto i diritti, quando invece mi ero limitato, con un contratto intitolato “Contratto d’autore” e non certo “Contratto d’edizione”, a ordinarVi di stamparmi e consegnarmi trecento copie del romanzo. Mandatemi a strettissimo giro di posta una comunicazione scritta e sottoscritta nella quale fate ammenda del Vs. errore fraudolento, e Vi dimenticherò per sempre.’’
Mi ubbidirono di corsa.
Quasi la stessa cosa si è poi ripetuta con ‘‘Un buon sapore di morte’’. La mattina del 25 agosto 2008 appurai che il libro era uscito perché mi telefonò Silvana Mazzocchi di ‘‘Repubblica’’ per intervistarmi. Si era ad ogni modo verificato un piccolo inconveniente, di cui informai la giornalista. Non avevo infatti firmato nessun contratto e le copie giunte nelle librerie andavano di conseguenza considerate frutto di un’edizione pirata, per la qual cosa avrei provveduto a rovinare l’editore se non vi poneva immediato rimedio.
Nel pomeriggio mi chiamò al telefono il direttore di collana. Aveva saputo dell’inghippo e io gli spiegai, con la cortesia che mi caratterizza quando affronto una difficoltà, che il problema poteva essere risolto in due modi. O stipulando un contratto, sia pure tardivo, o richiedendo ai competenti uffici di applicare il codice penale. Il poverino perse del tutto la testa e mi rese noto che lui aveva intervistato i peggiori delinquenti d’Italia – il tizio è infatti redattore di ‘‘Cronaca Vera’’, il celebre settimanale culturale – ma uno come me non l’aveva mai conosciuto.
Be’, da ridere, diciamo la verità.
Una mezz’oretta più tardi ricevetti una telefonata dall’amministratrice delegata. Le ripetei grosso modo gli stessi concetti già espressi al direttore di collana e, affinché capisse che non andavo a caccia di rogne, la invitai a spedirmi il contratto per posta elettronica. Lo avrei stampato, in due copie, sottoscritto e spedito alla casa editrice per posta, al fine di consentirle di firmarlo a sua volta e rispedirmi indietro una copia.
Detto fatto.
Trascorsero un paio d’anni e senza alcuna mia sorpresa, lo confesso, non vidi il becco di un quattrino. Ripresi il contratto e me lo studiai con la massima attenzione alla luce della legge 633/1941, che come si sa regola il diritto d’autore.
Il contratto, scoprii, era nullo. Morale della favola, quella pubblicata un paio d’anni prima rimaneva, sotto tutti gli aspetti giuridici, un’edizione pirata di ‘‘Un buon sapore di morte’’, poiché in realtà non avevo ceduto alcun diritto.
Volli comunque per prima cosa valutare il grado di accattonaggio dell’editore, chiedendogli ripetutamente di spedirmi i rendiconti. Finalmente, il 25 maggio 2010, si compì il miracolo e ricevetti un primo conteggio nel quale risultava che al 31 dicembre 2009 avevano venduto 225 copie del mio romanzo. Mandai la nota d’addebito e aspettai i soldi.
Sto ancora aspettando.
Cominciai a tempestarli di solleciti. Con mio sommo divertimento mi arrivarono non i soldi ma un nuovo rendiconto, nel quale si dichiarava che fino all’8 settembre 2010, data cioè successiva a quella del primo, avevano venduto 195 copie, ossia trenta in meno di quante secondo loro risultavano il 31 dicembre dell’anno prima.
Non ci crederete, ma i diritti relativi a queste 195 copie me li hanno pagati. Io però non ho voluto negarmi il piacere di sparare una bordata con calibri da trecentottanta millimetri addosso all’amministratrice delegata, scrivendole una email tanto tecnica quanto galante.
L’oggetto era: ‘Tentata truffa o truffa?’’. Il testo, sfrondato dei dettagli tecnici, suonava così:
‘‘Temo, gentile dottoressa, che lei non abbia piena consapevolezza di tutte le conseguenze giuridiche cui è andata incontro sottoscrivendo il contratto d’edizione da me speditovi in duplice copia con raccomandata del 26.08.2008, dopo averne stampato il testo da voi inviatomi il giorno precedente per posta elettronica, e relativo al mio romanzo ‘‘Un buon sapore di morte’’. Mi corre pertanto l’obbligo, umano e morale, di elencare quelle conseguenze a una a una.
‘‘1) Lei ha volontariamente sottoscritto un contratto nullo.
‘‘2) Calcolo dei compensi scientemente fraudolento.
‘‘3) Rendicontazione illegalmente esclusa.
‘‘4) Pagamento illegalmente escluso.
‘‘5) Termini di pagamento scientemente inficiati.
‘‘Immagino sappia che la responsabilità penale è personale e, nella sua qualità di amministratrice delegata, e quindi di legale rappresentate, sarà l’unica a rispondere per i reati commessi in mio danno’’.
La donna, ricevute parole tanto graziose, non ha aperto bocca. Sa perfettamente, se ci prova, a cosa andrà incontro.
Dal canto mio, mi sono limitato a pubblicare ‘‘Commedia all’italiana’’ e ‘‘Un buon sapore di morte’’ nella collana just-E di Meligrana Editore.
La carta, mi sa tanto, è meglio lasciarla perdere.



lunedì 19 novembre 2012

Volumi di carta o libri elettronici?


