venerdì 27 dicembre 2013

Il principio di responsabilità

Oggi chiederò al lettore un piccolo sforzo di fantasia.
Immaginiamo, per qualche attimo, di tornare indietro nel tempo.
Anno? 1945. Mese? Aprile. Giorno? Ventisei.
Ecco, sì, figuriamoci sia la mattina del 26 aprile 1945 e noi ci si svegli e ci si guardi intorno. La bufera è appena passata. Il giorno prima le truppe angloamericane hanno occupato anche l’alta Italia, scacciando i tedeschi al di là delle Alpi, e abbattuto la repubblica sociale.
Dovunque ci si giri i nostri occhi scorgono soltanto distruzioni e morti. Certo, badogliani e comunisti esultano per aver vinto la guerra civile contro la repubblica sociale e l’invasore nazista. Il loro sano orgoglio, sia chiaro, merita benevolenza. Ciò malgrado, il paese soffre la fame, piange per i lutti, patisce l’umiliazione di vedere il suolo nazionale calpestato dalle armate straniere.
Di chi la colpa?
Di uno solo. Del puzzone, come lo chiamano i romani. Ossia, Benito da Predappio, il famigerato smargiasso romagnolo. Sulle sue spalle – sue e di nessun altro – ricade l’intera responsabilità del disastro, giacché il 10 giugno 1940 è stato lui – lui e nessun altro – a ordinare al popolo italiano di correre alle armi.
Non c’è del resto da stupirsi se il colpevole, politicamente parlando, sia uno soltanto. E’ nell’essenza stessa del totalitarismo concentrare le decisioni definitive nelle mani del duce, o del führer, o del caudillo, o del grande timoniere, o del piccolo padre.
E’ pur vero che il dittatore ha goduto, forse addirittura per lunghi momenti, del sostegno morale di gran parte del popolo, ma in nessuna scelta il popolo gli è stato complice. Le masse avranno magari accolto da principio con entusiasmo le storiche e fatidiche decisioni del capoccia, perché i dittatori esercitano una perversa e potente malia sulla gente, ma di sicuro non hanno potuto esprimere alcuna libera opinione. Al popolo, nei sistemi totalitari, si offre sempre e di continuo l’opportunità di osannare il capo. Osannare e basta.

Torniamo ora ai nostri giorni e gettiamo un’occhiata qui e là. La situazione, rispetto all’aprile 1945, appare molto diversa. Vi è stata la ricostruzione e abbiamo persino avuto il boom economico, al punto che la nostra è diventata una società opulenta. Siamo inoltre amministrati da un regime democratico. Il potere di governo lo si conquista, per un periodo determinato, attraverso la competizione elettorale e noi cittadini abbiamo piena libertà d’espressione e il nostro voto è libero e segreto.
Eppure...
Già, eppure motivi d’insoddisfazione non mancano. L’apparato politico burocratico ha un costo esorbitante, in termini di pressione fiscale, e eroga servizi molto spesso scadenti. Un paragone tra il modo in cui vengono amministrati i popoli del nord Europa e come siamo mal amministrati noi ci fa arrossire. Siamo persino privi di un efficiente ordinamento giudiziario, tanto che non si riesce in alcuna maniera a sradicare le molteplici e prepotenti organizzazioni criminali.
Di chi la colpa?
«Di Tizio», dirà qualcuno di voi, facendo il nome di un politicante.
«Di Caio», qualcun altro strillerà, indicando un politicante di colore diverso.
«Di Sempronio», grideranno altri ancora, incolpando un terzo politicante.
Tutte risposte degne di considerazione e magari pregne di validi motivi. Riguardano però responsabilità individuali e non spiegano il pessimo funzionamento della macchina pubblica.
«E’ colpa della casta», parecchi allora sbotteranno.
Quest’ultima sembra già una risposta più equa. Difatti non risparmia nessuno. Vi è però un piccolo particolare che non possiamo tacere.
Chi elegge la casta?
Be’, che è ’sto silenzio?
Non mi avete capito? Volete che vi ripeta la domanda?
«Noi, la eleggiamo noi».
Ecco, bravi, la questione sta tutta qui. Ogni singolo membro della casta viene votato da noi. Da noi e da nessun altro. Si dà infatti il caso che la democrazia è basata sul principio di responsabilità. Cioè, chi rompe paga e i cocci sono i suoi.

In un sistema parlamentare come il nostro il governo è responsabile verso il parlamento, che vota per il governo la fiducia o la sfiducia, e il parlamento è responsabile nei confronti del corpo elettorale. Ogni qual volta la legislatura volge al termine, i cittadini con il proprio voto possono o premiare, confermandola, o punire, sostituendola con un altra, la maggioranza che li ha governati.
In altre parole, è il popolo che decide volta a volta chi deve comandare. La responsabilità della scelta ricade quindi sulle spalle di tutti. In democrazia, di conseguenza, non ha alcun senso affermare: «Piove, governo ladro». La notazione giusta sarebbe: «Piove, corpo elettorale ladro».
Se mandiamo pertanto al potere individui con la testa ingombra di idee bacate, i quali considerano lo stato un mero strumento di potere anziché una struttura di servizio, non ci rimane che ringraziare noi stessi.
Perché?
Perché i puzzoni, alla fin fine, siamo noi. Ergo, la colpa è tutta nostra.
E’ la democrazia, baby.



venerdì 20 dicembre 2013

Feste medievali e cuori d'oggidì

(In collaborazione con Gisella Gerosa)

1. Voce mia
Quando Gisella Gerosa, la scrittrice di Sesto San Giovanni, mi disse che la sua famiglia gestisce una piccola attività itinerante, consistente nella vendita di liquoristica storica nel corso di rievocazioni in costume, nella mia testolina spuntò una foresta di punti interrogativi mischiati a punti esclamativi.
Non potei pertanto trattenermi dal chiederle urgenti delucidazioni. Lo feci con quella delicatezza da istrice che mi rende odioso a tutti i vivi, nonché pure a parecchi morti.
«Cosa diamine è la ‘‘liquoristica storica’’?», sparai con dolcezza.
E con dolcezza ancor maggiore aggiunsi:
«Mi chiarisca per favore i concetti di ‘‘attività itinerante’’ e ‘‘rievocazione in costume’’ e, soprattutto, la misteriosa relazione che intercorre tra le due. Detto in tutta onestà, suppongo si tratti di ‘‘pagliacciate in costume’’, tipo la perdonanza che fanno a L’Aquila, la mia città. (La prego, mi risponda di sì e mi godo una bella risata. Le pagliacciate in costume mi fanno morire dal ridere. Rappresentano il più gustoso malcostume italico invalso nel tardo XX secolo)».
La superbia, diceva mio nonno, partì a cavallo e tornò a piedi. A me è andata peggio. Sono tornato a piedi e zoppicando. Leggete qui sotto la risposta di Gisella Gerosa e scoprirete perché il destriero mi ha disarcionato.

