giovedì 28 febbraio 2013

L'immortalità dell'avventura


In ognuno i noi, diciamoci la verità, sprizza la scintilla dell’eroe avventuroso. Quanti di noi potranno infatti rinnegare la passione, a volte dichiarata a volte nascosta, in alcuni forte in altri debole, per il brivido che l’avventura – desiderata, bramata, sognata e, ahimé, raramente vissuta – sa regalarci?
Pochi, per non dire nessuno, rinnegheranno quella passione.
Ma la vita, si sa, è avara di desideri appagati. Quasi mai, pertanto, le nostre prosaiche esistenze assaporano le brillanti emozioni che vorremmo.
I libri, per fortuna, riescono tuttavia a darci ciò che la vita ci toglie. E nessuno oserà rimproverarmi, spero, se confesso d’aver letto di recente un romanzo d’avventure che soddisfa in pieno il bisogno di sentire sulla pelle i brividi di esperienze estreme.
Il suo autore è Pierluigi di Cosimo, il suo titolo ‘‘I rotoli dell’immortalità’’. Lo si trova, in versione elettronica, su Amazon.
Non mi è concesso, purtroppo, dilungarmi sulla trama, perché negherei il gusto della sorpresa a quanti volessero leggerlo dopo di me. Dirò solo che un anziano archeologo inglese, il professor Maurice, intuisce di ritrovarsi tra le mani le chiavi della sapienza e dell’immortalità e un’organizzazione occulta ma potente invia un proprio sicario, Mister X, a ucciderlo. Ma questo è appena l’inizio dell’intricata e appassionante vicenda i cui sviluppi ci mostrano una realtà sempre più amara man mano che ci si avvicina alla verità.
Di Cosimo, con prosa fluida e chiara, ci fa viaggiare dai Caraibi alla Puglia, dalla Puglia alla Grecia, dalla Grecia al deserto del Gobi, alla Gran Bretagna, alla Svizzera e, persino, alla mitica Agharti, dove vive una sotterranea civiltà d’esseri sapienti e immortali.
Non si creda ad ogni modo che il libro di Pierluigi di Cosimo sia soltanto un’abile costruzione di colpi di scena a non finire. Certo, la pirotecnica fantasia dell’autore si sbizzarrisce e nitrisce con magistrale vigore, i temi del libro sono però profondi e niente affatto asserviti al puro e semplice divertimento.
Non a caso, Eros e Thanatos costituiscono i veri protagonisti della storia, sia pure incarnati nei vari personaggi. E tra gli ingredienti troviamo l’amore filiale, l’amore paterno, come pure la passione amorosa tra uomo e donna. Non si pensi, inoltre, che l’eroe riuscirà a sconfiggere i cattivi senza pagare un alto prezzo. E neppure si pensi che la sua vittoria sarà assoluta. Perché l’eroe, l’individuo, non potrà mai smettere di temere la forza dell’organizzazione.
C’è sempre un Golia – lo stato, la mafia, le ideologie totalitarie – pronto a schiacciare Davide.



sabato 23 febbraio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - ultima puntata


Riassunto delle puntate precedenti
La sera del primo sabato d’ottobre Gregorio m’invita per il giorno dopo a pranzo perché cucineranno zuppa di pesce. Quando la domenica arrivo nell’appartamentino dei rumeni, oltre a vari ospiti, trovo in cucina il Bullo di Casacalenda occupato a impartire istruzioni a Ela.
In disparte il Bullo mi rivela che Ela e Gregorio non sono cugini e che fino agli inizi dell’anno lei lavorava in un night club di Vasto. Su ciò non esprimo commenti, gli dico invece:
«Questa ragazza ha una bambina di dieci anni e né lei né la figlia, nelle attuali condizioni, hanno un futuro. Tu vivi da sempre qui, a San Leonardo, un minimo di conoscenze ce le avrai, suppongo. Perché non provi a darle una mano? A trovarle un lavoro? Magari come domestica, come sguattera. Qualcosa così».
La sua risposta? Eccola:
«Io penso solo ai cazzi miei».