Carta o ebook?
Questo è il dilemma.
No, non è così, in verità il dilemma non esiste. Il libro stampato ha i giorni contati. Il futuro è nell’ebook.
Le ragioni per cui do alla domanda una risposta tanto secca derivano tutte dalle mie personali esperienze di lettore e di scrittore.
Come lettore devo dire che con me la carta ha chiuso. Dal febbraio 2011, quando più che altro per curiosità acquistai in un supermercato una tavoletta cinese da sei pollici e centocinquanta grammi di peso, ho smesso del tutto di leggere volumi a stampa.
   Perché?
  Be’, perché usare l’ereader è più comodo. Innanzitutto è leggero, sebbene straordinariamente capiente. Tanto capiente da contenere centinaia di titoli. E poi mi godo il privilegio di scegliere a piacimento la grandezza del carattere, senza perciò essere costretto a rovinarmi la vista per colpa di miserabili corpo undici impressi su scadente carta da imballo spacciata per ‘‘ecologica’’.
Se dunque tutto ciò vale per me, non capisco per quali motivi chi mette le mani su un dispositivo simile al mio non debba cambiare le proprie abitudini di lettura (fanno naturalmente eccezione coloro che non hanno un computer e una carta di credito, o, pur avendo l’uno e l’altra, sono poco inclini a subire il fascino e i vantaggi delle novità).
Come autore il discorso è più o meno lo stesso. Dei miei quattro titoli usciti in versione cartacea – escludendo il primo, ‘‘Commedia all’italiana’’, apparso nel ’99 – tutti gli altri sono stati stampati con i piedi e la loro veste grafica fa pertanto storcere il naso, e ciò in piena armonia con l’incorreggibile principio editoriale secondo il quale il compratore è un pollo da spennare vivo o morto.
Ma l’aspetto davvero importante che, in quanto autore, non posso trascurare riguarda la caratteristica saliente del mercato librario. E’ un mercato dove si applica una sola tecnica di marketing, tutta incentrata sul fatto che le vendite dipendono dalla tiratura.
Ciascun editore pubblica ogni anno un elevato numero di titoli, però con basse tirature medie. La stragrande maggioranza dei titoli che giungono in libreria non ha quindi alcuna possibilità di emergere, poiché deve competere in tempi ristretti con troppi concorrenti.
A tal proposito poco importa se il titolo è sorretto o meno dal marchio di una casa editrice di rilievo. Piccolo o grande che sia l’editore, la tiratura media è sempre bassa. Ne deriva che nessun autore, salvo che non abbia un nome già noto in questo o quel campo, venderà un alto numero di copie.
Il grande editore può tuttavia, a sua scelta, imporre due o tre titoli l’anno rifornendo di continuo librerie, supermercati e autogrill con pile di volumi. La presenza massiccia e continuata degli stessi titoli nelle vetrine e sugli scaffali condiziona il pubblico e determina il successo di vendita. Ecco perché anche dei perfetti sconosciuti riescono a vendere milioni di copie.
Con l’avvento del libro elettronico tutto quanto or ora descritto volgerà al termine.
Le ragioni sono elementari. Chi ama leggere avrà a disposizione per un tempo illimitato qualunque titolo. La scelta a lui possibile visitando i bookstore presenti su internet, o i siti degli editori, è infinitamente maggiore di quella offertagli dai librai e dai supermercati. Gli basta un clic e in tempo reale, come suol dirsi, legge le anteprime, ossia le prime pagine dei libri, e seleziona gli ebook da acquistare.
Gli autori, di riflesso, godono delle medesime opportunità. I loro ebook rimarranno sempre esposti nelle vetrine delle librerie telematiche – o, se vi pare, sui monitor dei computer – e a fare la differenza tra un titolo e l’altro non sarà più l’altezza delle pile di carta depositata sui banconi, ma la qualità dei testi.
E’ di fondamentale importanza, per gli scrittori, che le prime pagine di ogni libro i lettori abbiano la facoltà di leggerle standosene seduti nel dolce tepore di casa e comprare soltanto ciò che trovano di loro gradimento. A scatola non chiusa, verrebbe da dire.
Non a caso corposi brani dei miei noir ‘‘Un buon sapore di morte’’ e ‘‘Commedia all’italiana’’ appaiono su Smashwords, mentre l’inizio de ‘‘Il destino, forse’’ è su Calameo. Sono perfettamente consapevole che in tal modo mi espongo a una sana concorrenza, basata per intero sulla qualità della scrittura, anziché distorta da un mercato editoriale nel quale nuotano squali e pesciolini.
L’unico intralcio alla massiccia diffusione dei libri elettronici è costituito dai prezzi di vendita, talora eccessivi. Un ebook non deve costare più di tre o quattro euro. Prezzi superiori favoriscono soltanto le pirateria e ritardano la crescita del nuovo mercato. Non per niente ho pubblicato due romanzi con Meligrana Editore, che li mette in vendita a due e novantanove, e pubblicherò con lui ogni altro mio nuovo libro.
Carta?
No, grazie.