Quell’anno il bel tempo venne all’improvviso e io gli spalancai le finestre.
A febbraio avevamo avuto neve e gelo e all’inizio di marzo, ricordo, piovve quasi di continuo. Il freddo ci tormentò fino a metà mese, un freddo umido che si appiccicava alle cose e alle persone come una colla triste. La sera si alzava la nebbia.
Poi una mattina ci svegliammo e il cielo era sereno.
Assaporavo il tepore che penetrava nelle stanze e con gli occhi mangiavo la luce. Il prato davanti casa sotto il sole sembrava vivo; tutto era vivo e allegro: l’aria, i passanti, le macchine che sfrecciavano sulla strada, gli abeti della villa di fronte.
La mia tragedia sarebbe iniziata quel giorno e nulla me lo lasciava presagire.
Verso le undici avevo sbrigato le faccende e con Michela uscii sulla veranda per leggerle una fiaba. Faceva proprio caldo. Presto le gemme si sarebbero schiuse e la primavera avrebbe carezzato la terra con aromi e colori.
Dio, quanto sole.
«Leggi Cappuccetto Rosso, mamma».
Cercai la pagina sull’indice. Pirata, il gatto, mi si strusciava alle gambe. Una macchina si fermò al di là della nostra staccionata, sollevai lo sguardo e vidi l’Alfa di Sergio.
Mio marito scese dall’auto, aprì il cancelletto di legno e camminò sulla ghiaia. Non un gesto, non un sorriso. I suoi passi sulla ghiaia mandavano un rumore d’acqua scrosciante. Un rumore nervoso, violento. Ebbi subito il presentimento di qualcosa di brutto.
«Papà», strillò Michela e gli corse incontro. Lui l’abbracciò e se la strinse al petto.
Non disse una parola.
Nemmeno io gli chiesi nulla. Non era mai successo che tornasse dal lavoro con tre ore d’anticipo.
Entrammo in casa.
Si afflosciò su una poltrona del salotto, con la bambina sulle ginocchia. Contraeva le mascelle. Michela pure avvertì che qualcosa non andava. Gli posò una manina sulla guancia. Lui gliela baciò.
«Ho perso il posto», disse. Fece una smorfia. «Sono un disoccupato, ora».
Sergio era laureato in informatica e lavorava in una ditta dove elaboravano programmi per computer. Sapevo quanto i titolari lo stimassero. Non potevo figurarmi che lo avessero licenziato.
«Hai litigato con loro?».
«No. Gli hanno dichiarato fallimento. Sono venuti stamattina a mettere i sigilli».
«E tu? Non avevi sospettato niente?».
«Come facevo? Lo stipendio me l’hanno sempre pagato. Pensavo fosse una ditta solida. Chi ci andava a pensare?».
*
Sergio spedì curriculum. Affrontò colloqui. Un’infinità di curriculum, un’infinità di colloqui. Ricevette risposte negative, ricevette promesse. I mesi passarono e nessuno lo assunse. Si avviliva e era uno strazio vederlo ogni giorno più abbattuto, ogni giorno più disperato. I risparmi si assottigliavano.
«Senti», gli dissi, «posso rimettermi a lavorare». Prima di partorire avevo insegnato matematica in un liceo e alla nascita di nostra figlia avevo abbandonato l’insegnamento perché lui guadagnava bene e il mestiere di mamma si accorda male con la carriera. «Qualche supplenza la trovo. Magari posso dare lezioni private. Solo finché tu non ti procuri un lavoro».
Era contrario, ma i soldi ci servivano e quando cominciai a dare le prime ripetizioni scosse il capo e strinse le mascelle, però non mise bocca.
Soffriva.
Soffrivo.
Una sera preparavo la cena e rientrò tutto eccitato.
«Elena, ce l’ho fatta». Parlava a scatti, dall’emozione. Si tolse l’impermeabile, lo gettò sullo schienale di una sedia e mi abbracciò. «Ho un lavoro».
«Oh, Sergio, sono così contenta».
«È una piccola società. Hanno iniziato da poco e hanno bisogno di programmatori esperti. Attacco domani».
La mattina dopo, mentre si preparava a uscire in giacca e cravatta, gli notai lo sguardo deciso dell’uomo sicuro di sé. Non era più un disoccupato.
Siccome l’evento meritava un festeggiamento, cucinai un pranzetto di quelli extra: ravioli, vitello arrosto, crostata. Il gatto, con tutti quei buoni odorini che si diffondevano dai tegami, a momenti impazziva.
Suonarono alla porta. Mi sfilai il grembiule e andai ad aprire.
«È lei la signora Giuliani?».
Era un poliziotto.
«Sì».