Ultima puntata
Alle due passate finalmente Ela servì la zuppa di pesce. Ci sedemmo così a tavola. O meglio, ci sedemmo ai due tavolini, quello rotondo e quello rettangolare, accostati davanti al divanetto e coperti da un plaid a mo’ di tovaglia.
Il Bullo di Casacalenda non si unì a noi, ci lasciò, sostenendo di aver partecipato la sera precedente a una cena pantagruelica e non smaltiva ancora l’eccesso di nutrimento ingurgitato.
Neanche Ela si mise a mangiare, almeno non subito. Se ne tornò nel cucinino a friggere per sé petto di pollo. Il pesce non le piace.
Quella zuppa, malgrado l’aspetto, a essere onesti cattiva non era. Riuscii a gustarmela con comodo in punta di coltello e forchetta, come piace a noialtri inguaribili borghesi, inzuppando di tanto in tanto il pane nella broda. Gli altri commensali pescavano – in fin dei conti si trattava di pesce – il cibo con le mani e lo innaffiavano a volontà con grappa e montepulciano.
Assaggiai anch’io un goccio di grappa. Era liquore casalingo. I rumeni a fine settembre lo avevano cioè illegalmente distillato dalle vinacce. Potabile, tutto sommato.
Ela, fritto il pollo, con il piatto sedette alla sinistra di Dana, a sua volta seduta alla mia sinistra. Iniziò a mangiare portando alla bocca i pezzi di carne con la destra. Mi spiava, mi accorsi, di sottecchi, sporgendo di tanto in tanto il capo in avanti. Facile intuire quali impegnative domande le frullassero in mente. Aveva paura che la cordiale confidenza tra lei e il Bullo, di cui ero stato fresco testimone, suscitasse in me una cattiva impressione. Doveva perciò inventare a tutti i costi qualcosa per porvi rimedio.
Al termine del pranzo e delle cospicue libagioni, a sera ormai incipiente, arrivò un omaccione di mezz’età. Era italiano e si distingueva per le spalle e le braccia vigorose. Inoltre, la voluminosa faccia rossastra e soprattutto la pancia erano tipiche di chi a tavola non teme rivali.
Era venuto a riprendere e riportare a casa la coppia di coniugi e la loro bambina, non avendo questi la macchina. Lo conoscevano tutti, capii. A Ela, stravaccata sul divanetto con il petto di pollo e svariati cicchetti di grappa nello stomaco, chiese evidentemente chi fossi, perché la sentii dire:
«Lui è l’amore mio».
Non mi scomposi, benché la notizia risultasse abbastanza stravagante, specie a me che ne ero del tutto ignaro. Nell’intimo però una domanda divertita me la rivolsi: ‘‘Ah, sì, e da quando?’’.
Ma fu qualche minuto più tardi che Ela si giocò il tutto per tutto, dichiarando ad alta voce – del resto ero seduto a una certa distanza da lei – affinché ognuno dei presenti udisse bene:
«Io voglio un figlio da te».
Stavolta non mi venne da ridere. La pena m’inibì qualsiasi spiritosaggine. Aveva abortito sì e no da un mese ma ricorreva a qualunque trucco per far di me un suo cliente, come d’altronde suoi clienti già erano Gregorio e il Bullo.
Non avevo scelta. Mi alzai e andai via, camminando tranquillo verso casa nella tiepida sera autunnale.

Il diciotto dicembre Ela e gli altri tre rumeni sono partiti per trascorrere in patria le festività di fine anno. Gregorio è tornato a San Leonardo la sera del sei gennaio. Da solo, senza la donna. Qualche giorno più tardi mi disse, sebbene nulla al riguardo gli chiedessi, che dopo di lui anche Ela era tornata. Lavorava adesso in un night di Larino, del quale il Bullo di Casacalenda è uno dei comproprietari. Come pure è comproprietario di un night di Vasto.
E con questo il cerchio si chiude.
(9 – Fine)

domenica 17 febbraio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - ottava puntata


Riassunto delle puntate precedenti
Ela, l’immigrata transilvana che coabita in un piccolo alloggio con tre rumeni e intrattiene rapporti con il Bullo di Casacalenda, una sera di fine agosto incontra al supermercato Sara, la sua amica italiana, che notando il pancione le chiede sorridendo:
«Sei in dolce attesa?».
«No», risponde lei.
I primi di settembre quel pancione all’improvviso scomparirà.

