sabato 29 giugno 2013

L'ultimo incontro

Stavo a casa, solo, senza avere nulla da fare. Mi piace a volte oziare in solitudine, pensare, fantasticare nella più assoluta tranquillità, osservando le chiazze di sole filtrare dai vetri e tingere d’oro i mobili. Ma si era a novembre e non c’era sole e il tempo era cattivo. Decisi d’uscire, sapendo che una passeggiata mi avrebbe disteso i nervi.
Nel viale incontrai pochi passanti frettolosi inseguiti dalle foglie secche sollevate dal vento. Goccioline lievi scendevano dal cielo scuro.
Andai ai giardini pubblici e a lungo vagai tra le siepi dai contorni geometrici. Non c’era nessuno. Be’, quasi nessuno, perché merli e passeri, in verità, svolazzavano tra i rami spogli dei tigli e dei platani e una coppietta amoreggiava su una panchina. Le foglie cadute crocchiavano sotto le mie suole. Nelle fontane l’acqua sputata dalle cannelle intonava il tipico ritornello dell’acqua che sgorga, pacato e malinconico. A poco a poco mi sentii meglio e annusavo l’aria umida dei brevi pomeriggi autunnali.
In prossimità del tramonto mi avviai verso casa, ma non volli rincasare subito e feci una puntatina al bar. Al bar persi tempo a parlare del più e del meno con gli amici e mandai giù un paio di cicchetti. Uscii ch’era ormai buio. Il vento era diventato gelido. Sollevai il bavero dell’impermeabile e camminai rasente ai muri.
Cercai di accendermi una sigaretta, ma sprecai soltanto una quantità di cerini. Il vento soffiava troppo forte. Allora m’infilai in un portone e accesi al primo colpo.
La notai quando rialzai gli occhi. Se ne stava immobile e calma davanti a me. Allargò la bocca in un sorriso.
«Ciao», esordì modulando la voce su toni allegri.
Risposi con un cenno. Erano trascorsi diversi mesi da quando l’avevo vista per l’ultima volta.
Mi chiese una sigaretta, quindi continuò con la sua voce bassa e un tantino roca: «Adesso abito qui, vuoi salire?». E insisté contro la mia titubanza.
L’invito e quella sua gentilezza mi stupirono. Mi preoccupai, anche. Santo cielo, quello era il mio quartiere, che necessità aveva avuto di trasferirsi proprio lì? I miei primi sentimenti, insomma, furono di meraviglia e di fifa. E di pietà. Inevitabile, pericolosa pietà, perché la sua non era un’allegria vera, s’intuiva da un chilometro. Forse era angustiata da uno dei soliti momenti di depressione e sentiva il bisogno della compagnia di qualcuno. Persino la mia compagnia, dedussi, in mancanza di meglio poteva andarle bene. Al diavolo la fifa.
Le pareti dell’appartamento erano interamente coperte di quadri.
«Ti piacciono?».
Scelsi una risposta più diplomatica del secco no che mi prudeva sulla lingua: «Così così».
«Attento», disse, «il gioco della verità è sempre un gioco al massacro».
Una volta le avevo scritto quella frase in una lettera.
«Rettifico. Sono bellissimi».
Mentre mi sfilavo l’impermeabile si precipitò in salotto per ravvivare il fuoco del camino che lanciava tutt’intorno bagliori di un rosso cupo. Presi posto sul divano. Lei versò del brandy in due bicchieri.
«Il massacro, però, c’è già stato», dissi e mi riferivo, ovvio, alle circostanze in cui la nostra relazione era colata a picco, e non appena lo dissi già me ne pentivo. Morbosa com’era, poteva ravvisare in quella battuta rimpianti dai quali grazie a Dio ero sinceramente immune.
Di colpo la dolce increspatura scomparve dalle sue labbra. Temetti il peggio.
«Il massacro continua», sospirò fissando il vuoto.
Non capii cosa intendesse dire e dentro di me l’inquietudine crebbe. Comunque, inquietudine o meno, per poco non sbottai a ridere. Aveva sempre avuto il debole d’esprimersi per enigmi e d’assumere pose da donna fatale, tipo Greta Garbo in “Mata Hari”, e ciò senza dubbio costituiva uno degli aspetti più stravaganti della sua personalità. E la sua personalità, vi assicuro, era piuttosto frastagliata. Ad ogni modo preferii non ridere ed evitai inoltre di far domande. Posai lo sguardo sulla legna che ardeva, bevvi a piccoli sorsi il brandy. Intanto venne a sedersi sul divano, accanto a me.
«Cos’hai sognato?».
Stavolta non avevo alcun motivo per non ridere e perciò risi. Era un nostro vecchio trastullo. Io le raccontavo i miei sogni e lei c’imbastiva su macchinosi tentativi psicanalitici.
«Non sogno più, da un pezzo».
«Dai».
«Niente da fare».
«Erotico?».
«No», protestai. Ma subito dopo, per compiacerla, annuii silenzioso e abbassai gli occhi sulla punta delle scarpe, fingendo vergogna.
Esplose in una risata sincera, con grande sfoggio di denti di porcellana.
«Ci risiamo», disse.
Versò di nuovo da bere. Ora il suo brio era autentico, nessuna preoccupazione lo velava. Aveva un umore a corrente alternata, adesso ombroso e l’attimo seguente pirotecnico e rimedi non ne esistevano. E ascoltandola ridere e scherzare scrutavo i suoi bei lineamenti e le vedevo luccicare i verdi occhi di smeraldo alla luce fioca del caminetto.
Bella donna. Bella e matta. Le passai una mano dietro la schiena, le carezzai il viso.
«Micio», mormorò. «Micino».
Mi congedai a notte inoltrata. La baciai ancora sulla soglia e promisi di rifarmi vivo.
Non l’ho più rivista. Tempo dopo seppi che si era sposata con un pittore pochi giorni prima del nostro ultimo incontro. E oggi, sul giornale, c’è la notizia del loro divorzio.