«La moglie di Sergio Giuliani?».
«Sì? Cosa desidera?».
«Dovrei parlarle, se non le dispiace».
Aveva una faccia seria. Non mi piacque. No, non mi piacque.
«Prego, si accomodi».
Lo guidai in salotto. Non volle sedersi. Io mi accasciai sul bracciolo del divano. Le gambe già mi tremavano.
«Vede, signora, c’è stato un incidente».
Oh Dio, ti prego, questo no. Ti prego, ma non questo. Ti prego, ti prego, ti prego. Sentii le lacrime scorrermi lungo le guance. Calde, pesanti. Dio, no. Ti prego, no. «È... grave?».
Il poliziotto abbassò la testa. «È morto, signora».
«Oh, mio Dio, no!».
Un camion, spiegò, gli aveva tagliato la strada. No, non aveva sofferto, era morto sul colpo. La salma adesso stava all’obitorio. Gli dispiaceva, disse, gli dispiaceva tanto. No, non mi accompagni, non si disturbi. E andò via.
Eccomi sola. Vedova. A mordermi il pugno.
Perché? Perché? Perché?
Quando tumularono la bara non riuscivo a crederci. Sapevo che era vero, avveniva tutto davanti agli occhi miei, ma non potevo crederci. Era impossibile. Impossibile. Eppure Sergio era morto. Morto. L’uomo che avevo amato. L’uomo che mi aveva amato. Morto.
*
Dovetti vendere il villino. Non avevo i soldi per pagare il mutuo. Scaderono due rate e la banca mi spedì un telegramma. Speravo d’incassare i soldi dell’assicurazione. Sergio non era assicurato sulla vita, però l’assicurazione del camionista che me l’aveva ammazzato avrebbe dovuto sborsare il risarcimento, anche se, come al solito, invece di pagare avevano preferito intentare causa. Raccontai tutto questo a quelli della banca e loro, pazienti, cortesi, ascoltarono.
«Certo, signora, comprendiamo», disse il direttore della filiale.
«Eh», sospirò il funzionario addetto ai mutui, «con le assicurazioni è sempre la stessa storia».
«Sicuro», disse il direttore, «sono dei farabutti».
Ma c’erano due rate scoperte e loro, il direttore, l’addetto ai mutui, cortesi, pazienti, non potevano aspettare oltre. Come si sarebbero giustificati coi superiori? Non erano farabutti, loro. In conclusione, o saldavo il debito o mi vendevano la casa all’asta.
«A meno che...», buttò lì il direttore e s’interruppe.
«A meno che?».
«La venda direttamente lei. Così eviterà le spese legali. Sa, pignoramento, perizia e tutto quanto».
«Riuscirà senza dubbio a spuntare un prezzo più alto», aggiunse il suo tirapiedi.
Incaricai un’agenzia immobiliare e nel giro di poche settimane spuntò l’acquirente e la banca poté riavere i suoi dannati quattrini. La stessa agenzia mi scovò un appartamentino in fitto, due vani con bagno e cucina al quinto piano di un palazzone popolare, e ci trasferimmo. Nel frattempo avevo trovato lavoro in una scuola privata, un istituto specializzato in corsi di recupero, e iscrissi Michela all’asilo.
Michela, povera piccola, sopportò ogni cosa con dignità, meglio di un’adulta.
I guai grossi me li dette Pirata. La casa nuova non gli piacque. Miagolava perché gli aprissi la finestra del balconcino e dopo un po’, da fuori, riattaccava con gli ululati perché voleva rientrare. Lo sgridavo e lo minacciavo, ma non sentiva ragioni. Rimpiangeva il giardino perduto e non si adattava a vivere da carcerato. Come lo capivo.
*
Un pomeriggio correggevo i compiti. Era tornata la primavera e la finestra del balcone era socchiusa e il gatto, non avendo scuse per seccarmi, andava e veniva dentro e fuori a piacimento.
I miei alunni si dividevano in bravi e... somari. Pochi bravi e parecchi somari, da principio. Ma i somari avevano fatto progressi e i loro compiti in classe, passati al setaccio, non erano più un geroglifico di correzioni. Lo costatavo con un certo orgoglio. E mentre correggevo, tutta orgogliosa di me e dei miei allievi, ricevetti la visita di due donne.
«Disturbiamo?», disse una delle due, quella grassa.
Non le conoscevo. Si presentarono, ma i nomi, come capita spesso, mi sfuggirono. La grassa, che sembrava un bovino da latte, si dichiarò assistente sociale. La compagna, secca e nera, bassina, con i capelli tirati indietro e occhietti scuri e spiritati, era la dottoressa vattelappesca, psicologa.
