venerdì 25 luglio 2014

La solitudine di Silvia

Un mio amico, si chiama Daniele, ha ricevuto dalla sorte un tiro davvero mancino. Il giorno prima delle nozze la ragazza che l’indomani sarebbe dovuta salire con lui sull’altare per scambiarsi a vicenda l’agognata promessa si gettò da una finestra e si uccise.
Dopo la perdita della sposa Daniele prese l’abitudine di andare ogni domenica mattina al cimitero e trattenersi in intimi e silenziosi colloqui con la sua cara chiusa nella tomba. Poi, per il pranzo domenicale, puntava sempre dai mancati suoceri. La visita al cimitero e il pranzo dai suoceri divennero rituali, quasi fossero celebrazioni liturgiche.
Non ho mai conosciuto la fidanzata di Daniele, l’amicizia tra me e lui si fece stretta in un tempo successivo alla disgrazia, né ne ricordo il nome, benché lui me lo abbia sicuramente detto. Mi diede da leggere le poesie d’amore che scriveva per lei e mi mostrò alcune foto. La giovane vi compariva insieme a lui sotto un ombrellone in riva al mare. Una bella ragazza, devo dire. Una bella ragazza che però non sorrideva. Soffriva di depressione.
Un pomeriggio di un lontano solstizio d’estate, durante un giro in bici, Daniele volle che conoscessi i suoceri putativi. Abitavano a Preturo, vicino alla pista d’atterraggio dell’aeroclub, in una bella casa nuova di loro proprietà, divisa in tre appartamenti. Uno occupato da padre e madre della defunta, uno dall’altra figlia sposata, e uno vuoto. Quello vuoto sarebbe stato destinato a Daniele e consorte, se la futura consorte non si fosse suicidata.
Ci presentammo in bicicletta e sudati, ma fummo ciò malgrado accolti con estrema cortesia. A me offrirono un succo di frutta. Il volto della madre della sposina scomparsa non mi pareva del tutto ignoto. Almeno di vista la conoscevo, e glielo dissi.
«E’ possibile», rispose. «Lavoravo all’ufficio postale di via Urbani. Adesso sto in pensione».
Il padre, molto magro e, a giudicare dall’aspetto, non proprio in perfetta salute, apprezzò i miei complimenti per la bella casa e mi mostrò le grigie e distanti vette del Gran Sasso, visibili dalle finestre. Ulteriore pregio dell’abitazione, quella spettacolare veduta.
Comparve a un certo punto, sollecitata credo da Daniele, anche la figlia sposata. Si chiamava Silvia e aveva partorito da due o tre mesi una bambina. S’intravide pure il marito. Un bel fusto diplomato all’Isef, istruttore di nuoto in una piscina.
Silvia era un’appassionata ciclista e decise così di venire a pedalare con noi. Si ripartì dunque in tre e percorsi sì e no un paio di chilometri lei disse:
«Be’, tu adesso, Danie’, te ne puoi pure andare».
Mi chiesi quale interesse potesse avere a voler rimanere sola con un perfetto sconosciuto quale io ero per lei. Ma a sconcertarmi ancor di più fu la reazione di Daniele. Ubbidì senza nulla obiettare all’ordine e quieto quieto ci salutò e prese la strada per L’Aquila.
Noi due arrivammo a San Marco e cominciammo a salire verso Casaline. La bicicletta di Silvia era vecchia, però le sue gambe giravano a dovere. Mi raccontò, del resto, che aveva scalato, fin su ai campi di sci, la montagna di Campo Felice, un’arrampicata che richiede allenamento, testardaggine e il fisico a posto.
Cominciò a parlarmi della sorella morta. Dei disturbi psichici della sua povera sorella suicidatasi il giorno prima del matrimonio.
«A me dispiace che sia morta», concluse, «ma forse è meglio così, perché soffriva troppo», e aggiunse qualcosa che mi rimase incomprensibile: «Siamo soli».
Non le domandai di chiarirmi il significato di quelle due, per me, misteriose parole. Di certo non si riferivano alla sua situazione particolare di madre e moglie. Esprimevano, supposi, un concetto universale. Un concetto nel quale non ho mai creduto, né mi aveva mai sfiorato la mente.
Raggiungemmo Casaline e tornammo indietro. Lei doveva allattare la bimba. Si era fatto tardi.

