venerdì 27 giugno 2014

Si scrive euro e si legge debito

I politicanti che governano i paesi in crisi dell’eurozona gongolano e non sarò certo io a rimproverarli. Nella loro qualità di ferventi innamorati dell’euro, riconosciamolo onestamente, il compiacimento che provano per se stessi è infatti più che lecito, benché dovuto a ragioni molto diverse da quelle di cui si vantano.
Mi spiego.
Fra il 2011 e il 2012, avviata con successo la distruzione in Grecia dell’economia e della finanza statale, altri paesi traballanti, in primis l’Italia, subirono la fuga degli investitori dai loro titoli pubblici. Ciò fece cadere i corsi e schizzare all’insù i tassi d’interesse da corrispondere sulle nuove emissioni, portandoli a livelli che alla lunga avrebbero reso insostenibile il servizio del debito, ossia l’importo complessivo annuale degli interessi da pagare. Su tutte le bocche risuonò in tono sinistro un’esotico vocabolo inglese dal significato agghiacciante: insolvenza, bancarotta.
Forse non tutti sanno che per i politicanti al governo poter tappare i buchi del bilancio statale ricorrendo al debito rappresenta il mezzo più comodo per conservare la poltrona. Attraverso la spesa pubblica – a volte magari bastano solo ottanta euro – essi comprano i voti necessari alla propria rielezione. E’ dunque imperativo per uno stato non perdere la capacità d’indebitarsi. Fu per questa ragione che furono compiute fatiche erculee per riconquistare la fiducia dei mitici e ingordi mercati.
Come?
Alzando le tasse e sforbiciando la spesa.

Da che mondo è mondo politiche economiche di tal sorta provocano sempre e comunque i medesimi effetti. Riducono i consumi, gli investimenti, la produzione e, ciliegina sulla torta, accrescono il numero dei senza lavoro.
Insomma, una poesia.
Non solo, ma i danni così apportati al sistema produttivo si riverberano sul settore pubblico. L’illusione che si possa risanare la finanza pubblica aumentando il carico fiscale svanisce in un baleno, poiché a un immediato aumento del gettito segue prima una stasi e poi una contrazione dovuta al restringimento del flusso di ricchezza prodotta, ossia della base imponibile. Morale della favola, il pareggio di bilancio resta un miraggio e il debito pubblico sale. Ed è esattamente questo che la cronaca, giorno dopo giorno, ci racconta.
Ciò malgrado i politicanti al timone dei paesi tartassati dell’eurozona non provano alcuna vergogna. Rivendicano con orgoglio la bontà delle loro scelte e di essere rimasti sordi alle cassandre che suggerivano di uscire dalla moneta unica. Abbandonare l’euro significherebbe, a loro parere, avvitarsi nella spirale perversa della svalutazione del cambio e dell’inflazione a due cifre. Mentre, grazie all’austerità, i saldi timonieri hanno riguadagnato la fiducia dei mercati mobiliari e i titoli di stato vengono adesso collocati a interessi risibili.
«Con l’euro ci si può indebitare, senza l’euro no», strillano nel loro intimo.
Capirai che affare.

Gli elettori hanno gradito poco l’austerità. Tant’è, elezione dopo elezione il numero di coloro che disgustati dalla politica non sono andati a votare è via via cresciuto. Ai politicanti però la cosa non importa mica tanto. Finché trovano qualche fesso disposto a dargli il voto l’inconveniente per loro è relativo.
Ma al di là di queste penose considerazioni, un altro elemento non dobbiamo lasciarci sfuggire. Non è stata l’austerità a far scendere i rendimenti dei titoli pubblici, ma l’azione della Banca centrale europea e le dichiarazioni del suo governatore Mario Draghi.
Con operazioni di mercato aperto e con prestiti di circa mille miliardi di euro alle banche al tasso dell’1% la Bce ha sorretto il prezzo delle obbligazioni pubbliche, determinando il calo dei rendimenti. Nel luglio del 2012 il governatore ha inoltre affermato: «Ho un messaggio chiaro da darvi. Nell’ambito del nostro mandato la Bce è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza».
I mercati gli hanno creduto.
Il salvataggio dell’euro e la più agevole capacità dei governi d’indebitarsi non hanno tuttavia ridotto la disoccupazione. La politica monetaria da sola non basta a ridare un lavoro a chi l’ha perso. Per invertire il ciclo economico negativo bisognerebbe ridurre in misura consistente la pressione fiscale. Ma politicanti che ambiscono semplicemente a gonfiare il debito pubblico per pagare gl’interessi ai creditori questo non lo faranno mai. Nella migliore delle ipotesi avremo perciò un lungo, lunghissimo periodo di stagnazione caratterizzato da alti livelli di disoccupazione.
Be’, rassegnamoci. Con l’euro, se non altro, gli stati possono indebitarsi. E se tanti cittadini non trovano un lavoro, pazienza. Non si vive di solo pane.