«Accomodatevi», dissi e riaccostai la porta.
Non le invitai a sedere, non ero tanto sicura che fossero davvero un’assistente sociale e una psicologa. Dall’aspetto parevano piuttosto una coppia di lucciole in disarmo. Non so, sarà stato per i litri di profumo che si erano versato addosso, sarà stato per le facce cariche di trucco, per i vestitucci chiassosi, ma avevano l’aspetto di donne equivoche.
«Lei è la mamma di Michela, giusto?», disse la mucca.
La dottoressa con gli occhietti da svitata scrutò ogni angolo della stanza.
«Sì, sono la mamma di Michela».
«Bene, bene», disse la mucca. «Noi lavoriamo all’asilo dove va sua figlia», e lo sguardo da bue, cioè... da mucca, le scivolò su una poltrona. Crepava dalla voglia di affondarci il suo grosso deretano. Crepasse pure, io non ce lo volevo, il suo fondoschiena, sulla mia poltrona.
«Stamattina abbiamo parlato con Michela», disse la psicologa, con un atteggiamento vagamente intimidatorio. Aveva una vocina acuta, pizzicava le orecchie.
Mantenni la mia freddezza. «E che vi siete detto di bello?».
La domanda la sconcertò. Che si spettava? Che mi inginocchiassi a baciarle i piedi, quell’antipatica?
«Oh, niente di particolare», intervenne la mucca. «Noi parliamo con tutti i bambini dell’asilo. E se ci sono problemi, cerchiamo di risolverli».
«E ci sono problemi, con Michela?».
«Questo deve dircelo lei».
«Nessuno ce n’è. È una bambina adorabile, a voi non sembra?».
«Certo, certo», ammise la mucca e mostrando d’aver capito l’antifona aggiunse: «Be’, vedo che lei è occupata», e additò il pacco di fogli sul tavolo.
«Sì, correggo i compiti dei miei alunni».
«Lei insegna?».
«Matematica».
«Bene, bene. Magari torniamo un’altra volta. Quand’è meno occupata».
Quella sera domandai a Michela cosa le avessero detto quelle due ficcanaso.
«Niente. Mi hanno chiesto di papà».
Maledette.
«E tu che gli hai risposto?».
«Che papà è andato in cielo».
«Oh, cuoricino mio», e me la strinsi al seno.
*
Circa un mese più tardi un uscere mi notificò una carta del tribunale dei minori. Un giudice mi ordinava di condurre Michela a una visita psichiatrica. Ero incerta se piangere o mettermi a ridere. Vinsi la tentazione di stracciare a pezzettini il documento e volai all’asilo. La psicologa e l’assistente sociale non erano in sede, impegnate a combinar guai altrove. Interrogai la maestra giardiniera.
«Proprio non so che dirle», mi rispose. «È incredibile».
«Michela vi ha mai dato qualche problema?».
«Ma no, è una bambina così dolce. Forse un po’ chiusa, le piace starsene per conto suo».
«A ottobre le è morto il papà, è naturale che sia malinconica».
La donna si mordicchiò le labbra, dispiaciuta. «Se ha bisogno di aiuto, conti su di me».
«Grazie».
L’indomani mi recai al tribunale dei minori.
«Desidero parlare con il giudice», dissi al cancelliere.
«Non può».
«Come sarebbe, non posso?».
«Non si può, non è consentito».
«Bella, questa».
«I giudici non concedono udienze private. Vuole un consiglio?».
«Ossia?».
«Si rivolga a un avvocato».
«Un avvocato? A che mi serve un avvocato? Non ho mica commesso un crimine».
«Senta, dia retta a me, sia prudente. Si rivolga a un avvocato. Con certe cose non si scherza».
«Ma insomma, di che si tratta? Qual è la questione? Ho diritto di saperlo, no?».
Si grattò il lobo di un orecchio. «È una questione seria, cara signora. Guardi, io non sarei tenuto a dirglielo...».
«La prego, sia gentile».
«È arrivato un rapporto della psicologa e dell’assistente sociale e...».
Preciso come immaginavo. «È...?».
«Sostengono che sua figlia ha disturbi psichici e che lei non è una brava madre».
«Cosa?». Rabbia e paura. Rabbia, paura e incredulità. Un senso di vertigine mi costrinse a serrare gli occhi, per non cadere mi aggrappai al bordo della scrivania.
«Capisce, adesso? È una questione delicata. Possono toglierle la bambina e affidarla a un istituto, o a una famiglia».
Il terrore mi squarciò il cervello, i nervi, il sangue e la carne. Mi squarciò il cuore.
*
Alla data stabilita portai Michela alla visita.