martedì 25 giugno 2013

Un tempo per demolire e un tempo per costruire

‘‘Per tutto c’è il suo tempo’’, dice l’Ecclesiaste, ‘‘c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo’’. E’ un’affermazione dannatamente vera, una perla di saggezza fra le tante di cui l’Antico Testamento è ricco. E’ però saggezza che non conforta. Se il tempo per demolire, nel quale viviamo, sembra non avere mai fine, conforto non c’è.
La domanda che ci assilla è sempre la stessa: s’invertirà il ciclo economico o avremo presto anche noi un tasso di disoccupazione pari a quello di Spagna e Grecia?
Rispondere è facilissimo. Sì, se le politiche economiche procicliche non verranno interrotte avremo pure noi livelli di disoccupazione spaventosi. Il debito pubblico infatti cresce e il reddito nazionale si contrae. La pubblica amministrazione è inoltre esposta per cifre ragguardevoli – c’è chi dice 140 miliardi – nei confronti dei fornitori.
Più debito pubblico significa più interessi da pagare, meno reddito prodotto vuol dire meno entrate fiscali. Con questi chiari di luna il vincolo di un deficit di bilancio del 3% in rapporto al pil, impostoci dalla Germania, andrà a farsi benedire. Per rispettarlo bisognerà tagliare la spesa e aumentare le imposte. Cioè continuare con le politiche economiche procicliche. L’arte dei pazzi.
Una speranza che la pressione fiscale non salga tuttavia esiste. E’ qualcosa che non dipende dalla nostra volontà. Dipende, diciamo, dagli imperscrutabili disegni del destino. Non è infatti escluso che la vigorosa economia tedesca possa buscarsi un bel raffreddore. Non dimentichiamo che il 40% delle esportazioni made in Deutschland è diretto verso gli altri paesi dell’eurozona. Poiché la medicina tedesca ha fatto ammalare i suoi migliori clienti, le loro esportazioni nell’area caleranno. E dal momento che le economie di Cina e altri paesi emergenti rallentano, è difficile ipotizzare che l’industria teutonica possa trovare in tempi rapidi validi sostituti alla gallina dalle uova d’oro ormai moribonda.
In questo caso Frau Merkel o chi per lei dovrà addolcire il rigore esercitato finora ai danni altrui, perché si vedrà costretta a sostenere la propria economia con politiche di bilancio più accomodanti, dando così il cattivo esempio alle cicale che non riescono a sottostare al vincolo del 3%, e si vedrà persino costretta a pagare tassi d’interesse maggiori ai sottoscrittori di bund.
Naturalmente, mal comune mezzo gaudio. Ma mezzo gaudio, nella migliore delle ipotesi, equivale a stagnazione. E dunque, il numero dei disoccupati smetterà forse di salire, tuttavia non inizierà a scendere. Affinché ciò accada sarebbe necessario attuare con vigore politiche economiche anticicliche. Ma un paese privo di sovranità monetaria, nonché appesantito da un debito pubblico di tutto rispetto, non potrà mai finanziarle.
E allora?
Allora niente. Il tempo per costruire è lontano. Stop. Mettiamoci l’anima in pace.



sabato 22 giugno 2013

Lo stalinismo di grillo sparlante

In politica, come ampiamente noto, l’obbedienza dev’essere pronta, cieca e assoluta. Stando ai desideri di ogni gerarca di partito la parola d’ordine da imporre alle masse è una, sola e inequivocabile: credere, obbedire, combattere.
E’ così sia nei sistemi totalitari che in quelli democratici. Gli ordini delle gerarchie non si discutono. Nei sistemi democratici, però, mancando i campi di concentramento e non mancando invece una pluralità di partiti concorrenti, i gerarchi non possono contrastare un eventuale dissenso dei sottoposti ricorrendo all’eliminazione fisica. Uno spazio più o meno ampio alle critiche espresse all’interno della fazione viene perciò consentito. Non per niente i grandi partiti di massa si suddividono spesso in correnti, evitando in tal modo, se ci riescono, le scissioni e le diaspore.
Ma i cri cri, a quanto pare, preferiscono adottare il principio della tolleranza zero. Se fra loro qualcuno osa sollevare una pur minima obiezione all’operato di grillo sparlante non ha speranza alcuna di rimanere all’interno dell’associazione e viene immediatamente espulso.
Ciò è davvero fantastico.
Innanzitutto perché il movimento cri cri non è e non vuole essere un partito politico di vecchia concezione, bensì una libera associazione di cittadini. E si presuppone che fra donne e uomini liberamente associati si abbia la libertà di discutere e di partecipare alla definizione delle linee programmatiche da seguire.
E invece, nisba. Grillo sparlante decide e tu obbedisci. Sennò la porta là sta.
In secondo luogo, i cri cri si dichiarano favorevoli a introdurre nel nostro ordinamento ulteriori forme di democrazia diretta. Benissimo, qualunque liberale le auspica. Significherebbe accrescere le potestà del corpo elettorale e ridurre quelle in mano ai gerarchi di partito. Al loro interno, tuttavia, si applica lo stalinismo d’antan.
Mah.
Mi chiedo a questo punto quale debba essere lo stato d’animo di tanti loro elettori e di tanti loro eletti. Non buono, credo, non buono. Ciò che agli inizi sembrava una ventata d’aria fresca, capace di smuovere il nostro asfittico panorama politico, si sta rivelando una gelida corrente proveniente dalla Siberia.
Brr, Dio ce ne scampi e liberi.