venerdì 20 giugno 2014

Che il furto sia con voi, brava gente

Stando a rencenti e ripetute notizie di cronaca nera, concussione e corruzione restano i reati preferiti di burocrati e politicanti. Non c’è niente da fare, a lor signori i soldi facili piacciono, piacciono da impazzire. E così le opere pubbliche, quelle che vengono definite forse con involontaria imprecisione ‘‘opere di pubblica utilità’’, non di rado ingrassano i lazzaroni a danno dei contribuenti.
Non ho comunque alcuna intenzione di discutere il problema secondo l’ottica dei moralisti intransigenti. Per ergermi a puritano non basta la mia fedina penale immacolata. Inoltre, non essendo un dipendente pubblico né un politicante – ossia non avendo la concreta possibilità di subire il richiamo dei soldi facili – il mio potrebbe sembrare il tipico moralismo dell’invidioso.
E’ un fatto storicamente determinato che le opere pubbliche sono quasi sempre connesse alla concussione e alla corruzione. Ci piaccia o no ma è così. Noi italiani, poi, un ventennio or sono venimmo addirittura a sapere che i lavori pubblici erano diventati l’abituale mezzo di finanziamento dei partiti politici. In altre parole, coloro che detenevano le leve del potere, cioè i rappresentanti del popolo sovrano, avevano trasformato la repubblica in una furtocrazia.
Roba da andarne fieri, eh?
Quei partiti adesso non esistono più e, a quanto sembra, i nuovi di norma non ricorrono al furto per finanziarsi. La bustarella continua tuttavia a oliare i meccanismi burocratici. Però i ladri rubano per sé, non per il partito. Il lupo, verrebbe da dire, ha perso il pelo ma non il vizio.
Esiste una soluzione?
Be’, tutto dipende da cosa intendiamo per ‘‘soluzione’’. Tra corrotto e corruttore, come anche tra concusso e concussore, s’instaura un sodalizio granitico, basato sul reciproco vantaggio. Il concusso denuncerà il concussore solo se le pretese di quest’ultimo gli appariranno eccessive, e il corrotto si opporrà al corruttore solo se l’ammontare della bustarella non sarà di suo gradimento. Come sosteneva Totò, basta una congrua, anche cospicua offerta e tutto si sistema. E che le offerte possano essere cospicue, trattandosi alla fin fine di quattrini provenienti dalle tasche di è costretto a pagare le tasse, non vi è dubbio. Non esiste perciò speranza alcuna che un bel giorno politicanti e burocrati smettano di sentirsi attratti dal fascino irresistibile emanato dai soldi facili. C’est la vie, dicono a Parigi.
Il discorso cambia se chi viene pizzicato avrà parecchio da perdere. Posto che ai delinquenti abituali le condanne penali fanno un baffo, si rende necessario applicare sanzioni molto più educative. E cioè, il dipendente pubblico che abbia concusso qualcuno o si sia lasciato corrompere da qualcuno deve essere licenziato in tronco, mentre il politicante dovrà essere espulso a vita dall’elettorato passivo, negandogli il diritto di presentarsi a qualunque elezione. Entrambi, si capisce, dovranno restituire il frutto dell’illecito.
La galera, in tal caso, gliela potremmo anche condonare. Ci risparmieremmo almeno di pagargli vitto e alloggio.



giovedì 12 giugno 2014

Scacco matto al Reich

Il voto europeo di fine maggio 2014 passerà alla storia.
Ciò avverrà non perché il parlamento di Strasburgo eserciti un reale potere di controllo sull’organo esecutivo, ossia la commissione, o abbia una concreta potestà legislativa. E’ privo sia dell’uno che dell’altra.
Il motivo per cui un rito ripetitivo e sempre futile quale l’elezione dei parlamentari europei stavolta avrà tanta importanza è un altro. E cioè, gli elettori di due paesi su ventotto che compongono l’Unione europea hanno dato scacco matto al Reich germanico.
Nel Regno Unito, raccogliendo il 26,8% dei consensi, al primo posto si è piazzato l’Ukip, formazione che si prefigge la fuoriuscita del proprio paese dall’Unione europea, mentre in Francia a tagliare per primo il traguardo con il 25% dei suffragi è stato il Front National, partito nel cui programma svetta l’uscita dall’euro.
Il comportamento dell’elettorato britannico non deve stupirci. La perfida Albione, come la chiamava il noto smargiasso romagnolo, non ha mai tollerato lo strapotere di una potenza continentale. Ha perciò combattuto e sconfitto Napoleone Bonaparte, ha combattuto e sconfitto il Kaiser, ha combattuto e sconfitto il Führer e oggi si oppone alla Kanzlerin. Dopo tutto, gli inglesi non hanno adottato l’euro né hanno sottoscritto il patto di bilancio (fiscal compact). Al contrario, il primo ministro in carica, David Cameron, aveva già da tempo programmato d’indire un referendum per consentire al suo popolo di decidere sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea. E gli inglesi, se la musica non cambia, se ne andranno. Lo sappiamo adesso con certezza.
Con ogni probabilità ad andarsene saranno anche i francesi, però dalla moneta unica. Il presidente socialista François Hollande, il cui partito è precipitato a un deludente 14% dei voti, ha dichiarato che d’ora in avanti l’Europa dovrà puntare alla crescita e all’occupazione. Si è così prodotta una prima crepa all’asse Parigi-Berlino. Infatti i governanti francesi, da fidi valletti, avevano finora assecondato tutte le imposizioni della Kanzlerin, consentendole di sottomettere con facilità, a partire dal 2010, l’eurozona al Reich germanico.
La strategia tedesca in risposta alla crisi greca è stata chiara. Ha obbligato i partner dell’eurozona ad aumentare le tasse e ridurre la spesa pubblica, per strozzare le loro economie e peggiorarne le condizioni della finanza pubblica. In tal modo il flusso di capitali che dalla Germania si dirigeva verso gli altri paesi in cerca di migliori remunerazioni si è da prima bloccato e poi si è invertito. Gli altri governi hanno dovuto ingurgitare l’amaro tossico perché altrimenti sarebbero stati cacciati fuori dall’euro.
La cura ha ridotto in misura davvero sensibile il tasso di disoccupazione in Germania e lo ha accresciuto nel resto dell’eurozona. Sono stati in sostanza tutti obbligati a una severa austerità al fine di arricchire la nazione più prospera d’Europa. I francesi, alla lunga, si sono scocciati. Se pertanto il presidente Hollande non riuscirà nel prossimo futuro a contrastare il dominio teutonico, canterà il de profundis per sé e per l’euro.