Ottava puntata
Il primo sabato di ottobre, all’imbrunire, terminata la giornata di lavoro e riposti gli attrezzi nella rimessa condominiale, Gregorio se ne tornava nel suo alloggio e passò sotto la mia terrazza, dov’ero seduto a leggere.
Com’è naturale, ci scambiammo la buona sera. Lui inoltre mi chiese:
«Signor Gabriele, le piace la zuppa di pesce?».
«Veramente, non l’ho mai mangiata».
«E allora domani venga a pranzo da noi, cuciniamo zuppa di pesce. Ci saranno anche degli amici».
Una scusa plausibile e al tempo stesso poco offensiva per rifiutare l’invito non riuscii a trovarla. Gli rivolsi invece una domanda tanto banale quanto ingenua:
«Ma è buona?».
«Buonissima».
Difficile aspettarsi una risposta diversa.
«D’accordo, grazie, verrò ad assaggiarla. Buona sera, Gregorio».
«Buona sera».
Domenica sette ottobre, intorno all’una, mi presentai nell’appartamentino dei rumeni.
I tre uomini di casa, ossia Gregorio, Emilio e Miha, nonché il micio Suso, si trovavano ovviamente in sede. Gli invitati erano una coppia di coniugi rumeni con la loro bambina e un imprenditore edile di San Leonardo con la sua giovane amica rumena.
Questa ragazza si chiamava Valentina e poteva al massimo avere venticinque anni. Mi disse che stava in Italia da tre mesi.
«Un mese da sola e due con Ernesto», puntualizzò.
Ernesto, l’arzillo imprenditore di mezz’età con baffi e pizzetto grigi, io lo conoscevo bene. L’anno precedente mi aveva riparato il tetto.
Gli sposi si chiamavano Fëdor e Dana, la loro figlioletta di tre anni si chiamava Stefania. Grassa Dana, laureata in lingue, magrissimo Fëdor, muratore. Stefania, bionda e vivace.
Con Ela, nel cucinino, ci stava il Bullo di Casacalenda. Ovvero, la mente e il braccio. Nel senso che le istruzioni le dava il Bullo e Ela rimescolava con un cucchiaione di legno la zuppa che cuoceva in un gigantesco tegame di terracotta. Almeno sessanta centimetri di diametro, giuro.
Il Bullo, da grande esperto culinario, si profuse in spiegazioni. Mi parve un fatto abbastanza normale. I divorziati diventano tutti, per forza o per buona voglia, dei grandi chef. Mentre noi scapoli, si sa, riusciamo a malapena a cucinare un uovo sodo. Per noi zitelloni è più dignitoso morir di fame che imparare a cucinare. Noblesse oblige, come suol dirsi.
A farla breve, nella broda ribollivano scorfani, triglie, cozze, gamberi, calamari, pomodorini mignon, più annessi e connessi vari. Per gli occhi, un gran brutto spettacolo, vi assicuro. E per il naso... be’, tralasciamo.
Ela, notai, sembrava sulle spine. E non mi riferisco a quelle dei pesci. Altre ragioni provocavano il suo imbarazzo. Non potermi nascondere la tangibile familiarità con il Bullo, per esempio, rappresentava senza meno un bel problema, per lei.
Al Bullo brillavano i Rayban – di lui nessuno potrà infatti mai dire d’avergli visto brillare gli occhi, poiché li occulta notte e giorno dietro le lenti affumicate – e fremevano le orecchie a sventola. I motivi di tanta eccitazione, mi sarei presto accorto, non derivavano dalla prosopopea del gran gourmet di cui aveva appena fatto sfoggio. Era in vena di portentose maldicenze e sentiva già l’acquolina in bocca.
Dal cucinino, lui e io, ci spostammo al balcone del soggiorno. A un’anta della portafinestra mancavano i vetri e larghi schizzi di un qualche liquido, birra o vino, macchiavano una parete della stanza. Indizi inconfutabili di recenti risse. A fine agosto, quando ero entrato lì per la prima volta, quei segni non apparivano.
«Gregorio e la ragazza», mi sussurrò il Bullo, «non sono cugini».
Reagii a quel segreto di pulcinella con il silenzio che meritava. Il Bullo, sempre con la stessa voce da cospiratore, non si diede per vinto e tirò fuori il carico da undici:
«La ragazza, fino all’inizio di quest’anno, ha lavorato in un night di Vasto. Lei e le colleghe abitavano qua vicino, al Miramar».
Il Miramar è un residence situato qualche centinaio di metri più a nord del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’. Nemmeno questa novità mi scalfì più di tanto. Oltre tutto, il sospetto m’era sorto nell’istante stesso che l’avevo conosciuta, quando proprio Ela mi aveva confidato:
«Non voglio andare né sulla strada né lavorare ai night».
‘‘Be’, siete proprio travolti da un amore ardente l’uno per l’altra’’, pensai. ‘‘Lei, per farmi credere di disprezzarti, afferma che sei vecchio, ubriacone, cocainomane e invertito, e tu me la descrivi come una puttanella bugiarda perché hai paura di un mio eventuale interessamento nei suoi riguardi. Fate pena, tutti e due’’.
«Questa ragazza», gli dissi, «ha una bambina di dieci anni e né lei né la figlia, nelle attuali condizioni, hanno un futuro. Tu vivi da sempre qui, a San Leonardo, un minimo di conoscenze ce le avrai, suppongo. Perché non provi a darle una mano? A trovarle un lavoro? Magari come domestica, come sguattera. Qualcosa così».
I Rayban mandarono un lampo indispettito.
«Io penso solo ai cazzi miei».
‘‘Bravo, complimenti’’, lo elogiai col pensiero, ‘‘pragmatici bisogna essere. Ma non ti rendi conto che ti stai sputando in faccia?’’.
No, non se ne rendeva conto. Se ne avesse avuto la capacità non sarebbe stato il Bullo di Casacalenda.
Ah, questi satiri di paese.
(8 – Continua)