2. Voce di Gisella Gerosa
La “liquoristica storica” è il modo più breve che abbiamo trovato per definire alcune bevande artigianali tipiche dei tempi che furono, dall’idromele, la cui nascita segue di poco l’apparizione dell’uomo, per arrivare ai “rosoli della nonna”, che imperversavano nei salotti fino ai primi del novecento. In particolare, però, ci riferiamo al periodo del medioevo.
Attività itinerante” significa, più brutalmente, commercio di genere ambulante, iniziato circa otto anni fa. Vendiamo le nostre bevande (tutte di qualità molto alta), prevalentemente in occasione di eventi rievocativi d’impronta storica, in genere presso castelli o in contrade medievali.
Sì, credo che si tratti delle ‘‘pagliacciate’’ cui lei fa riferimento, che peraltro attirano un pubblico quanto mai interessante per la sua eterogeneità, trovandovi sia colti appassionati, sia fanatici, sia nostalgici dei bei tempi delle mordacchie e delle gogne, sia curiosi, sia intenditori di bevande di qualità (e costoro ovviamente sono i nostri clienti prediletti); non solo, ma anche gente che ama davvero, intendendosene o no, questo genere di rappresentazione di un tempo che non conoscerà mai. Personalmente considero le rievocazioni medievali uno spettacolo insolito, affascinante e non di rado emozionante (per i “dietro le quinte”, soprattutto): diciamo un teatro-documentario tra la storia popolare e l’arte di strada, che a tanta gente, e soprattutto ai ragazzi, apre uno squarcio su un mondo al quale non avranno altro modo di approcciarsi “dal vivo”. Farà anche ridere qualcuno, eppure è tutt’altro che comico se consideriamo la passione che muove chi ha scelto questa vita e la fatica fisica che comporta. Pensiamo che partecipano figuranti che passano notti in tenda e giorni in corazza, musici con arpe celtiche, liuti, salteri che vengono da molto lontano, artigiani degli antichi mestieri: spadai, che forgiano le loro spade al fuoco davanti a un pubblico incantato, coniatori di monete, tintori con i loro enormi pentoloni e i mantici, falconieri, che mostrano gli splendidi rapaci a bambini che non sanno come sia fatto un pollo vivo. Per noi significa montare ogni volta banchi e tende su modello di quelli medievali, allestire e disallestire, muovere merce pesante, restare in piedi dall’alba alla notte a volte inoltrata, con addosso i costumi (non carnevaleschi, ma cuciti a mano seguendo le figure degli affreschi del tempo), leggeri se fa freddo, e pesanti d’estate, essendo fatti di fibre naturali che non proteggono più di tanto. Tutto un modo di “pazzi”, il nostro, di gente in qualche modo alternativa che preferisce immergersi in un ritorno al passato per il poco che si può, tra torce e fascine, escrementi di cavallo e armature, e con l’anacronismo obbligatorio, per noi “mercatanti”, del registratore di cassa (le fiamme gialle in borghese si mescolano tra la folla).
Diciamo che in qualche modo tutto questo è avventura, o quel poco di avventura, e quel molto di rischio, che viviamo illudendoci di essere lontani dal mondo in cui la maggior parte della gente è costretta ogni giorno.
E devo aggiungere che chi lavora in questi contesti appare “felice”: è fuori dal gregge, è un diverso, non indossa il costume-divisa fatto di giacca e cravatta degli altri, il suo modo di essere è solo e soltanto suo. Adoro questo ambiente, questa gente, questo lavoro, anche se non so se, e quanto, potrà durare.



venerdì 13 dicembre 2013

La politica, sport criminale?

Nel corso del XX secolo la politica ha mostrato come non mai d’essere a volte la più pericolosa e criminale attività cui l’homo sapiens possa dedicarsi.
Fu un secolo non privo di luci e di progressi in campo scientifico, tecnico e artistico. L’aereo, la radio, il cinema sonoro, i romanzi e i racconti di Ernest Hemingway, la penicillina, la televisione, l’energia atomica, l’elaboratore elettronico e, soprattutto, i bikini e la minigonna rappresentano conquiste oggettive e incontestabili della civiltà.
In campo politico, però, si sono registrati dei regressi stupefacenti. Due superbe porcherie chiamate guerre mondiali e l’avvento dei totalitarismi gettano ombre e sfiducia sul consorzio umano. Siamo davvero degli esseri intelligenti o la follia omicida è una disfunzione congenita dalla quale non riusciremo mai a liberarci?
Sono un inguaribile ottimista e credo che il mondo si trovi ancora nella sua infanzia. Deve crescere e quando sarà cresciuto l’attività politica diverrà pura e semplice buona amministrazione e non più, come invece sognava e predicava Niccolò Machiavelli, una squallida tecnica per conquistare e mantenere il potere.

I totalitarismi europei furono il contraccolpo della prima guerra mondiale, non vi è alcun dubbio. Quello cinese fu invece il risultato di una guerra civile durata vent’anni. Russia, Italia e Germania pagarono lo scotto per essersi avventurate nella grande carneficina. La Cina, se non veniva aggredita dal Giappone, avrebbe forse potuto scamparsela.
Furono, i totalitarismi, figli delle male erbe dell’Ottocento: il nazionalismo, che partorì i regimi totalitari di destra, e il marxismo, dalle cui viscere uscirono i regimi totalitari di sinistra.
Il nazionalismo in sé non è pernicioso. Inteso come senso della comunità, spirito di libertà dalle dominazioni straniere, autodeterminazione dei popoli, non presta il fianco a critiche. E infatti nessuno considera l’amor di patria un sentimento disdicevole. Ma se imbevuto di militarismo si tramuta con atroce intensità in nazionalismo bellicista, e sono dolori.
Il germe totalitario è invece insito nel marxismo. Nei messali scritti da Carletto da Treviri la dittatura del proletariato era obbligatoriamente prevista per realizzare il paradiso in Terra.
Mah, de gustibus...