venerdì 6 giugno 2014

Il prezzo della vendetta

Tra la fine degli anni Venti del secolo passato e la metà del decennio successivo, sulle colline di quell’angolo di Sicilia che circonda Noto, rinomato scrigno barocco, si consuma l’avventuroso dramma di un giovane uomo, Paolo Spalla, meglio conosciuto con l’appellativo di Tuono. Paulu Truonu, in siciliano.
Paolo è un assassino. Sordo ai consigli del fraterno amico Gaetano Sulari, ha ucciso lo zio arciprete, che lo aveva defraudato dell’eredità paterna, e ha inoltre ammazzato un manigoldo che aveva accoltellato Sulari, salvatosi per un soffio, quando questi cercava di assistere il padre malato. Ma la sua vendetta lucida e fredda è stata compiuta ben prevedendo le conseguenze. Ponendosi al di fuori della legge avrebbe dovuto affrontare una vita da braccato. E Paolo, ciò malgrado, non si è sottratto alla sua scelta deliberata.
‘‘Lunedì di Pasqua’’ ci narra dunque le eccitanti vicende di una lunga caccia all’uomo. L’aitante brigadiere dei carabinieri che alla fine catturerà il fuorilegge ne ricava però magre soddisfazioni. Il militare ha sì compiuto senza risparmiarsi il suo dovere, tribolando in estenuanti appostamenti, perlustrazioni in aperta campagna, notti all’addiaccio e scontri a fuoco. Tuttavia la spunterà sul latitante non grazie a un leale duello cavalleresco, bensì per mezzo dell’inganno. Paolo s’innamora infatti di Paolina, ricambiato da principio con passione, e quell’amore diverrà per lui acido fiele.
Coloro i quali si battono contro Tuono schierati dalla parte della legge lo avranno perciò in pugno senza innocenza. Senza innocenza e senza nulla di cui andare orgogliosi.

Il romanzo di Corrado Sebastiano Magro presenta una rara e sorprendete caratteristica. ‘‘Lunedì di Pasqua’’ si lascia difatti leggere e rileggere con accanito fervore. Merito del fraseggio agile e fluido. Merito della vivida descrizione del contesto storico-sociale e degli scenari naturali. Merito degli avvincenti colpi di scena. E merito, soprattutto, del fascino dei protagonisti.
Un fascino, il loro, interiore, si badi, non semplicemente esteriore. Paolo Spalla, il brigadiere Falange, Paolina Sgarramo piacciono e attirano la nostra attenzione non soltanto perché sono belli e ricchi di vitalità. A colpire è la loro dimensione morale. Sono figure etiche, più che epiche, e pagano tutti e tre un prezzo altissimo per le proprie azioni.
Paolo, di quel prezzo, è cosciente sin dall’inizio, ossia quando si vendica dei torti subiti uccidendo lo zio sacerdote. Il brigadiere Falange ne acquisisce piena consapevolezza solo alla fine, quando si accorge che il compimento del dovere gli ha macchiato l’anima. E Paolina, passionale e sensibile come solo una donna sa esserlo, sentirà il peso della colpa nel suo stesso ventre.
Corrado Magro sa alla perfezione che non basta scrivere una bella storia né basta scriverla bene. Bisogna pur metterci qualcosa dentro. Un quid che emozioni e faccia riflettere. E in ‘‘Lunedì di Pasqua’’ quel prezioso contenuto non manca. Tutt’altro.