giovedì 20 giugno 2013

Letteratura e verità

I romanzi, se ben scritti, si lasciano leggere d’un fiato. Alcuni, addirittura, oltre a essere godibilissimi sono anche indispensabili. Brilla, tra questi, ‘‘I viceré’’ di Federico De Roberto.
Come è possibile, mi si chiederà, che un libro pubblicato nel 1894, e per giunta piuttosto voluminoso, si lasci leggere d’un fiato?
E’ possibilissimo, perché De Roberto si esprimeva con prosa scorrevole e moderna e, soprattutto, sapeva scrivere i dialoghi, i quali da sempre, come sappiamo, sono l’osso duro e non masticabile dei narratori italiani.
A queste si aggiunge un’altra qualità assolutamente originale. E cioè, la psicologia dei suoi personaggi non è affatto monocorde, lineare o piatta. Tutt’altro. I singoli caratteri vengono sì mostrati in modo ben definito, ma l’antitetica complessità dei desideri, degli umori, degli stimoli psichici e, dunque, delle reazioni emotive e dei conseguenti volubili comportamenti sono dipinti con una tavolozza variegata e nitida.
Le vicende raccontate coprono un’arco temporale abbastanza lungo, dal 1855 al 1882, e hanno come epicentro Catania. Il libro inizia con la morte della dispotica principessa Teresa Uzeda di Francalanza e termina con la trionfale elezione al parlamento del nipote Consalvo. Gli Uzeda, discendenti da viceré spagnoli, sono boriosi e incredibilmente affamati di ricchezze. Il loro sentimento più delicato è la vanità. Nobili insomma di nome ma non d’animo.
Non si creda però che De Roberto si limiti a riferirci le vicissitudini di una famiglia dilaniata da ipocrisie, rivalità, cupidigie, invidie e odi fraterni. Il vero tema del romanzo è un’asciutta analisi del risorgimento e dei deludenti effetti dell’unità d’Italia. La classe politica che si forma una volta unificato il paese, tolta la vernice della retorica patriottarda, persegue un solo ideale, l’interesse personale, e usa lo stato unitario per riempirsi le saccocce.
E da allora, come ben sappiamo, nulla è cambiato.
E’ inevitabile, leggendo ‘‘I viceré’’, non correre con la mente a ‘‘Il gattopardo’’, la celebre opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ma il libro di Tomasi, benché scritto sessant’anni dopo, è meno attuale de ‘‘I viceré’’. Il nucleo tematico del romanzo di Tomasi è racchiuso nella battuta ‘‘perché nulla cambi bisogna che tutto cambi’’. Da Federico De Roberto traiamo invece un insegnamento ben più pregnante.
Quale?
‘‘Dall’unità d’Italia a oggi nulla è cambiato, tutto è rimasto tale e quale’’.
Sì, diciamolo, la letteratura è davvero preziosa se ci racconta la verità.