Il totalitarismo ha bisogno di un piedistallo sul quale ergersi. Per il fascismo fu la nazione, per il nazismo fu la razza, per il comunismo fu la classe. Senza piedistallo non potrebbero esserci né dittatura né dittatori. Ciò perché il piedistallo altro non è che uno strumento propagandistico per conquistare il consenso delle masse.
Una volta affermatosi, il regime totalitario inizia a praticare l’omicidio su scala industriale, sia all’interno dei confini nazionali, eliminando gli oppositori o provocando carestie, sia all’esterno, scatenando le guerre.
Le guerre, se perdute, portano le dittature alla tomba. Così perirono fascismo e nazismo, trascinando con sé, purtroppo, milioni d’innocenti. Il regime sovietico si sfasciò in seguito ai tentativi di riforma compiuti da Mikhail Gorbaciov. Un comunismo dal volto umano, a quanto pare, non può esistere.
Uno sviluppo del tutto diverso ha avuto il totalitarismo in Cina. Morto nel 1976 Mao Tse Tung, i suoi successori hanno buttato alle ortiche Carlo Marx e ripristinato le libertà economiche, proprietà privata dei mezzi di produzione inclusa. Hanno cioè liquidato il comunismo e smesso d’ammazzare a profusione la gente.
Le innovazioni furono opera di Teng Hsiao Ping, uomo dalla spiccata mentalità pragmatica. Amava infatti ripetere: «Non ha importanza se i gatti sono bianchi o neri. L’importante è che acchiappino i topi». I risultati gli danno ragione. Da anni l’economia cinese cresce a ritmi impressionanti e il partito unico (comunista?) ha mantenuto il potere.
Si prevede che lo manterrà a lungo. Cavallo che vince non si cambia. E certo per noi europei sarebbe paradossale scoprire che possano esistere dittature dal volto (quasi) umano.
Ah, magari lo fosse anche l’Unione Europea, quasi umana.


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venerdì 6 dicembre 2013

L'asimmetria della politica monetaria

La politica monetaria è asimmetrica. Questa banale nozioncina, nota a chiunque abbia una pur pallida conoscenza di storia e politica monetaria, spiega perché non pochi paesi dell’eurozona, con la squillante eccezione della repubblica federale tedesca, stanno distruggendo i propri sistemi economici accrescendo a dismisura il numero dei senza lavoro.
In che senso la politica monetaria è asimmetrica?
Chiarirlo è un gioco da ragazzi e riguarda gli effetti, opposti ma non di uguale intensità e misura, della politica monetaria espansiva e della politica monetaria restrittiva.
Una politica monetaria restrittiva determina un immediato effetto negativo sul livello dell’attività economica (produzione, investimenti, occupazione).
Viceversa una politica monetaria espansiva, nel caso vi sia disoccupazione dei fattori produttivi, può sì rappresentare un elemento di stimolo all’intensificarsi della produzione, ma non necessariamente e comunque non in maniera significativa. Nell’ipotesi teorica che vi sia pieno impiego dei fattori produttivi, una politica monetaria espansiva determinerà poi soltanto l’aumento dei prezzi, mentre in termini reali le variabili economiche rimarranno immutate.
Insomma, la si definisce asimmetrtica perché gli effetti negativi – quando si riduce la base monetaria e si aumenta il tasso di sconto – sono sicuri, mentre se si fa il contrario – si riduce cioè il tasso di sconto e si aumenta la base monetaria – gli effetti positivi sono incerti e di lieve entità.
Tralascio tutta una serie di sottigliezze utili solo agli intenditori (operazioni di mercato aperto, riserva obbligatoria, scoperto di tesoreria, mutuante d’ultima istanza, controllore del credito, tesoriere dello stato, eccetera) e ricordo che per base monetaria s’intende la moneta in circolazione emessa dalla banca centrale e per tasso di sconto s’intende il tasso d’interesse al quale la banca centrale presta i soldi a tutte le altre banche.
Risolte le questioni terminologiche, passiamo alla sostanza.
Fine della politica monetaria restrittiva è contrastare l’inflazione e sostenere il cambio, ossia i valori interno ed esterno della moneta. Il restringimento della base monetaria e/o l’aumento dei tassi d’interesse deprimono la domanda di beni di consumo durevoli, di beni intermedi e di beni strumentali e raffreddano l’aumento dei prezzi. Una tale politica, però, provoca un antipatico effetto collaterale. Una ridotta domanda di beni causa infatti un’offerta ridotta. Vale a dire una minor produzione e, dunque, un aumento della disoccupazione. Effetti collaterali che si producono con sicurezza matematica.
La politica monetaria espansiva ha invece l’obiettivo di rivitalizzare un sistema economico stagnante o in crisi. L’allargamento della base monetaria e la riduzione dei tassi d’interesse dovrebbero, in astratto, rendere meno costosi gli investimenti e più conveniente l’acquisto di beni durevoli, saldati di solito tramite finanziamenti a medio o lungo termine. Ma se le prospettive degli operatori economici rimangono incerte e la prudenza dei consumatori non si attenua, la maggior liquidità a disposizione del sistema non è affatto sufficiente, da sola, a invertire il ciclo economico.
Affinché la ripresa si verifichi è indispensabile che lo stato adotti politiche di bilancio anticicliche. In parole povere, ridurre le imposte e sviluppare un ampio programma d’investimenti pubblici.

Per divertirci un po’ passiamo ora dalla teoria all’attualità. Vi avviso, ci sarà molto da ridere.
Il primo novembre 2011 Mario Draghi è diventato presidente della Banca centrale europea e ha subito attuato, sia pure entri gli angusti limiti impostigli dal trattato di Maastricht, una politica monetaria espansiva.
Ha via via abbassato il tasso di sconto, fino a ridurlo recentemente a uno striminzito 0,05%. Ha finanziato le banche per oltre mille miliardi di euro con prestiti della durata di tre anni a un tasso dell’1%. Non potendo monetizzare i deficit di bilancio degli stati elargendo anticipazioni allo scoperto, né potendo monetizzarne i debiti comprando i loro titoli alle aste, ha però sostenuto i corsi delle obbligazioni emesse dagli stati con le finanze disastrate, tra i quali svetta la repubblichina italiana, attraverso acquisti sul mercato secondario.
Insomma, ha fatto quello che doveva fare.
Risultati?
Non del tutto insoddisfacenti per i mercati mobiliari, ma inutili per combattere la disoccupazione.
Gli indici dei mercati azionari sono risaliti, vero, e i rendimenti sui titoli emessi dagli stati con le finanze disastrate sono scesi. I disoccupati, però, si sono moltiplicati.
E allora? Cosa non va? E’ forse colpa dell’asimmetria della politica monetaria?
No, non è colpa della politica monetaria. La vera causa della produzione che cala e della disoccupazione che sale sta nelle politiche di bilancio. A una politica monetaria espansiva si associano infatti, nei paesi in crisi dell’eurozona, politiche di bilancio procicliche, anziché anticicliche. Si aumenta cioè la pressione fiscale, invece di abbattela, e si riducono le spese pubbliche. Assistiamo, in buona sostanza, all’apoteosi della follia.

