Stavo a casa, solo, senza avere nulla da fare. Mi piace a volte oziare in solitudine, pensare, fantasticare nella più assoluta tranquillità, osservando le chiazze di sole filtrare dai vetri e tingere d’oro i mobili. Ma si era a novembre e non c’era sole e il tempo era cattivo. Decisi d’uscire, sapendo che una passeggiata mi avrebbe disteso i nervi.
Nel viale incontrai pochi passanti frettolosi inseguiti dalle foglie secche sollevate dal vento. Goccioline lievi scendevano dal cielo scuro.
Andai ai giardini pubblici e a lungo vagai tra le siepi dai contorni geometrici. Non c’era nessuno. Be’, quasi nessuno, perché merli e passeri, in verità, svolazzavano tra i rami spogli dei tigli e dei platani e una coppietta amoreggiava su una panchina. Le foglie cadute crocchiavano sotto le mie suole. Nelle fontane l’acqua sputata dalle cannelle intonava il tipico ritornello dell’acqua che sgorga, pacato e malinconico. A poco a poco mi sentii meglio e annusavo l’aria umida dei brevi pomeriggi autunnali.
In prossimità del tramonto mi avviai verso casa, ma non volli rincasare subito e feci una puntatina al bar. Al bar persi tempo a parlare del più e del meno con gli amici e mandai giù un paio di cicchetti. Uscii ch’era ormai buio. Il vento era diventato gelido. Sollevai il bavero dell’impermeabile e camminai rasente ai muri.
Cercai di accendermi una sigaretta, ma sprecai soltanto una quantità di cerini. Il vento soffiava troppo forte. Allora m’infilai in un portone e accesi al primo colpo.
La notai quando rialzai gli occhi. Se ne stava immobile e calma davanti a me. Allargò la bocca in un sorriso.
«Ciao», esordì modulando la voce su toni allegri.
Risposi con un cenno. Erano trascorsi diversi mesi da quando l’avevo vista per l’ultima volta.
Mi chiese una sigaretta, quindi continuò con la sua voce bassa e un tantino roca: «Adesso abito qui, vuoi salire?». E insisté contro la mia titubanza.
L’invito e quella sua gentilezza mi stupirono. Mi preoccupai, anche. Santo cielo, quello era il mio quartiere, che necessità aveva avuto di trasferirsi proprio lì? I miei primi sentimenti, insomma, furono di meraviglia e di fifa. E di pietà. Inevitabile, pericolosa pietà, perché la sua non era un’allegria vera, s’intuiva da un chilometro. Forse era angustiata da uno dei soliti momenti di depressione e sentiva il bisogno della compagnia di qualcuno. Persino la mia compagnia, dedussi, in mancanza di meglio poteva andarle bene. Al diavolo la fifa.
Le pareti dell’appartamento erano interamente coperte di quadri.
«Ti piacciono?».
Scelsi una risposta più diplomatica del secco no che mi prudeva sulla lingua: «Così così».
«Attento», disse, «il gioco della verità è sempre un gioco al massacro».
Una volta le avevo scritto quella frase in una lettera.
«Rettifico. Sono bellissimi».
Mentre mi sfilavo l’impermeabile si precipitò in salotto per ravvivare il fuoco del camino che lanciava tutt’intorno bagliori di un rosso cupo. Presi posto sul divano. Lei versò del brandy in due bicchieri.
«Il massacro, però, c’è già stato», dissi e mi riferivo, ovvio, alle circostanze in cui la nostra relazione era colata a picco, e non appena lo dissi già me ne pentivo. Morbosa com’era, poteva ravvisare in quella battuta rimpianti dai quali grazie a Dio ero sinceramente immune.
Di colpo la dolce increspatura scomparve dalle sue labbra. Temetti il peggio.
«Il massacro continua», sospirò fissando il vuoto.
Non capii cosa intendesse dire e dentro di me l’inquietudine crebbe. Comunque, inquietudine o meno, per poco non sbottai a ridere. Aveva sempre avuto il debole d’esprimersi per enigmi e d’assumere pose da donna fatale, tipo Greta Garbo in “Mata Hari”, e ciò senza dubbio costituiva uno degli aspetti più stravaganti della sua personalità. E la sua personalità, vi assicuro, era piuttosto frastagliata. Ad ogni modo preferii non ridere ed evitai inoltre di far domande. Posai lo sguardo sulla legna che ardeva, bevvi a piccoli sorsi il brandy. Intanto venne a sedersi sul divano, accanto a me.
«Cos’hai sognato?».
Stavolta non avevo alcun motivo per non ridere e perciò risi. Era un nostro vecchio trastullo. Io le raccontavo i miei sogni e lei c’imbastiva su macchinosi tentativi psicanalitici.
«Non sogno più, da un pezzo».
«Dai».
«Niente da fare».
«Erotico?».
«No», protestai. Ma subito dopo, per compiacerla, annuii silenzioso e abbassai gli occhi sulla punta delle scarpe, fingendo vergogna.
Esplose in una risata sincera, con grande sfoggio di denti di porcellana.
«Ci risiamo», disse.
Versò di nuovo da bere. Ora il suo brio era autentico, nessuna preoccupazione lo velava. Aveva un umore a corrente alternata, adesso ombroso e l’attimo seguente pirotecnico e rimedi non ne esistevano. E ascoltandola ridere e scherzare scrutavo i suoi bei lineamenti e le vedevo luccicare i verdi occhi di smeraldo alla luce fioca del caminetto.
Bella donna. Bella e matta. Le passai una mano dietro la schiena, le carezzai il viso.
«Micio», mormorò. «Micino».
Mi congedai a notte inoltrata. La baciai ancora sulla soglia e promisi di rifarmi vivo.
Un cofanetto dorato al quale fanno sfondo pennellate d'artista. Complimenti! Permettimi d'invidiarti.
RispondiEliminaTu invidiare me? Bella, questa. Come se "Platz Spitz" l'avessi scritto io.
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