mercoledì 12 giugno 2013

La moneta della discordia

Voglio parlare oggi di un argomento affascinante.
I soldi.
Chi mi conosce sa che sono un pagano politeista. Il monoteismo non mi si addice. Sono, le monoteiste, religioni che obbligano e vietano, peggio del codice della strada. E poi, nel corso dei secoli, si sono sempre mischiate con la politica, provocando a volte conflitti sanguinosi. Per carità, lasciamole perdere.
Le divinità che adoro sono la dea Moneta e la dea Venere. Bacco no, essendo un dio a misura di cocainomani e alcolizzati. Quelli cioè che senza alcol, cocaina e Viagra non batterebbero un chiodo.
Negli ultimissimi anni devo però dire che la mia fede nella dea Moneta si è fortemente affievolita. Non che sia divenuto del tutto miscredente. Ma insomma, quasi quasi...
Queste mia crisi spirituale non nasce da ragioni astratte, ma da eventi recenti e concreti. Come ogni persona con un minimo di sale in zucca sa e ammette francamente, i soldi danno la felicità. E’ per questo che li amiamo. Senza soldi non si batte un chiodo, per rimanere entro l’ambito della metafora già ricordata. E allora come mai, negli ultimi tre anni, l’euro ha reso infelici tutti fuorché i tedeschi? Non avrebbe dovuto essere uno strumento per realizzare la gioia dell’Europa unita?
Sì, avrebbe dovuto.
E allora perché succede quello che sta succedendo? Di chi è la colpa?
Le più comuni risposte a tali angosciose domande sono di due tipi. C’è chi sostiene che una moneta senza uno stato – e né l’Unione Europea né l’eurozona sono stati – non funziona né può funzionare. A prescindere, per così dire.
Altri addebitano i guai odierni al trattato di Maastricht, che vieta alla Banca centrale europea di finanziare gli stati con lo scoperto di tesoreria o acquistando le loro obbligazioni alle aste.
Sembrerebbero tesi plausibili e un granello di verità forse ce l’hanno. Però spiegano l’attuale infelicità di sedici stati su diciassette entrati nell’unione monetaria. Non spiegano, infatti, la felicità della Germania.
Dunque, se l’euro rende tutti infelici, salvo i tedeschi, la ragione non sta nell’euro in sé, semplice strumento, ma in come lo si è usato. Cerchiamo perciò di capire come l’hanno ben usato i tedeschi e male gli altri.
L’aspetto cruciale è uno e uno soltanto. Aderendo alla moneta unica ciascun paese ha rinunciato alla potestà di batter moneta. Cosa ne deriva? Semplice, gli stati privi di sovranità monetaria possono finanziare le proprie spese solo attraverso il prelievo fiscale e il debito pubblico, ma non più stampando moneta.
Ciò impone dei vincoli di politica economica ben precisi. Se non si vuol perdere la fiducia dei sottoscrittori delle obbligazioni pubbliche e se si desidera che il flusso delle entrate erariali, a parità di pressione fiscale, si mantenga stabile, è necessario che l’apparato produttivo di un paese venga adeguatamente salvaguardato.
La Germania è riuscita a salvaguardare e rafforzare il proprio sistema economico, i paesi dell’Europa mediterranea no.
Ebbene, come e perché i tedeschi ci sono riusciti?
Be’, hanno bloccato la crescita salariale. Fatti pari a 100 i salari medi tedeschi del 2002, l’indice, calcolato al netto dell’inflazione, dieci anni dopo segnava 98. Lo stesso indice, riferito ai salari italiani, registra per il medesimo periodo una progressione che parte da 100 e arriva a 125. L’artefice di tale scelta fu l’allora cancelliere Gerhard Schröder, un socialista, mica uno sporco servo dei capitalisti.
Quale sono gli effetti di un blocco dei salari? Elementare, Watson. Se i salari non salgono si favoriscono i profitti. E il profitto è il motore dell’investimento. Realizzando maggiori profitti le aziende hanno più soldi da spendere in opifici, macchinari e scorte, da destinare all’innovazione dei prodotti, o allo studio e al lancio di nuovi prodotti, nonché all’introduzione di nuovi processi produttivi, al fine di abbassare i costi medi. Grazie a tutto questo l’industria tedesca, anno dopo anno, ha aumentato la propria produttività, ossia il valore della produzione per addetto, diventando più competitiva nei confronti dei concorrenti dell’eurozona. Non a caso i maggiori successi l’export tedesco li ha riscossi giusto nei mercati dell’eurozona, non tanto nel resto del mondo.
Gli altri paesi hanno invece seguito un’altra strada. Hanno sostenuto i consumi accrescendo il debito pubblico, sperando che la riduzione dei tassi d’interesse sui loro titoli di stato durasse in eterno.
Sostenere i consumi, in un mercato aperto, non va a vantaggio dei soli produttori nazionali. L’accresciuta domanda in parte si rivolge ai mercati esteri, provocando l’aumento delle importazioni. Salari che salgono deprimono inoltre i profitti e gli investimenti, impedendo alla produttività di aumentare. E se la produttività non sale i costi di produzione non si riducono, a discapito delle esportazioni. Insomma, si rivela alla lunga un cattivo affare.
Quando nel 2010 è scoppiata la crisi dei debiti sovrani, perché era venuto alla luce che i greci avevano spacciato per veri conti pubblici fasulli, si sono di conseguenza aggravati i dolori di pancia. Il governo della repubblica federale tedesca non si è lasciato sfuggire l’occasione per danneggiare gli apparati produttivi dei suoi concorrenti dell’eurozona, imponendo loro politiche economiche procicliche, giustificando l’amabile consiglio con la necessità e l’obbligo, da parte delle cicale, di risanare le finanze pubbliche dissestate.
Non si è però mai visto, nella storia millenaria dell’umanità, che politiche economiche procicliche abbiano risanato alcunché. I tedeschi questo lo sanno bene, avendolo sperimentato sulla propria pelle. Dal 1930 al 1932 l’allora cancelliere Heinrich Brüning, aumentando le tasse e tagliando la spesa, creò sei milioni di disoccupati, spianando la strada a Hitler. Il caporale austriaco, operando in maniera diametralmente opposta, ridusse in tre anni la disoccupazione allo zero per cento.
I risultati delle cure propinateci dall’alleato germanico sono strepitosi. Nell’Europa mediterranea la disoccupazione sale a livelli astronomici, mentre in Germania scende come non mai. Deutschland, Deutschland über alles.
Capite adesso perché la mia fede nella dea Moneta, giorno per giorno, si sta estinguendo?
Sì, è colpa dell’euro.
I soldi, diceva uno, bisogna saperli spendere. Noi, mi sa, l’euro l’abbiamo speso male.