Gli esiti scontati di queste politiche economiche da manicomio sono sotto gli occhi di tutti. Gli stati con le finanze disastrate, oltre a distruggere gli apparati produttivi nazionali, hanno appesantito le proprie condizioni finanziarie. I debiti pubblici di Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Francia sono schizzati a quote astronomiche. La medicina non cura il malato, aggrava la malattia.
Era tutto quanto prevedibile. Un peggioramento del settore privato si riverbera sul settore pubblico. Uno stato che desidera tagliare l’indebitamento, se mette in ginocchio i produttori di reddito, presto o tardi finirà in bancarotta. Ottiene quindi lo scopo opposto a quello voluto.
Come se ne esce? Ribellandosi ai padroni dell’euro, ossia ai tedeschi. Sono stati infatti loro a imporre ai paesi con le finanze statali disastrate l’attuazione di politiche economiche procicliche. E non si creda che l’abbiano fatto per puro sadismo. Lo hanno fatto con competenza tecnica e lungimiranza. Danneggiare i sistemi economici dei paesi con le finanze statali disastrate significa attrarre capitali dalla periferia a Berlino e/o sfavorire pericolosi concorrenti sui mercati internazionali.
La loro azione ha avuto pieno successo. Nel 2008 in Germania il tasso di disoccupazione sfiorava il dieci per cento, oggi arriva a malapena al cinque. La loro produzione, le loro esportazioni, nonché gli attivi della bilancia commerciale hanno registrato, anno dopo anno, andamenti da leccarsi i baffi. Le loro banche prestano soldi alla clientela a tassi di gran lunga meno onerosi di quelli applicati dalle banche dei paesi in crisi. Non solo, ma la repubblica federale tedesca colloca le proprie obbligazioni a tassi d’interesse inferiori al tasso d’inflazione.
Credete che tutto ciò sia avvenuto per caso?
No, è avvenuto perché gli ordini li dà Berlino e finché sarà Berlino a darli nulla cambierà mai.




venerdì 29 novembre 2013

Scrivere a quattro mani

(In collaborazione con Gisella Gerosa)

1. Voce mia
Per la quasi totalità degli autori scrivere è un’attività solitaria, individuale. Scrittori che intingono le proprie penne nello stesso inchiostro, redigendo i loro testi a quattro mani, sono rari come le mosche bianche. In Italia il duo Fruttero e Lucentini ha fatto epoca. E non poco clamore suscitò il romanzo ‘‘Porci con le ali’’, scritto in coppia da Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice.
Dev’essere un’esperienza particolarissima. Ne ho la certezza perché altrimenti non sarebbe tanto inusuale. Chissà come diavolo ci riescono, mi son sempre chiesto. Quando perciò lo scrittore Corrado S. Magro mi mise tempo fa in contatto con Gisella Gerosa, coautrice del romanzo ‘‘La panchina del parco’’, non ho affatto perso l’occasione di appagare la mia curiosità, sparandole la domanda che scalpitava sulla punta della mia lingua.
Ho ricevuto una risposta cortese, chiara e ricca d’umanità. Leggetela anche voi, ne vale la pena.

2. Voce di Gisella Gerosa
Venendo a quanto mi ha chiesto, sono coautrice del romanzo breve “La panchina del Parco”, scritto insieme all’amico professore di letteratura e poeta Vasco Pasqualini.
Vasco – professore valente, coltissimo cultore di poesia classica – rimasto vedovo una decina di anni fa, non si è più completamente ripreso dal dolore del distacco dalla moglie, alla quale dedicava tutti i suoi versi. Da sempre sono convinta che il percorrere la strada della narrativa sia anche un modo per acquietare le proprie sofferenze interiori incanalandole verso la costruzione di storie che possano donare al proprio dolore un nuovo significato. Per questo proposi all’amico Vasco di lasciare i suoi versi tristi e provare a scrivere insieme a me un romanzo che, partendo dai suoi vissuti, si sarebbe poi allargato a vicende e tematiche diverse, unendo ai ricordi un respiro di rinascita.
L’impresa non si è presentata semplice, tutt’altro. Unire quattro mani in una sola penna significa amalgamare due personalità, due menti, due modalità espressive, e ha comportato resistenze, discussioni e perfino scontri favoriti dalle differenze dei nostri due caratteri, tanto che in certi momenti abbiamo sfiorato la rottura; ma è poi sempre prevalso il desiderio di proseguire insieme questo narrare che prendeva connotazioni inattese perfino per noi stessi autori. Un’altra non lieve difficoltà è stata quella di amalgamare i nostri due diversissimi linguaggi (colto, riflessivo, drammatico, il suo; e il mio ironico, minimalista, emozionale). Scrivere in due significa creare un linguaggio condiviso, pur conservando entrambi la propria specificità. Mi sembra di poter dire che il risultato è stato positivo. Per Vasco questa prima esperienza narrativa è stata inaspettatamente felice, e per me è una conferma che raccontare, cioè creare e crearsi nuovi mondi, è qualcosa di profondamente affascinante. I nostri lettori si sono detti emozionati dal nostro romanzo... Cosa potremmo volere di più?