Il centro di psichiatria infantile era alloggiato in una palazzina all’interno dell’ex manicomio provinciale. Sul luogo aleggiava un’atmosfera di abbandono. Le aiuole erano incolte, gli edifici scrostati. Sopra l’ingresso del centro di psichiatria infantile stava ancora scritto, a caratteri sbiaditi, “Padiglione Donne”.
Un’infermiera c’introdusse nell’ufficio del dottor Valentini.
Era un uomo bruno. Alto, vidi, quando si alzò per stringermi la mano. Garbato. Sorridente. Giovane. Trentacinque anni? Trentasei? Non aveva l’aria dello psichiatra. Oddio, in verità non ho idea di come debba essere uno psichiatra. Solo, mi aspettavo un tipo diverso. Lui non aveva i capelli arruffati. Non ti guardava fisso per imbarazzarti. Non aveva modi bruschi. Somigliava a un essere umano.
Prese Michela in braccio e sedette allo scrittoio, tenendola sulle ginocchia. «Ma che bella bimba. Come si chiama questa bella bimba? Michela? Ma che bel nome. E quanti anni hai, Michela? Me lo dici?».
Michela drizzò quattro ditini.
«Quattro? Ma che brava. Ora il dottore e Michela faranno un bel gioco. Ti piace giocare?».
«Sì».
Rovesciò sullo scrittoio una scatola piena di figure di legno colorate: cerchi, triangoli, quadrati, rettangoli.
«Me la costruisci una casetta?».
Michela abbinò un triangolo rosso a un quadrato verde.
«Ma che brava». Mi lanciò un’occhiata. «Non sia così tesa».
«Mica facile».
«Tranquilla, tranquilla, la bambina se la cava benissimo».
«Adesso faccio Pirata», disse Michela.
«Pirata?».
«È il nostro gatto», dissi.
Sorrise. «E allora forza, vediamo questo Pirata».
Michela sfoderò la sua vena artistica. Per ottenere la testa sovrappose a un cerchio un triangolo rovesciato, rivelando un’abilità che mi commosse, e per il corpo utilizzò il rettangolo più grande. Da tre quadratini ricavò la coda, le zampe anteriori e le posteriori.
«Oh, ma che bel micio». Mi riconsegnò la bambina. «Lei è vittima di un brutto scherzo, signora».
«Lo chiami scherzo».
«Sì, immagino quello che prova. Sa chi è stato?».
«La psicologa e l’assistente sociale dell’asilo».
«E perché?».
«Per darsi delle arie, credo. O meglio, per vendicarsi. Sono rimasta vedova da poco e questo deve aver acceso le loro fantasie. Un pomeriggio vennero a trovarmi a casa e io fui un po’ sbrigativa. Come vede, non me l’hanno perdonata».
Trasse un respiro. «Di arie non se ne daranno più, gliel’assicuro, non dopo che il giudice avrà letto la mia relazione. Nessuno le porterà via Michela».
«Dice sul serio, dottore?».
«Altroché».
Bello e, purtroppo, verosimile.
RispondiEliminaSono lietissimo che ti sia piaciuto. Sei una scrittrice abile e sai conquistare la simpatia del lettore, ti lascio perciò immaginare quanto apprezzi un tuo complimento.
RispondiEliminaScrissi "La visita" in due giorni - per me, un miracolo, perché i miei ritmi di produzione sono lentissimi, da lumaca - dopo aver parlato con un'assistente sociale. La tizia sarebbe dovuta nascere in Germania intorno agli anni Venti e, dal '40 al '45, servire il Reich in un campo di sterminio. Una kapò coi fiocchi.
Per un attimo ho temuto per il lieto fine, visto il finale tragico che dai spesso ai tuoi racconti (finale che apprezzo, sia chiaro).
RispondiEliminaQui, però, con una bambina di mezzo... e con la tua abilità di rendere tutto verosimile...
Complimenti.
Be', Enrico, io non so mentire e quindi ti dirò la verità. Il racconto lo scrissi per un settimanale femminile e il lieto fine era perciò d'obbligo. Eh, che vogliamo farci, di sicuro non sono un autore popolare, popolano però sì.
EliminaBellissimo e veritiero racconto, purtroppo.
RispondiEliminaQualche anno fa noi maestre eravamo in trepidazione per il caso di un bimbo; l'assistente sociale e la collega del tribunale ci facevano sobbalzare il cuore ogni volta: se il giudice deciderà ecc... verremo a prenderlo a scuola... Non ti dico!
Fortunatamente il caso fu a lieto fine, proprio come il tuo racconto.
ciao
sinforosa
L'autore di narrativa, a mio parere, è un semplice testimone e l'esperienza da te ricordata rafforza questo mio convincimento.
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