venerdì 7 giugno 2013

Macchiette e giornali

Non leggo più i giornali dal 1993. Sono passati esattamente vent’anni.
La ragione si deve a un articolo, a firma d’Enzo Biagi, apparso l’anno prima sul ‘‘Corriere della Sera’’, nel quale il famoso giornalista incensava una macchietta.
Mi è impossibile, per motivi igienici, pronunciare della macchietta il nome. Se lo facessi mi sporcherei la bocca. Posso soltanto dire che si tratta di un misero e risibile semianalfabeta. E’ infatti ancora vivente, benché, alle ultime elezioni politiche, gli elettori lo abbiano trombato una volta per tutte.
Sin dall’infanzia i miei rapporti con i giornali si erano mantenuti sempre stretti. Cominciai infatti a leggerli da bambino. Leggevo per l’esattezza quello che mio padre riportava a casa tutti i giorni. Glielo prendevo, lo posavo sul pavimento e lo sfogliavo. A diciassette anni, poi, divenni cronista di un quotidiano regionale.
Quel foglio si chiamava ‘‘Il Mezzogiorno d’Abruzzo’’. Era nato come giornale elettorale dedito alla causa democristiana. Non a caso, suo primo direttore fu il simpaticissimo Paolo Cavallina, l’indimenticato conduttore di ‘‘Chiamate Roma 3131’’. Quando però nel 1973 entrai nella redazione aquilana, lo aveva sostituito Mario Guerra, ossia l’ultimo direttore del defunto ‘‘Momento Sera’’, e l’orientamento politico era cambiato. La testata aveva abiurato la propaganda a favore dello scudo crociato e s’era convertita al garofano. Vale a dire al socialismo di Benito Craxi.
(Benito ho detto? E va be’, sarà stato un lapsus).
‘‘Il Mezzogiorno d’Abruzzo’’ nessuno lo leggeva. Non riusciva, in sostanza, neanche a reggere la concorrenza della carta igienica. Aveva un solo inviato speciale, un certo De Angelis, se ne ricordo bene il nome, privo sia di patente che di macchina. Aveva chiaramente sbagliato secolo, o forse non si era ancora accorto che l’Ottocento era trascorso da un pezzo.
A me facevano scrivere di tutto. Critiche d’arte, pezzi di nera, note politiche, corsivi satirici. Una volta mi mandarono a intervistare l’allenatore di una squadretta di calcio. Fu un’esperienza traumatica. In vita mia non ho mai assistito a una partita di pallone e possiedo, in materia, un’assoluta incompetenza. Ma non fu questo a crearmi problemi. Ben altro mi sconvolse. Lo sportivo, terminato l’allenamento, mi concesse l’intervista mentre si faceva la doccia. A me, che ho un incorreggibile debole per le donne, gli uomini fanno schifo vestiti, figuratevi nudi.
Ma non tergiversiamo e torniamo a Enzo Biagi. Di lui ammiravo una capacità che di solito ai giornalisti italiani manca quasi del tutto. Scriveva divinamente e la sue frasi rapide e taglienti si lasciavano leggere con gusto. Lessi dunque sul finire del ‘92 la sua intervista alla macchietta di cui sopra. Ne dipingeva un quadro esaltante. Figlio di gente umile, aveva preso il diploma di perito industriale, emigrando in Germania. Rientrato in patria, si era laureato in legge, riuscendo a vincere un concorso nella pubblica amministrazione. Aveva di seguito superato un altro concorso, entrando in un altro settore del pubblico impiego. Nel frattempo si era sposato, aveva divorziato e s’era risposato ancora, sia pure con una donna diversa. Insomma, una vera lenza, come sul dirsi. Biagi, tra le righe, dava per scontato che la macchietta avrebbe presto camminato sulle acque, moltiplicato i pesci e trasformato l’acqua in vino.
Il futuro della macchietta sarebbe invece stato molto più prosaico. Fondò un partitucolo, portando in parlamento un gruppetto di tipi che, ricevuta una congrua, nonché cospicua offerta, avrebbero cambiato casacca senza pensarci due volte. Gente davvero attenta ai valori, purché materiali. Ma di quel partitucolo non ne rimangono oramai che frattaglie destinate al più completo oblio. Torniamo perciò al 1993.
I primi mesi di quell’anno trasmisero in televisione alcune fasi di un processo svoltosi a carico di un ex assessore comunale, rinviato a giudizio con l’accusa di finanziamento illecito del partito socialista. Ma il dato veramente degno di menzione, per il quale verrà ricordato in eterno, non è questo, quanto piuttosto il fatto che l’assessore era amico di Demetra Hampton, una delle più favolose bellezze di tutti i tempi.
A quella trasmissione televisiva partecipava pure la macchietta. Si strusciava il microfono sul muso e ogni tre parole diceva okay, per dare magari l’impressione di conoscere le lingue. Peccato però che mostrasse, anche e soprattutto, di non conoscere l’italiano. Un semianalfabeta con i fiocchi. Da primato.
Ne rimasi sbalordito, dato che Biagi, nel suo articolo, aveva dichiarato d’essersi trattenuto a colloquio con la macchietta addirittura un paio d’ore. E in due ore, mi chiesi, possibile che non si sia reso conto che stava parlando con un semianalfabeta? Non potei che trarne le dovute conclusioni. Se non posso nemmeno fidarmi di Biagi, riflettei, i giornali è meglio non leggerli.
E mi sono da allora attenuto, con scrupolo, all’inevitabile decisione.