venerdì 22 novembre 2013

E' il fascismo che traccia il solco ma è la costituzione che lo difende

La data che ha marchiato a fuoco lo stivale, dopo che il regno di Sardegna ebbe liquidato gli altri staterelli italici e assoggetato al proprio dominio quasi l’intera penisola, è una e una sola: il 24 maggio 1915.
Gli effetti di quel giorno funesto si snodarono implacabili e fragorosi. Menzionandoli sinteticamente tramite la loro data, essi via via furono: il 28 ottobre 1922, il 10 giugno 1940, l’8 settembre 1943, il 2 giugno 1946 e il primo gennaio 1948.
La prima guerra mondiale mise in ginocchio il regno d’Italia. Tre anni e mezzo di guerra contro gli imperi centrali provocarono una guerra civile strisciante, volendo usare un eufemismo, e una crisi economica, sociale e politica che portò il grosso smargiasso romagnolo ineluttabilmente al potere.
Basti pensare che nel primo dopoguerra l’inflazione, pur senza raggiungere i livelli parossistici della Germania di Weimar, fu da noi appena inferiore a quella polacca e austriaca. Nemmeno i fabbricanti di cannoni, cessata la produzione di materiale bellico, se la passarono liscia. A tal riguardo resta proverbiale l’esempio dei Perrone di Genova, che avrebbero perso sia la Banca di Sconto, finita in liquidazione, che l’Ansaldo, nazionalizzata nel 1933.
A causa delle conseguenze disastrose della guerra – tanto desiderata, fra gli altri, proprio dal re Sciaboletta Savoia – il trono scricchiolava. Ed è dunque ben difficile rimproverare sua maestà Sciaboletta per non aver proclamato il 28 ottobre 1922 lo stato d’assedio, come gli chiedeva il presidente del consiglio dei ministri Luigi Facta, e aver invece distrutto lo stato liberale, consegnando la nazione nelle braccia dello smargiasso romagnolo.
A Facta Sciaboletta rispose:
«Queste decisioni spettano soltanto a me. Dopo lo stato d’assedio non c’è che la guerra civile».
Non aveva torto. Riuscì in realtà a ritardare lo scoppio della guerra civile d’un ventennio e la perdita del trono di un quarto di secolo. L’8 settembre 1943, infatti, la guerra civile sarebbe iniziata eccome. Una guerra civile in piena regola, combattuta da due diverse entità statali, il regno del sud contro la repubblica sociale, entrambe di tipo Quisling, sorrette dalle opposte armate straniere occupanti.
E il 2 giugno 1946 il popolo italiano, con lucida saggezza, diede un meritato calcio al sedere dei Savoia, liberandosene con il referendum una volta per sempre.

Il 10 giugno 1940 fu conseguenza del 24 maggio 1915 e del 28 ottobre 1922.
I fascisti erano guerrafondai. Il bellicismo nazionalista, non a caso, costituiva uno dei cinque principi dottrinali della loro fede. Gli altri quattro erano: il principio totalitario, il principio lavorista, il principio della superiorità etica dello stato e il principio corporativo. Gente di tale risma, è matematico, presto o tardi conduce alla disfatta il paese di cui prende le redini.
La seconda guerra mondiale, poi, altro non fu che il secondo round della guerra europea, una follia deflagrata in seguito all’attentato di Seraievo e la cui prosecuzione fu determinata, con spirito diabolico, dal trattato di pace di Versailles.
Noi italiani, per amara coincidenza, patimmo sia la sconfitta che la guerra civile, nonché l’occupazione militare del suolo nazionale da parte del vincitore, occupazione che ancora perdura. I Savoia, come ho già ricordato, ci rimisero il trono. Nacque pertanto una repubblica sottomessa agli Stati Uniti d’America.
La carta costituzionale della nuova repubblica, entrata in vigore il primo gennaio 1948, avrebbe dovuto segnare il riscatto dai patimenti sofferti e l’emancipazione dalle tristi eredità del passato. Purtroppo non è andata così, se non in parte.
Le ragioni furono tanto di natura culturale quanto psicologiche. L’arretratezza culturale dei costituenti – la loro superba incompetenza – spiega a chiare lettere perché la costituzione, per quel che riguarda formazione, struttura e funzionamento dei pubblici poteri, ricalca con pedissequa fedeltà lo statuto albertino. Ha cioè riprodotto pari pari il più smaccato parlamentarismo, replicandone ogni difetto, inclusa la congenita fragilità dei governi, esposti senza difese alle imboscate parlamentari. Ma tutto ciò, benché grave, non rappresenta il male peggiore. Dopo tutto, la costituzione configura pur sempre un sistema democratico, sebbene inefficiente.
Altro è l’aspetto che lascia di sasso, l’elemento che fa sì che il gelido e sepolcrale alito del 24 maggio 1915 e del 28 ottobre 1922 spiri tutt’ora sulla nostra società.
Quale?
Questo.
La costituzione repubblicana ha assorbito tre principi dottrinali del fascismo: il principio lavorista (articolo uno, primo comma), il principio della superiorità etica dello stato (articolo quattro, secondo comma) e il principio corporativo (Cnel, organizzazione corporativa della magistratura, natura semipubblica dei sindacati).
Ho accennato prima, per chiarire il nonsenso della costituzione, anche a ragioni psicologiche. Mi riferivo, in buona sostanza, al fatto che noi italiani non ci siamo mai vergognati del fascismo. Per il nostro nero ventennio non abbiamo mai provato vergogna, a differenza invece dei tedeschi, che per i loro dodici anni vissuti sotto la croce uncinata la vergogna l’hanno sentita nelle viscere.
Con ogni probabilità, abbiamo ritenuto che la guerra civile ci avesse ripulito la coscienza. Badogliani e comunisti, combattendo contro la repubblica sociale, di certo hanno creduto di ripulirsela. Il loro impegno, purtroppo, non è stato sufficiente. Ciò perché il solco lasciato dal fascismo nella cultura politica italiana è stato profondo. Tanto profondo che tre principi dottrinali predicati dalle camicie nere sono entrati nella costituzione postfascista.
Il fascismo si rivela dunque un’ignominia che non muore. Almeno, non del tutto.