venerdì 8 febbraio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - settima puntata


Riassunto delle puntate precedenti
A Ela, immigrata rumena che coabita in un piccolo alloggio con tre suoi connazionali e intrattiene rapporti, non solo di lavoro, con il Bullo di Casacalenda, domenica diciassette giugno muore la madre.
Parte in aereo per partecipare ai funerali e dalla Romania mi telefona più volte, passandomi addirittura la figlioletta di dieci anni. Al suo ritorno a San Leonardo io mi trovo altrove e, per ovvi motivi, preferisco tenere il cellulare spento. Non appena però mi rivede, oltre una settimana più tardi, allorché transita davanti casa seduta sul cassone dell’Ape di Gregorio, attacca a inviarmi sms piuttosto teneri. Cerco, con le mie risposte, di smorzarle gli ardori, arrivando persino a dire: ‘‘Ela, io non sono l’uomo per te, perché ho un carattere duro. Accontentati di chi si veste come un pagliaccio, si profuma come una puttana e porta al polso orologi da cafone’’.
E lei ribatte: ‘‘Ma il Bullo non fa l’amore con le donne. E quindi...’’.
Il Bullo, cioè, sarebbe un pederasta.

Settima puntata
Ai primi di agosto finii di ripittare le pareti di casa, feci perciò venire Ela ad aiutarmi a pulire. Non la chiamai direttamente, rivolsi la richiesta a Gregorio, dato che il capoccia della combriccola rumena del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’ era lui.
La trattai con misurata cortesia. Fui insomma estremamente compito. Non proprio freddo ma nemmeno caloroso, ecco. Un datore di lavoro molto, molto a modo. Pignolo quanto basta, esigente quanto basta, alla mano quanto basta. Ci sbrigammo in due mezze mattinate, dopo di che, per giorni interi, non la rividi.
Ah, dimenticavo, la pancia le era cresciuta. Le larghe camicie che indossava non riuscivano a nascondere la realtà.
Verso la fine del mese, un pomeriggio, dovendo uscire per fare la spesa, scesi in garage. Davanti alla saracinesca Ela e Gregorio ramazzavano il viale asfaltato. Li salutai.
«Signor Gabriele, vuol venire a pesca con noi?», Gregorio mi chiese.
«A pesca? In riva al mare?».
«No, no in riva al mare. In un lago. Tra un po’ andiamo».
«In macchina?».
«Sì, con la macchina di un amico mio».
«Io veramente dovrei andare a fare la spesa». Gli occhi, non volendo, mi caddero sulla pancia di Ela. Non che sperassi di appurare chi sa che cosa, ma l’evidente ingrossamento stuzzicava la mia curiosità. «E va bene, la spesa la farò domattina. Quando si parte?».
«Tra mezz’ora. L’aspettiamo a casa, d’accordo?».
Una mezz’oretta più tardi raggiunsi il piccolo appartamento di proprietà del condominio situato nell’ex albergo. Non vi avevo mai messo piede. La porta d’ingresso era spalancata.
«Permesso?».
«Avanti», mi rispose pronta la voce di Gregorio.
Dalla soglia si accedeva in un angusto disimpegno che aveva una porta per lato. Quella dirimpetto all’entrata e quella a destra erano chiuse. Quella a sinistra, aperta, immetteva nel soggiorno. Qui Gregorio e un altro uomo mai visto prima sedevano spalla a spalla su un divanetto troppo piccolo per le loro stazze, ciascuno con un bicchiere in mano. Lo sconosciuto somigliava all’omino Michelin, tanto era cicciotto. Ela sedeva accanto alla porta, con la schiena alla parete.
«Una grappa, signor Gabriele?», Gregorio mi offrì.
I due, dunque, per affrontare al meglio le immani fatiche della pesca sportiva stavano trincando grappa.