sabato 1 giugno 2013

La visita

Quell’anno il bel tempo venne all’improvviso e io gli spalancai le finestre.
A febbraio avevamo avuto neve e gelo e all’inizio di marzo, ricordo, piovve quasi di continuo. Il freddo ci tormentò fino a metà mese, un freddo umido che si appiccicava alle cose e alle persone come una colla triste. La sera si alzava la nebbia.
Poi una mattina ci svegliammo e il cielo era sereno.
Assaporavo il tepore che penetrava nelle stanze e con gli occhi mangiavo la luce. Il prato davanti casa sotto il sole sembrava vivo; tutto era vivo e allegro: l’aria, i passanti, le macchine che sfrecciavano sulla strada, gli abeti della villa di fronte.
La mia tragedia sarebbe iniziata quel giorno e nulla me lo lasciava presagire.
Verso le undici avevo sbrigato le faccende e con Michela uscii sulla veranda per leggerle una fiaba. Faceva proprio caldo. Presto le gemme si sarebbero schiuse e la primavera avrebbe carezzato la terra con aromi e colori.
Dio, quanto sole.
«Leggi Cappuccetto Rosso, mamma».
Cercai la pagina sull’indice. Pirata, il gatto, mi si strusciava alle gambe. Una macchina si fermò al di là della nostra staccionata, sollevai lo sguardo e vidi l’Alfa di Sergio.
Mio marito scese dall’auto, aprì il cancelletto di legno e camminò sulla ghiaia. Non un gesto, non un sorriso. I suoi passi sulla ghiaia mandavano un rumore d’acqua scrosciante. Un rumore nervoso, violento. Ebbi subito il presentimento di qualcosa di brutto.
«Papà», strillò Michela e gli corse incontro. Lui l’abbracciò e se la strinse al petto.
Non disse una parola.
Nemmeno io gli chiesi nulla. Non era mai successo che tornasse dal lavoro con tre ore d’anticipo.
Entrammo in casa.
Si afflosciò su una poltrona del salotto, con la bambina sulle ginocchia. Contraeva le mascelle. Michela pure avvertì che qualcosa non andava. Gli posò una manina sulla guancia. Lui gliela baciò.
«Ho perso il posto», disse. Fece una smorfia. «Sono un disoccupato, ora».
Sergio era laureato in informatica e lavorava in una ditta dove elaboravano programmi per computer. Sapevo quanto i titolari lo stimassero. Non potevo figurarmi che lo avessero licenziato.
«Hai litigato con loro?».
«No. Gli hanno dichiarato fallimento. Sono venuti stamattina a mettere i sigilli».
«E tu? Non avevi sospettato niente?».
«Come facevo? Lo stipendio me l’hanno sempre pagato. Pensavo fosse una ditta solida. Chi ci andava a pensare?».
*
Sergio spedì curriculum. Affrontò colloqui. Un’infinità di curriculum, un’infinità di colloqui. Ricevette risposte negative, ricevette promesse. I mesi passarono e nessuno lo assunse. Si avviliva e era uno strazio vederlo ogni giorno più abbattuto, ogni giorno più disperato. I risparmi si assottigliavano.
«Senti», gli dissi, «posso rimettermi a lavorare». Prima di partorire avevo insegnato matematica in un liceo e alla nascita di nostra figlia avevo abbandonato l’insegnamento perché lui guadagnava bene e il mestiere di mamma si accorda male con la carriera. «Qualche supplenza la trovo. Magari posso dare lezioni private. Solo finché tu non ti procuri un lavoro».
Era contrario, ma i soldi ci servivano e quando cominciai a dare le prime ripetizioni scosse il capo e strinse le mascelle, però non mise bocca.
Soffriva.
Soffrivo.
Una sera preparavo la cena e rientrò tutto eccitato.
«Elena, ce l’ho fatta». Parlava a scatti, dall’emozione. Si tolse l’impermeabile, lo gettò sullo schienale di una sedia e mi abbracciò. «Ho un lavoro».
«Oh, Sergio, sono così contenta».
«È una piccola società. Hanno iniziato da poco e hanno bisogno di programmatori esperti. Attacco domani».
La mattina dopo, mentre si preparava a uscire in giacca e cravatta, gli notai lo sguardo deciso dell’uomo sicuro di sé. Non era più un disoccupato.
Siccome l’evento meritava un festeggiamento, cucinai un pranzetto di quelli extra: ravioli, vitello arrosto, crostata. Il gatto, con tutti quei buoni odorini che si diffondevano dai tegami, a momenti impazziva.
Suonarono alla porta. Mi sfilai il grembiule e andai ad aprire.
«È lei la signora Giuliani?».
Era un poliziotto.
«Sì».
«La moglie di Sergio Giuliani?».
«Sì? Cosa desidera?».
«Dovrei parlarle, se non le dispiace».
Aveva una faccia seria. Non mi piacque. No, non mi piacque.
«Prego, si accomodi».
Lo guidai in salotto. Non volle sedersi. Io mi accasciai sul bracciolo del divano. Le gambe già mi tremavano.
«Vede, signora, c’è stato un incidente».
Oh Dio, ti prego, questo no. Ti prego, ma non questo. Ti prego, ti prego, ti prego. Sentii le lacrime scorrermi lungo le guance. Calde, pesanti. Dio, no. Ti prego, no. «È... grave?».
Il poliziotto abbassò la testa. «È morto, signora».
«Oh, mio Dio, no!».
Un camion, spiegò, gli aveva tagliato la strada. No, non aveva sofferto, era morto sul colpo. La salma adesso stava all’obitorio. Gli dispiaceva, disse, gli dispiaceva tanto. No, non mi accompagni, non si disturbi. E andò via.
Eccomi sola. Vedova. A mordermi il pugno.