venerdì 15 novembre 2013

La tristezza della finanza allegra

Desidero affrontare oggi un argomento che ha il raro dono di mandarci in bestia.
Le tasse.
E’ in realtà un tema dagli appassionanti risvolti intellettuali ed etici, ma sarei un maledetto seccatore se volessi rompervi l’anima sciorinando una sfilza di pedanti nozioni, magari impreziosite d’astrusi tecnicismi che fanno tanto bon ton. Niente di tutto questo, state tranquilli. Preferisco puntare l’attenzione su un solo aspetto, seppur cruciale: l’evasione.
Tanti anni fa, leggendo un articolo scritto da uno studioso di scienza delle finanze, m’imbattei in una considerazione degna di nota. A livello individuale, sosteneva quello studioso di cui ahimé non ricordo il nome, potrebbe sembrare razionale non pagare le imposte. ‘‘Finché ci sono gli altri che le pagano’’, ragiona il singolo evasore, ‘‘che bisogno c’è che le paghi anch’io?’’.
All’apparenza un discorso da furbi, senza dubbio. Se però una tale filosofia venisse condivisa da tutti, cioè se nessuno versasse più i tributi, le entrate fiscali precipiterebbero a zero e lo stato non avrebbe le risorse per erogare ai cittadini i servizi richiesti (ordine pubblico, difesa, giustizia, istruzione, assistenza previdenziale, eccetera). Ecco dunque che una scelta apparentemente logica a livello soggettivo risulta del tutto irragionevole sul piano generale.
In altre parole, il furbacchione che si sottrae agli obblighi fiscali, perché tanto c’è chi paga per lui, è un puro e semplice ladro. Un ladro che imbastisce e ritiene vero, oltre tutto, un ragionamento da dementi.
E’ questo comunque solo un lato della medaglia. Ve ne è purtroppo un altro, a mio avviso di maggior gravità, che riguarda l’uso delle risorse pubbliche da parte dell’apparato politico burocratico. Se quelle risorse vengono infatti impiegate in maniera inefficiente, si offrono all’evasione fiscale ampie giustificazioni morali.
Per rendere concreto il concetto di ‘‘uso inefficiente di fondi pubblici’’ racconterò una vicenda capitata pochi anni or sono a mia sorella.
Mia sorella si chiama Mariangela e fa la commercialista. Vive e ha lo studio in una città di media grandezza bagnata dall’Adriatico centrale. Gode di ottima reputazione e i suoi clienti la stimano. Conobbe, in casa d’amici, l’allora sindaco della città. Costui aveva un problema serio. La società comunale addetta alla raccolta dei rifiuti era un profondissimo pozzo di San Patrizio e ingoiava quattrini a non finire. Avendo, il sindaco, ricevuti da conoscenti comuni vivi apprezzamenti sulle capacità professionali di mia sorella, le chiese se era disposta a dargli una mano per capire perché la raccolta dei rifiuti risultasse tanto onerosa e, se possibile, ridurne i costi.
Mariangela non ha mai bazzicato in vita sua una sezione di partito, né è mai stata iscritta a partiti. Considera i politicanti, in linea di massima e salvo rarissime eccezioni, delle macchiette incorreggibilmente dedite alla tutela delle proprie saccocce, da loro definite ‘‘interessi della collettività’’. Ciò malgrado, forse perché stimolata dal vigoroso entusiasmo di quel sindaco e dalla bontà dei suoi propositi, accettò la proposta e divenne così membro del consiglio di amministrazione della società Nettezza.
Rimettere in sesto i conti dell’azienda fu un gioco da ragazzi. Per riuscirci, ecco la cosa buffa, mia sorella non dovette perdere nemmeno un minuto per analizzare al microscopio bilanci e contabilità. Le bastò alzarsi presto la mattina e recarsi al distributore di carburante dove i mezzi di Nettezza spa riempivano i serbatoi. Oltre ai camion portaimmodizie, davanti alla pompa si allungava una fila di autovetture appartenenti ad amministratori e dipendenti dell’onorata società comunale, in attesa di fare il pieno a scrocco. Mariangela impose uno stop a quella cattiva abitudine.
Lasciato il distributore, doveva poi recarsi alla discarica ove gli autocarri conferivano i rifiuti, di proprietà di un privato, e controllare le operazione di pesatura. La bascula rinsavì di colpo e la quantità d’immondizia smaltita scese in misura statisticamente significativa. Nell’ordine di tonnellate, per capirci, con conseguenti risparmi sul costo del servizio di raccolta.
Il proprietario della discarica non aprì bocca, giudicando prudente non forzare oltre il lecito l’ago della bilancia. Ai dipendenti di Nettezza spa non andò invece giù l’addio alla benzina gratis. Avvicinarono perciò mio cognato, un notaio tra i più attivi in città, pregandolo di convincere la moglie a desistere da quei comportamenti antifurto. Rubare il carburante alla ditta nella quale lavoravano era ormai un diritto acquisito e negarglielo pareva, a lor signori, iniquo.
Mio cognato, che fuma il sigaro e ha un indomito spirito ironico, disse:
«Eh, Mariangela è quella che è, cosa vogliamo farci? Guardate me come mi ha ridotto», e mostrò il sigaro. «Mi ha lasciato solo questo sigaro. Nient’altro mi rimane, soltanto il sigaro».
Ascoltata la musica, il comitato aziendale sloggiò dallo studio di mio cognato.
A sconcertare mia sorella, tuttavia, al di là del ladrocinio esercitato dal padrone della discarica e dagli impiegati di Nettezza, fu il compenso elargito ai membri del consiglio d’amministrazione, inclusa quindi lei.
Reggetevi forte, perché adesso sparo la cifra.
Venticinquemila euro ogni tre mesi a ciascun consigliere – avete capito bene: tre mesi, venticinquemila – e cinquantamila – ripeto, cinquantamila – al presidente del consiglio. Sempre ogni tre mesi, ovvio.
Tutto legale. Nessuna pesatura generosa, nessuna illegittima erogazione di carburante.
L’inefficiente uso di fondi pubblici appare qui lampante. Regalare soldi a iosa, regalare la ricchezza ai membri di un consiglio d’amministrazione, giusto per un paio di riunioni al mese cui partecipano, significa rubare ai contribuenti. Significa rendere il prelievo fiscale immorale e giustificare gli evasori.
Esiste una soluzione?
Domanda difficilissima. Con ogni probabilità, se l’opinione pubblica venisse informata sulle modalità di spesa adottate negli enti pubblici, l’apparato politico burocratico ridurrebbe gli sprechi. Ma per risultare utile, l’informazione dovrebbe essere tanto dettagliata da riguardare dati in realtà difficili da reperire.
Gli economisti liberali suggeriscono di limitare per legge la misura del prelievo fiscale. In tal modo, disponendo di minori risorse, gli apparati pubblici sarebbero costretti a sprecare di meno. Forse.
Alcuni sostengono sia necessario affidare taluni servizi a ditte private, riservando agli enti pubblici compiti di controllo, nella speranza che i controllori non siano avidi di bustarelle.
La verità nuda e cruda è che la responsabilità ultima grava sugli elettori. In un sistema democratico ogni popolo ha il governo che si merita. Sta ai cittadini contribuenti ostacolare gli sprechi negando il voto ai partiti che fanno della spesa pubblica à gogo il proprio vessillo. Ai partiti che considerano lo stato, in tutte le sue articolazioni, uno strumento di potere e non una struttura di servizio.
Noi italiani, nel corso del ventesimo secolo, partiti di tal fatta ne abbiamo conosciuti sin troppi. La lezione, a quanto pare, non l’abbiamo ancora appresa.