«Grazie, no».
L’omino Michelin si alzò, non senza sforzo, e mi strinse la mano, presentandosi con il nome di Ovidio. Mancavano gli altri due rumeni, quelli che lì abitavano insieme a Gregorio e a Ela. O continuavano a lavorare nel villaggio, oppure la pesca non era il loro sport preferito.
Gettai uno sguardo intorno. La mobilia sembrava raccattata in oscure soffitte dopo decenni d’abbandono. Delle tre o quattro sedie non ve ne erano due uguali. Una era impagliata, un’altra era di formica marrone, un’altra ancora di plastica bianca. Sul pavimento, in mattonelle bordò misura quindici per quindici, la scopa e lo straccio non venivano passati dai tempi di Noè.
Davanti al divanetto stava un tavolino rotondo. Accostato alla parete dov’era seduta Ela stava un altro tavolino, ma rettangolare. A colpirmi in maniera sorprendente fu, nell’angolo in fondo, il televisore. Era un modello antidiluviano, d’accordo, ma di grandezza smisurata. Cinquanta, sessanta pollici? Un Polifemo, lo definirei, anzi un autentico King Kong del tubo catodico.
Entrò dal balcone un gattino metà bianco e metà tigrato e mi si strusciò alle gambe. Mi chinai e lo carezzai.
«Oh, ma che bel micio»
«E’ di Mihaela», intervenne Gregorio. «Si chiama Suso».
«Suso?».
«Sì, Suso. Quand’era più piccolo si chiamava Susi. Ma adesso che è cresciuto ci siamo accorti che non è femmina, è maschio».
Ela, sottraendolo alle mie carezze, lo prese in braccio, quasi ne fosse gelosa.
Gregorio scolò l’ultimo sorso di grappa rimasta nel bicchiere, che posò vuoto sul tavolino rotondo, e si tirò su dal divano. Pensavo fosse giunta l’ora d’andare. E invece no, desiderava farmi visitare tutto il quartino, così potevo rendermi conto fino a che punto fosse bravo a tenerlo in maniera impeccabile.
«I mobili sono suoi?».
«E’ tutta roba mia. Quando sono venuto non c’era niente».
Il soffitto del cucinino, sopra la finestra, era nero di muffa. Più al centro era caduto l’intonaco, lasciando a nudo i travetti di laterizi.
«Ma qua ci piove».
«Eh, sì, all’amministratore gliel’ho già detto. Bisognerà mettere a posto».
Sui pensili erano accatastate pentole e padelle. Pile di piatti, bicchieri e altre pentole stavano pure su un tavolo di fianco al lavello.
Riattraversammo il soggiorno. Mi aprì una porta del disimpegno. Era il bagno. La scarsa luce entrava da una finestrella trenta per quaranta, a vasistas e con il vetro opaco. La tazza non aveva il coperchio e la ruggine stava divorando la lavatrice.
Richiuse la porta e aprì l’altra.
«Questa è la camera di Mihaela».
Sembrava copiata di sana pianta dal set di un film ambientato in un bordello. Pareti rosa confetto e letto matrimoniale dalle spalliere d’ottone. Dalla mantovana pendevano tende bianche a pois celesti. Non mancava nemmeno, nell’angolo opposto alla porta, una poltrona imbottita in vinilpelle color crema, con un tappeto steso ai piedi. Sotto la finestra e lungo la parete di fronte al letto erano allineate scansie rigurgitanti di pupazzi e pupazzetti.
I guanciali, entrambi non sprimacciati e visibili perché i bordi della sovraccoperta cresimi e del lenzuolo aragosta erano stati rimboccati, fornivano senz’ombra di dubbio la prova che in quel letto non dormiva una persona sola.
«Bella, eh?».
‘‘Da rimanerci secco’’, pensai.
«Sì, molto».