Perché? Perché? Perché?
Quando tumularono la bara non riuscivo a crederci. Sapevo che era vero, avveniva tutto davanti agli occhi miei, ma non potevo crederci. Era impossibile. Impossibile. Eppure Sergio era morto. Morto. L’uomo che avevo amato. L’uomo che mi aveva amato. Morto.
*
Dovetti vendere il villino. Non avevo i soldi per pagare il mutuo. Scaderono due rate e la banca mi spedì un telegramma. Speravo d’incassare i soldi dell’assicurazione. Sergio non era assicurato sulla vita, però l’assicurazione del camionista che me l’aveva ammazzato avrebbe dovuto sborsare il risarcimento, anche se, come al solito, invece di pagare avevano preferito intentare causa. Raccontai tutto questo a quelli della banca e loro, pazienti, cortesi, ascoltarono.
«Certo, signora, comprendiamo», disse il direttore della filiale.
«Eh», sospirò il funzionario addetto ai mutui, «con le assicurazioni è sempre la stessa storia».
«Sicuro», disse il direttore, «sono dei farabutti».
Ma c’erano due rate scoperte e loro, il direttore, l’addetto ai mutui, cortesi, pazienti, non potevano aspettare oltre. Come si sarebbero giustificati coi superiori? Non erano farabutti, loro. In conclusione, o saldavo il debito o mi vendevano la casa all’asta.
«A meno che...», buttò lì il direttore e s’interruppe.
«A meno che?».
«La venda direttamente lei. Così eviterà le spese legali. Sa, pignoramento, perizia e tutto quanto».
«Riuscirà senza dubbio a spuntare un prezzo più alto», aggiunse il suo tirapiedi.
Incaricai un’agenzia immobiliare e nel giro di poche settimane spuntò l’acquirente e la banca poté riavere i suoi dannati quattrini. La stessa agenzia mi scovò un appartamentino in fitto, due vani con bagno e cucina al quinto piano di un palazzone popolare, e ci trasferimmo. Nel frattempo avevo trovato lavoro in una scuola privata, un istituto specializzato in corsi di recupero, e iscrissi Michela all’asilo.
Michela, povera piccola, sopportò ogni cosa con dignità, meglio di un’adulta.
I guai grossi me li dette Pirata. La casa nuova non gli piacque. Miagolava perché gli aprissi la finestra del balconcino e dopo un po’, da fuori, riattaccava con gli ululati perché voleva rientrare. Lo sgridavo e lo minacciavo, ma non sentiva ragioni. Rimpiangeva il giardino perduto e non si adattava a vivere da carcerato. Come lo capivo.
*
Un pomeriggio correggevo i compiti. Era tornata la primavera e la finestra del balcone era socchiusa e il gatto, non avendo scuse per seccarmi, andava e veniva dentro e fuori a piacimento.
I miei alunni si dividevano in bravi e... somari. Pochi bravi e parecchi somari, da principio. Ma i somari avevano fatto progressi e i loro compiti in classe, passati al setaccio, non erano più un geroglifico di correzioni. Lo costatavo con un certo orgoglio. E mentre correggevo, tutta orgogliosa di me e dei miei allievi, ricevetti la visita di due donne.
«Disturbiamo?», disse una delle due, quella grassa.
Non le conoscevo. Si presentarono, ma i nomi, come capita spesso, mi sfuggirono. La grassa, che sembrava un bovino da latte, si dichiarò assistente sociale. La compagna, secca e nera, bassina, con i capelli tirati indietro e occhietti scuri e spiritati, era la dottoressa vattelappesca, psicologa.
«Accomodatevi», dissi e riaccostai la porta.
Non le invitai a sedere, non ero tanto sicura che fossero davvero un’assistente sociale e una psicologa. Dall’aspetto parevano piuttosto una coppia di lucciole in disarmo. Non so, sarà stato per i litri di profumo che si erano versato addosso, sarà stato per le facce cariche di trucco, per i vestitucci chiassosi, ma avevano l’aspetto di donne equivoche.
«Lei è la mamma di Michela, giusto?», disse la mucca.
La dottoressa con gli occhietti da svitata scrutò ogni angolo della stanza.
«Sì, sono la mamma di Michela».
«Bene, bene», disse la mucca. «Noi lavoriamo all’asilo dove va sua figlia», e lo sguardo da bue, cioè... da mucca, le scivolò su una poltrona. Crepava dalla voglia di affondarci il suo grosso deretano. Crepasse pure, io non ce lo volevo, il suo fondoschiena, sulla mia poltrona.
«Stamattina abbiamo parlato con Michela», disse la psicologa, con un atteggiamento vagamente intimidatorio. Aveva una vocina acuta, pizzicava le orecchie.
Mantenni la mia freddezza. «E che vi siete detto di bello?».
La domanda la sconcertò. Che si spettava? Che mi inginocchiassi a baciarle i piedi, quell’antipatica?
«Oh, niente di particolare», intervenne la mucca. «Noi parliamo con tutti i bambini dell’asilo. E se ci sono problemi, cerchiamo di risolverli».
«E ci sono problemi, con Michela?».
«Questo deve dircelo lei».
«Nessuno ce n’è. È una bambina adorabile, a voi non sembra?».
«Certo, certo», ammise la mucca e mostrando d’aver capito l’antifona aggiunse: «Be’, vedo che lei è occupata», e additò il pacco di fogli sul tavolo.
«Sì, correggo i compiti dei miei alunni».
«Lei insegna?».
«Matematica».
«Bene, bene. Magari torniamo un’altra volta. Quand’è meno occupata».
