La politica monetaria è asimmetrica. Questa banale nozioncina, nota a chiunque abbia una pur pallida conoscenza di storia e politica monetaria, spiega perché non pochi paesi dell’eurozona, con la squillante eccezione della repubblica federale tedesca, stanno distruggendo i propri sistemi economici accrescendo a dismisura il numero dei senza lavoro.
In che senso la politica monetaria è asimmetrica?
Chiarirlo è un gioco da ragazzi e riguarda gli effetti, opposti ma non di uguale intensità e misura, della politica monetaria espansiva e della politica monetaria restrittiva.
Una politica monetaria restrittiva determina un immediato effetto negativo sul livello dell’attività economica (produzione, investimenti, occupazione).
Viceversa una politica monetaria espansiva, nel caso vi sia disoccupazione dei fattori produttivi, può sì rappresentare un elemento di stimolo all’intensificarsi della produzione, ma non necessariamente e comunque non in maniera significativa. Nell’ipotesi teorica che vi sia pieno impiego dei fattori produttivi, una politica monetaria espansiva determinerà poi soltanto l’aumento dei prezzi, mentre in termini reali le variabili economiche rimarranno immutate.
Insomma, la si definisce asimmetrtica perché gli effetti negativi – quando si riduce la base monetaria e si aumenta il tasso di sconto – sono sicuri, mentre se si fa il contrario – si riduce cioè il tasso di sconto e si aumenta la base monetaria – gli effetti positivi sono incerti e di lieve entità.
Tralascio tutta una serie di sottigliezze utili solo agli intenditori (operazioni di mercato aperto, riserva obbligatoria, scoperto di tesoreria, mutuante d’ultima istanza, controllore del credito, tesoriere dello stato, eccetera) e ricordo che per base monetaria s’intende la moneta in circolazione emessa dalla banca centrale e per tasso di sconto s’intende il tasso d’interesse al quale la banca centrale presta i soldi a tutte le altre banche.
Risolte le questioni terminologiche, passiamo alla sostanza.
Fine della politica monetaria restrittiva è contrastare l’inflazione e sostenere il cambio, ossia i valori interno ed esterno della moneta. Il restringimento della base monetaria e/o l’aumento dei tassi d’interesse deprimono la domanda di beni di consumo durevoli, di beni intermedi e di beni strumentali e raffreddano l’aumento dei prezzi. Una tale politica, però, provoca un antipatico effetto collaterale. Una ridotta domanda di beni causa infatti un’offerta ridotta. Vale a dire una minor produzione e, dunque, un aumento della disoccupazione. Effetti collaterali che si producono con sicurezza matematica.
La politica monetaria espansiva ha invece l’obiettivo di rivitalizzare un sistema economico stagnante o in crisi. L’allargamento della base monetaria e la riduzione dei tassi d’interesse dovrebbero, in astratto, rendere meno costosi gli investimenti e più conveniente l’acquisto di beni durevoli, saldati di solito tramite finanziamenti a medio o lungo termine. Ma se le prospettive degli operatori economici rimangono incerte e la prudenza dei consumatori non si attenua, la maggior liquidità a disposizione del sistema non è affatto sufficiente, da sola, a invertire il ciclo economico.
Affinché la ripresa si verifichi è indispensabile che lo stato adotti politiche di bilancio anticicliche. In parole povere, ridurre le imposte e sviluppare un ampio programma d’investimenti pubblici.
Per divertirci un po’ passiamo ora dalla teoria all’attualità. Vi avviso, ci sarà molto da ridere.
Il primo novembre 2011 Mario Draghi è diventato presidente della Banca centrale europea e ha subito attuato, sia pure entri gli angusti limiti impostigli dal trattato di Maastricht, una politica monetaria espansiva.
Ha via via abbassato il tasso di sconto, fino a ridurlo recentemente a uno striminzito 0,05%. Ha finanziato le banche per oltre mille miliardi di euro con prestiti della durata di tre anni a un tasso dell’1%. Non potendo monetizzare i deficit di bilancio degli stati elargendo anticipazioni allo scoperto, né potendo monetizzarne i debiti comprando i loro titoli alle aste, ha però sostenuto i corsi delle obbligazioni emesse dagli stati con le finanze disastrate, tra i quali svetta la repubblichina italiana, attraverso acquisti sul mercato secondario.
Insomma, ha fatto quello che doveva fare.
Risultati?
Non del tutto insoddisfacenti per i mercati mobiliari, ma inutili per combattere la disoccupazione.
Gli indici dei mercati azionari sono risaliti, vero, e i rendimenti sui titoli emessi dagli stati con le finanze disastrate sono scesi. I disoccupati, però, si sono moltiplicati.
E allora? Cosa non va? E’ forse colpa dell’asimmetria della politica monetaria?
No, non è colpa della politica monetaria. La vera causa della produzione che cala e della disoccupazione che sale sta nelle politiche di bilancio. A una politica monetaria espansiva si associano infatti, nei paesi in crisi dell’eurozona, politiche di bilancio procicliche, anziché anticicliche. Si aumenta cioè la pressione fiscale, invece di abbattela, e si riducono le spese pubbliche. Assistiamo, in buona sostanza, all’apoteosi della follia.
Gli esiti scontati di queste politiche economiche da manicomio sono sotto gli occhi di tutti. Gli stati con le finanze disastrate, oltre a distruggere gli apparati produttivi nazionali, hanno appesantito le proprie condizioni finanziarie. I debiti pubblici di Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Francia sono schizzati a quote astronomiche. La medicina non cura il malato, aggrava la malattia.
Era tutto quanto prevedibile. Un peggioramento del settore privato si riverbera sul settore pubblico. Uno stato che desidera tagliare l’indebitamento, se mette in ginocchio i produttori di reddito, presto o tardi finirà in bancarotta. Ottiene quindi lo scopo opposto a quello voluto.
Come se ne esce? Ribellandosi ai padroni dell’euro, ossia ai tedeschi. Sono stati infatti loro a imporre ai paesi con le finanze statali disastrate l’attuazione di politiche economiche procicliche. E non si creda che l’abbiano fatto per puro sadismo. Lo hanno fatto con competenza tecnica e lungimiranza. Danneggiare i sistemi economici dei paesi con le finanze statali disastrate significa attrarre capitali dalla periferia a Berlino e/o sfavorire pericolosi concorrenti sui mercati internazionali.
La loro azione ha avuto pieno successo. Nel 2008 in Germania il tasso di disoccupazione sfiorava il dieci per cento, oggi arriva a malapena al cinque. La loro produzione, le loro esportazioni, nonché gli attivi della bilancia commerciale hanno registrato, anno dopo anno, andamenti da leccarsi i baffi. Le loro banche prestano soldi alla clientela a tassi di gran lunga meno onerosi di quelli applicati dalle banche dei paesi in crisi. Non solo, ma la repubblica federale tedesca colloca le proprie obbligazioni a tassi d’interesse inferiori al tasso d’inflazione.
Credete che tutto ciò sia avvenuto per caso?
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