venerdì 8 novembre 2013

Un festival dell'immaginazione

Il sangue, si dice, non è acqua. Neanche l’inchiostro lo è. Il sangue bisogna però avercelo, altrimenti il cuore non lo pomperà nelle vene, questo è il problema, e l’inchiostro bisogna saperlo usare.
Se si è scrittori la maledizione è dunque duplice. Deve, lo scrittore, saper scrivere e possedere quel talento – il sangue – che lo accomuni agli autori di razza. E i narratori di razza, come sappiamo, sono soltanto coloro che hanno la capacità di produrre scritti che si fanno leggere con gusto.
Tra costoro si annovera Pierluigi di Cosimo, come testimonieranno in piena sincerità tutti coloro che hanno apprezzato il suo primo romanzo, ‘‘I rotoli dell’immortalità’’. E’ da poco uscito il secondo, intitolato ‘‘Dove tutti i sogni finiscono’’, che ho avuto il privilegio di leggere ancor prima della pubblicazione su Amazon.
Il mio giudizio è netto. Il libro ti prende dalla prima all’ultima riga.
Le ragioni per cui ‘‘Dove tutti i sogni finiscono’’ mi ha letteralmente catturato si riassumono in due parole: è un festa della fantasia. I personaggi sono interessanti. E non mi riferisco solo ai due protagonisti, Pamela e Pietro, che io considero l’incarnazione dei nostri più profondi desideri, ma anche a Iupiter, ad Amos, a Don Marcello, alla Morte. Altrettanto interesse mi ha suscitato il tema, ossia il conflitto tra Eros e Thanatos, che a Pierluigi evidentemente piace affrontare, dato che lo si trova anche ne ‘‘I rotoli dell’immortalità’’. Lo sviluppo della trama, infine, con i suoi colpi di scena, è coinvolgente.
L’eroe e l’antieroe simbolici di ‘‘Dove tutti i sogni finiscono’’ sono la Vita e la Morte, Eros e Thanatos, che si fronteggiano e lottano sia su questa valle di lacrime chiamata Terra sia in un mondo parallelo. Di Cosimo ha in sostanza raccontato, a ritmo incalzante, una feroce battaglia di questa infinita guerra sostenuta dalla Morte contro la Vita.
Il romanzo, dunque, diletta e i temi sottostanti, nonché la conclusione concettuale (solo l’amore sconfigge la morte), fanno riflettere, senza contare il fatto, inoltre, che vengono toccate questioni che coinvolgono nell’intimo ognuno di noi, dando sfogo ai nostri desideri. Per esempio, c’è eros, c’è passione, ma non c’è pornografia. Né il tema dell’amore è liquidato con banalità, riducendolo a pura e semplice attrazione fisica, ma diventa, per Pietro e Pamela, il frutto di una lotta accanita e consapevole, il risultato di un impegno.
Mi è sorto perciò naturale il desiderio di rivolgere all’autore qualche domanda, giusto per dare una sbirciatina alla sua cassetta degli attrezzi.

Pierluigi, dove hai preso lo spunto per il romanzo?
Lo spunto è venuto dai miei quotidiani viaggi in metro per andare e tornare dal lavoro, osservando le persone che incontravo, niente di più. Infatti, l’analisi delle persone con cui Pietro si diverte a passare il tempo è stata la prima parte del racconto ad essere stata scritta. Tutto il resto non è stato costruito a tavolino, ma è venuto spontaneamente mentre scrivevo. Forse sono uno scrittore atipico, ma non scrivo in maniera lineare... scrivo pezzi qua e là che poi si agganciano da soli.

Anche la trama si è sviluppata da sola? Non ci hai messo il tuo zampino?
Sinceramente, come anche nel primo racconto, la trama è venuta da sé. Come ti dicevo, forse sono uno scrittore atipico, ma non mi piace imbrigliare la fantasia in uno schema definito, non inizio un racconto tracciando un percorso. Succede che ad un certo punto mi viene l’idea per un romanzo, e quello che scrivo spesso non è l’inizio, ma uno dei tanti episodi che si trovano al suo interno, poi mi limito ad osservare il resto del racconto che scorre come un film nella mia testa e metterlo su carta. E’ come se tutto il racconto fosse già nella mia testa, quello che mi limito a fare è andare avanti o indietro con la pellicola e osservare quello che succede.

E i personaggi? Sono stati loro a presentarsi da te o li hai creati tu?
I personaggi sono loro che si presentano man mano che iniziano la loro partecipazione nel romanzo. Ovviamente ci sono quelli più simpatici e quelli meno, ma io cerco di far amicizia con tutti, e di non condizionarli nella loro interpretazione. In fondo sono loro che si danno da fare nel racconto rendendolo avvincente, passionale, triste o allegro. Io mi limito a mettere nel racconto qualche comparsa qua e là, o ingaggiare il personaggio giusto per una certa scena. Insomma, come nel mondo cinematografico i bravi attori con la loro espressività e preparazione riescono a trasmettere forti emozioni con la loro recitazione, anche in un libro sono i personaggi che trasmettono al lettore le emozioni, quindi vanno trattati bene e assecondati nel loro recitare. In fondo un libro è come un film, anzi meglio.

Eros e Thanatos sono argomenti per i quali nutri un evidente interesse. Mi è lecito chiederti perché?
Certo che puoi chiedere, tanto non rispondo. Scherzo, ovviamente. Sai, penso che la vita di ognuno di noi è segnata da tanti piccoli accadimenti, tante piccole tappe, che ci segnano profondamente e attraverso le quali in base alle nostre scelte intraprendiamo una strada piuttosto che un’altra, ma ci sono due accadimenti, la vita e la morte, su cui non possiamo prendere nessuna decisione, non è una questione di scelta giusta o sbagliata, accadono e basta. Sono il limite inferiore e superiore di ogni essere vivente e dovremmo imparare a vivere meglio e preservare quel breve segmento che c’è in mezzo. Rispolvero una scena interpretata da Mr. X (Roberto) ne “I rotoli dell’immortalità”: Mentre era al volante della macchina, si ritrovò a giocherellare con una moneta, passandosela tra le dita, la fissò per qualche istante e ad alta voce disse, «nascita e morte, due facce della stessa moneta, e il sottile spessore della stessa, la vita che c’è nel mezzo». Inoltre l’amore, quello con la A maiuscola, è l’ingrediente necessario proprio per vivere appieno quel breve tratto della nostra esistenza tra i due estremi, spesso ce ne accorgiamo troppo tardi, presi come siamo dalla futilità del quotidiano. Quello che faccio nei miei racconti è semplicemente dare al lettore qualche spunto per ricordarsi di Amare.