Quella sera domandai a Michela cosa le avessero detto quelle due ficcanaso.
«Niente. Mi hanno chiesto di papà».
Maledette.
«E tu che gli hai risposto?».
«Che papà è andato in cielo».
«Oh, cuoricino mio», e me la strinsi al seno.
*
Circa un mese più tardi un uscere mi notificò una carta del tribunale dei minori. Un giudice mi ordinava di condurre Michela a una visita psichiatrica. Ero incerta se piangere o mettermi a ridere. Vinsi la tentazione di stracciare a pezzettini il documento e volai all’asilo. La psicologa e l’assistente sociale non erano in sede, impegnate a combinar guai altrove. Interrogai la maestra giardiniera.
«Proprio non so che dirle», mi rispose. «È incredibile».
«Michela vi ha mai dato qualche problema?».
«Ma no, è una bambina così dolce. Forse un po’ chiusa, le piace starsene per conto suo».
«A ottobre le è morto il papà, è naturale che sia malinconica».
La donna si mordicchiò le labbra, dispiaciuta. «Se ha bisogno di aiuto, conti su di me».
«Grazie».
L’indomani mi recai al tribunale dei minori.
«Desidero parlare con il giudice», dissi al cancelliere.
«Non può».
«Come sarebbe, non posso?».
«Non si può, non è consentito».
«Bella, questa».
«I giudici non concedono udienze private. Vuole un consiglio?».
«Ossia?».
«Si rivolga a un avvocato».
«Un avvocato? A che mi serve un avvocato? Non ho mica commesso un crimine».
«Senta, dia retta a me, sia prudente. Si rivolga a un avvocato. Con certe cose non si scherza».
«Ma insomma, di che si tratta? Qual è la questione? Ho diritto di saperlo, no?».
Si grattò il lobo di un orecchio. «È una questione seria, cara signora. Guardi, io non sarei tenuto a dirglielo...».
«La prego, sia gentile».
«È arrivato un rapporto della psicologa e dell’assistente sociale e...».
Preciso come immaginavo. «È...?».
«Sostengono che sua figlia ha disturbi psichici e che lei non è una brava madre».
«Cosa?». Rabbia e paura. Rabbia, paura e incredulità. Un senso di vertigine mi costrinse a serrare gli occhi, per non cadere mi aggrappai al bordo della scrivania.
«Capisce, adesso? È una questione delicata. Possono toglierle la bambina e affidarla a un istituto, o a una famiglia».
Il terrore mi squarciò il cervello, i nervi, il sangue e la carne. Mi squarciò il cuore.
*
Alla data stabilita portai Michela alla visita.
Il centro di psichiatria infantile era alloggiato in una palazzina all’interno dell’ex manicomio provinciale. Sul luogo aleggiava un’atmosfera di abbandono. Le aiuole erano incolte, gli edifici scrostati. Sopra l’ingresso del centro di psichiatria infantile stava ancora scritto, a caratteri sbiaditi, “Padiglione Donne”.
Un’infermiera c’introdusse nell’ufficio del dottor Valentini.
Era un uomo bruno. Alto, vidi, quando si alzò per stringermi la mano. Garbato. Sorridente. Giovane. Trentacinque anni? Trentasei? Non aveva l’aria dello psichiatra. Oddio, in verità non ho idea di come debba essere uno psichiatra. Solo, mi aspettavo un tipo diverso. Lui non aveva i capelli arruffati. Non ti guardava fisso per imbarazzarti. Non aveva modi bruschi. Somigliava a un essere umano.
Prese Michela in braccio e sedette allo scrittoio, tenendola sulle ginocchia. «Ma che bella bimba. Come si chiama questa bella bimba? Michela? Ma che bel nome. E quanti anni hai, Michela? Me lo dici?».
Michela drizzò quattro ditini.
«Quattro? Ma che brava. Ora il dottore e Michela faranno un bel gioco. Ti piace giocare?».
«Sì».
Rovesciò sullo scrittoio una scatola piena di figure di legno colorate: cerchi, triangoli, quadrati, rettangoli.
«Me la costruisci una casetta?».
Michela abbinò un triangolo rosso a un quadrato verde.
«Ma che brava». Mi lanciò un’occhiata. «Non sia così tesa».
«Mica facile».
«Tranquilla, tranquilla, la bambina se la cava benissimo».
«Adesso faccio Pirata», disse Michela.
«Pirata?».
«È il nostro gatto», dissi.
Sorrise. «E allora forza, vediamo questo Pirata».
Michela sfoderò la sua vena artistica. Per ottenere la testa sovrappose a un cerchio un triangolo rovesciato, rivelando un’abilità che mi commosse, e per il corpo utilizzò il rettangolo più grande. Da tre quadratini ricavò la coda, le zampe anteriori e le posteriori.
«Oh, ma che bel micio». Mi riconsegnò la bambina. «Lei è vittima di un brutto scherzo, signora».
«Lo chiami scherzo».
«Sì, immagino quello che prova. Sa chi è stato?».
«La psicologa e l’assistente sociale dell’asilo».
«E perché?».
«Per darsi delle arie, credo. O meglio, per vendicarsi. Sono rimasta vedova da poco e questo deve aver acceso le loro fantasie. Un pomeriggio vennero a trovarmi a casa e io fui un po’ sbrigativa. Come vede, non me l’hanno perdonata».
Trasse un respiro. «Di arie non se ne daranno più, gliel’assicuro, non dopo che il giudice avrà letto la mia relazione. Nessuno le porterà via Michela».
«Dice sul serio, dottore?».
«Altroché».
Magari a voi sembrerà stupido, però io scoppiai in singhiozzi. Certe volte è così bello piangere.