I politicanti che governano i paesi in crisi dell’eurozona gongolano e non sarò certo io a rimproverarli. Nella loro qualità di ferventi innamorati dell’euro, riconosciamolo onestamente, il compiacimento che provano per se stessi è infatti più che lecito, benché dovuto a ragioni molto diverse da quelle di cui si vantano.
Mi spiego.
Fra il 2011 e il 2012, avviata con successo la distruzione in Grecia dell’economia e della finanza statale, altri paesi traballanti, in primis l’Italia, subirono la fuga degli investitori dai loro titoli pubblici. Ciò fece cadere i corsi e schizzare all’insù i tassi d’interesse da corrispondere sulle nuove emissioni, portandoli a livelli che alla lunga avrebbero reso insostenibile il servizio del debito, ossia l’importo complessivo annuale degli interessi da pagare. Su tutte le bocche risuonò in tono sinistro un’esotico vocabolo inglese dal significato agghiacciante: insolvenza, bancarotta.
Forse non tutti sanno che per i politicanti al governo poter tappare i buchi del bilancio statale ricorrendo al debito rappresenta il mezzo più comodo per conservare la poltrona. Attraverso la spesa pubblica – a volte magari bastano solo ottanta euro – essi comprano i voti necessari alla propria rielezione. E’ dunque imperativo per uno stato non perdere la capacità d’indebitarsi. Fu per questa ragione che furono compiute fatiche erculee per riconquistare la fiducia dei mitici e ingordi mercati.
Come?
Alzando le tasse e sforbiciando la spesa.
Da che mondo è mondo politiche economiche di tal sorta provocano sempre e comunque i medesimi effetti. Riducono i consumi, gli investimenti, la produzione e, ciliegina sulla torta, accrescono il numero dei senza lavoro.
Insomma, una poesia.
Non solo, ma i danni così apportati al sistema produttivo si riverberano sul settore pubblico. L’illusione che si possa risanare la finanza pubblica aumentando il carico fiscale svanisce in un baleno, poiché a un immediato aumento del gettito segue prima una stasi e poi una contrazione dovuta al restringimento del flusso di ricchezza prodotta, ossia della base imponibile. Morale della favola, il pareggio di bilancio resta un miraggio e il debito pubblico sale. Ed è esattamente questo che la cronaca, giorno dopo giorno, ci racconta.
Ciò malgrado i politicanti al timone dei paesi tartassati dell’eurozona non provano alcuna vergogna. Rivendicano con orgoglio la bontà delle loro scelte e di essere rimasti sordi alle cassandre che suggerivano di uscire dalla moneta unica. Abbandonare l’euro significherebbe, a loro parere, avvitarsi nella spirale perversa della svalutazione del cambio e dell’inflazione a due cifre. Mentre, grazie all’austerità, i saldi timonieri hanno riguadagnato la fiducia dei mercati mobiliari e i titoli di stato vengono adesso collocati a interessi risibili.
«Con l’euro ci si può indebitare, senza l’euro no», strillano nel loro intimo.
Capirai che affare.
Gli elettori hanno gradito poco l’austerità. Tant’è, elezione dopo elezione il numero di coloro che disgustati dalla politica non sono andati a votare è via via cresciuto. Ai politicanti però la cosa non importa mica tanto. Finché trovano qualche fesso disposto a dargli il voto l’inconveniente per loro è relativo.
Ma al di là di queste penose considerazioni, un altro elemento non dobbiamo lasciarci sfuggire. Non è stata l’austerità a far scendere i rendimenti dei titoli pubblici, ma l’azione della Banca centrale europea e le dichiarazioni del suo governatore Mario Draghi.
Con operazioni di mercato aperto e con prestiti di circa mille miliardi di euro alle banche al tasso dell’1% la Bce ha sorretto il prezzo delle obbligazioni pubbliche, determinando il calo dei rendimenti. Nel luglio del 2012 il governatore ha inoltre affermato: «Ho un messaggio chiaro da darvi. Nell’ambito del nostro mandato la Bce è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza».
I mercati gli hanno creduto.
Il salvataggio dell’euro e la più agevole capacità dei governi d’indebitarsi non hanno tuttavia ridotto la disoccupazione. La politica monetaria da sola non basta a ridare un lavoro a chi l’ha perso. Per invertire il ciclo economico negativo bisognerebbe ridurre in misura consistente la pressione fiscale. Ma politicanti che ambiscono semplicemente a gonfiare il debito pubblico per pagare gl’interessi ai creditori questo non lo faranno mai. Nella migliore delle ipotesi avremo perciò un lungo, lunghissimo periodo di stagnazione caratterizzato da alti livelli di disoccupazione.
Be’, rassegnamoci. Con l’euro, se non altro, gli stati possono indebitarsi. E se tanti cittadini non trovano un lavoro, pazienza. Non si vive di solo pane.
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