Chi è il tuo lettore? Ti prefiggi o meno di raggiungere un determinato pubblico? Oppure scrivi per tutti?
In realtà scrivo per chiunque mi voglia leggere, per chiunque voglia passare qualche ora spensierata a vivere, come ho vissuto io, gli accadimenti scritti nei miei racconti. In primis scrivo per soddisfare il lettore che è parte di me. Chiunque leggendo i miei racconti è libero di provare semplicemente le emozioni vive del racconto, o trovare pensieri profondi nei concetti espressi o ancor più semplicemente occupare qualche ora leggendo. Non scrivo trattati filosofici, storici o politici, non mi prefiggo come obiettivo di far luce su misteri irrisolti, cerco solo di mettere su carta delle emozioni sperando che queste si trasmettano al lettore. Un pizzico di vanità non fa male.

Vanità? Quale vanità? Non ce n’è nei tuoi scritti. C’è solo abilità ed è per questo, credimi, che raggiungi il tuo scopo: trasmettere emozioni. Il sangue, appunto, non è acqua.







venerdì 1 novembre 2013

La nobile arte del racconto

Il web, per chi ama leggere, è una sorprendente miniera di perle letterarie di prim’ordine. Mi riferisco in modo particolare a testi di narrativa breve scritti da autori del tutto ignorati dall’industria editoriale ma che riescono ugualmente a crearsi un proprio pubblico dando vita a un blog.
Blogger scrittori, è così che amo definirli.
Uno di loro si chiama Alessandro Agrati e il suo blog ha per nome ‘‘Tuttology’’. Alessandro è un appassionato di modellismo capace anche di comporre struggenti poesie. Ma a catturare la mia attenzione sono stati i suo racconti, sin dal primo che lessi, ‘‘L’ultimo esperimento di Von Heisenberg’’, un gotico dalle tinte scure che, avvincendo, dà i brividi. Né mi sono lasciato sfuggire gli altri, intitolati ‘‘G’’, ‘‘Il templare nel cestino’’, ‘‘La puzza’’, ‘‘Il militante’’. Alcuni, poi, s’illuminano di brillante ironia. Leggete, per assaporala, ‘‘Colloquio di lavoro’’, ‘‘La morte dell’arte’’, ‘‘Nuovi arrivi’’, ‘‘Il genio e l’idiota’’.
Agrati possiede il dono di scrivere senza spocchia o intellettualismi da strapazzo, tenendosi sapientemente alla larga dalle capriole stilistiche dei letterati in sedicesimo. Il suo fraseggio scorre perciò gradevole agli occhi e all’orecchio del lettore.
Poiché sono più curioso di una vecchia pettegola da salotto, l’ho abbordato per rivolgergli alcune domande. Difficile del resto, per uno come me cui la narrativa breve piace molto, resistere alla tentazione di saperne qualcosa su un autore di racconti così seducenti.

Alessandro, da quanto tempo hai il blog?
Il mio blog è nato nel 2010.

Tuttology, titolo simpatico, come ti è saltato in mente?
In origine voleva essere un blog collettivo a cui dovevano partecipare altri miei amici, e avremmo dovuto scrivere di vari argomenti, ecco quindi spiegato il nome del blog nonché quello dell’account. Poi il progetto iniziale è venuto meno e sono rimasto io a scrivere quello che mi passava per la testa. Il mio interesse per la scrittura risale più o meno a quel periodo, avevo scritto due racconti e messo a punto un progetto per un romanzo, ora accantonato.

Parlami del tuo apprezzamento per la narrativa breve. Non hai troppa simpatia per i romanzi fiume, vero?
Non sbagli quando dici che preferisco il racconto breve al romanzo lungo. Personalmente ho una mia teoria sulla scrittura (come tutte le cose personali opinabilissima). A mio parere infatti esistono scrittori che hanno bisogno di molte pagine per far emergere la loro capacità di raccontare, giocando magari con le parole e descrivendo innumerevoli situazioni. Altri invece restano concentrati su un determinato concetto e riescono a esprimerlo bene in poche pagine. Io mi colloco in questa seconda categoria, pur senza ritenerla superiore all’altra: bisogna saperlo scrivere un romanzo, bisogna essere bravi anche a narrare le scene più lente e meno significative che congiungono gli avvenimenti importanti. In parole povere, esiste chi è più bravo a scrivere romanzi e chi se la cava meglio col racconto breve. Si dice che la sintesi sia sorella del talento, e io lo spero vivamente, perché i miei racconti in genere non raggiungono le dieci pagine!

Sbaglio o tra i tuoi scrittori preferiti primeggia Dino Buzzati?
Hai fatto centro con Buzzati, è uno degli scrittori che ha colpito maggiormente il mio immaginario, a mio parere lo si può considerare il Kafka italiano, per il suo modo di porti di fronte all’inquietudine nascosta nelle cose di tutti i giorni. Leggere mi piace molto, e dalla lettura traggo anche alcuni spunti per i racconti. Sono un lettore onnivoro, leggo dai classici alla narrativa di genere (fantasy, fantascienza, eccetera), qualche saggio ogni tanto e qualche ‘‘graphic novel’’.

E ora l’ultima domanda, la più indiscreta. Quale rapporto c’è tra te (il tuo lavoro, la tua città) e i tuoi racconti?
Avrai notato che, pur senza citare una città specifica, alcuni miei racconti sono ambientati in una metropoli che ricorda molto la mia Milano. Sicuramente si può dire che nutro un grande affetto per questa città, pur essendo conscio di quanto sia difficile per molti amarla. Non dispone di paesaggi mozzafiato, che colpiscono subito la vista, ma è fatta di tante vie e tante case che hanno storie da raccontare a chi le sa ascoltare. A Milano vivo da qualche anno per conto mio, dopo aver lasciato l’amato/odiato nido genitoriale alla tenera età di trent’anni... Di mestiere faccio l’impiegato in un ufficio sinistri (come Fantozzi!) di un noto grande gruppo assicurativo italiano, arrotondando lo stipendio con qualche collaborazione occasionale a siti dove pagano per scrivere articoli pubblicitari. Pur essendo un lavoro stressante, non è organizzato su turni e mi lascia abbastanza tempo libero. Tempo che dedico, tra le altre cose, alla scrittura, ovviamente quando ho un po’ di ispirazione.

Bene, Alessandro, non mi rimane che augurarti, e augurarmi per il mio egoistico piacere, che l’ispirazione ti venga spesso e rigogliosa.