Concluso il tour della reggia, finalmente si partì. Caricarono canne e borse nel portabagagli della Ford giardinetta di Ovidio, blu e con targa rumena. Suso, il gattino, seguì la padroncina, accovacciandosi tra me e lei sul sedile di dietro.
Ovidio uscì sulla statale sedici, prendendo a sinistra. Un paio di chilometri più giù girò a destra nel sottopassaggio che trafora la massicciata della ferrovia e s’inerpicò su una stradina interpoderale, molto stretta ma con il manto d’asfalto, che risaliva la collina. Sul crinale incrociò una strada migliore, sulla quale svoltò a destra. Ne percorremmo qualche centinaio di metri per poi voltare a sinistra in una stradina ghiaiata. Si avanzò per un breve tratto e nei pressi di una casa colonica Ovidio fermò la Ford sotto l’ombra di un olmo.
Smontammo.
In basso, alla base del versante occidentale della collina, il laghetto rifletteva i raggi del sole calante. Era un invaso artificiale, realizzato probabilmente negli anni Sessanta a scopi irrigui, quattro o cinquecento metri di lunghezza e trecento di larghezza, chiuso a sud da una diga di cemento armato e con le sponde cinte da canneti.
I pescatori presero dal bagagliaio dell’auto la loro attrezzatura. Cominciammo a scendere costeggiando una vigna. Suso, il gattino, seguiva Ela, che appesantita dalla pancia e da un borsone si muoveva cauta. Attraversammo un campo di girasoli e fummo al lago.
Ovidio aveva una canna da pesca nuovissima e super tecnologica, in fibra di carbonio. Gregorio ne aveva una così e così, forse ereditata dal padre. Quella di Ela era invece ereditata di sicuro dal nonno, vecchia e malandata.
Attraverso un varco nel canneto raggiungemmo la riva. Gli uomini si appollaiarono su dei massi. Ela no, rimase in piedi. Infilarono i vermi negli ami e lanciarono le lenze in acqua. Ela, prima d’infilarli all’amo, li passava nella farina di mais.
In circa un’ora e mezza di languido sport, con il sole che a ponente si abbassava e c’inondava di luce e di calore, all’amo di Ovidio abboccarono tre pesci, a quello di Gregorio due. Ela non pescò nulla.
Non saprei dire che pesci fossero. Di certo non erano trote. Le trote le conosco bene, perché mi piace mangiarle. Erano piccoli, lunghi non più di quindici centimetri, dal profilo tozzo e spessi sì e no un centimetro e mezzo.
Al tramonto tornammo in macchina. Si partì e Ela disse qualcosa a Ovidio. Capii quel che gli aveva detto quando la Ford, anziché ridiscendere verso ‘‘Il Gabbiano’’, proseguì in direzione di San Leonardo. Mi stavano portando al supermercato per consentirmi così di far la spesa quella sera stessa, senza che il mattino appresso dovessi più pensarci.
Al parcheggio del supermercato scendemmo tutti. O meglio, quasi tutti. Suso no, rimase in macchina.
Presi il carrello.
Ela restò con me, mentre gli uomini ci precedettero puntando dritto agli scaffali degli alcolici. Davanti al banco del pane s’imbatté in Sara, la sua amica italiana incontrata un paio di mesi addietro proprio in quel supermercato.
Si salutarono e l’italiana con un sorriso radioso le chiese:
«Sei in dolce attesa?».
«No», rispose Ela a voce smorta.
Al che l’amica mi lanciò uno sguardo che avrebbe incenerito un toro. Il tacito significato di quell’occhiataccia era lampante: ‘‘Brutto porco, adesso la fai pure abortire’’.
Non avevo mai sfiorato Ela neanche con un dito. Ma sarebbe servito spiegarlo a quella donna? Tra me e me, ci risi su.
E comunque quel pancione, i primi di settembre, si sgonfiò come d’incanto.
(7 – Continua)