Svariati anni appresso, nella sala d’aspetto di un dentista, captando non volendo i discorsi di altre due clienti in attesa al pari mio di sottoporsi alle torture odontoiatriche, scoprii che cosa in quel lontano ventuno giugno Silvia avesse voluto dirmi.
«Siamo soli», uscì dalla bocca di una delle due clienti. «Su questa Terra un Dio non c’è».
Era dunque la mancanza di un Dio misericordioso che ci aiuti ora e qui che Silvia aveva lamentato. La mancanza di uno spirito divino che ci conforti e dia sollievo nell’immediato. Una divinità che risolva, se necessario anche materialmente, i nostri guai.
E capii la sua profonda angoscia. La sua delusione tanto più amara se credente, dal momento che un ateo non può sentire la mancanza di colui a cui non crede.
Ma sebbene umana, la solitudine di Silvia non è condivisibile, perché forse a Dio chiediamo troppo. Gli chiediamo molto più di quanto chiediamo a noi stessi.



venerdì 18 luglio 2014

Per un euro in più

Grazie alle testimonianze di chi vi ha assistito in prima persona, oggi noi italiani finalmente sappiamo come e perché nel novembre del 2011 abbiamo perduto la sporca guerra dell’euro, umiliati con scherno da francesi e tedeschi.
Gli studiosi di sociologia del pettegolezzo ritengono che il casus belli del conflitto iniziato nel 2010 tra il nostro governo e quelli d’oltralpe vada individuato in un goliardico apprezzamento espresso dal noto femminista Silviuccio B. sul cospicuo cofano posteriore appartenente alla graziosa Kanzlerin Angelina Merkel.
Benché seducente, e benché da molti condivisa, la tesi è però destituita di ogni fondamento. A smentirla oltre ogni ragionevole dubbio hanno provveduto i libri scritti da Lorenzo Bini Smaghi, all’epoca membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea, da Timothy Geithner, all’epoca segretario al tesoro del governo Usa, e da José Luis Zapatero, all’epoca primo ministro del regno di Spagna. A confermare e rafforzare le testimonianze rese per iscritto dai tre illustri personaggi or ora citati ci ha poi pensato Giulio Tremonti, all’epoca ministro dell’economia del governo di Roma, intervistato al riguardo.
La causa che scatenò il confronto a muso duro con i nostri partner europei risiede per intero nel superiore principio etico, religiosamente rispettato da francesi e tedeschi, in base al quale per arraffare dal prossimo tuo un euro in più è lecito ammazzare chi ti pare. La gente seria, si sa, non guarda in faccia a nessuno e procede dritto per la sua strada.
Insomma, fu una volgare faccenda di quattrini e la venustà della graziosa Kanzlerin, non adeguatamente apprezzata dal noto femminista, non c’entrò per niente.

Nella primavera del 2010, scoppiata con il caso Greco la crisi dei debiti sovrani, si ritenne necessario approntare un fondo salva stati per sostenere i paesi dell’eurozona dalle finanze pubbliche dissestate e non più in grado di collocare a tassi d’interesse accettabili sui mercati mobiliari i titoli del proprio debito.
Nel corso di quell’anno i primi aiuti alla Grecia, forniti per impedirle di dichiarare bancarotta e consentirle così di pagare i debiti in scadenza, vennero erogati dal Fondo monetario internazionale e dai singoli stati dell’Unione europea per mezzo di prestiti bilaterali. Il fatto determinante, quello che delineava gli aspetti cruciali della situazione, consisteva nella forte esposizione delle banche tedesche e francesi nei confronti della Grecia, pari a circa la metà dell’intero debito pubblico ellenico. Le banche italiane, invece, ne detenevano una modesta percentuale.
Nel dicembre di quell’anno apparve sul ‘‘Financial Times’’ un articolo a firma di Jean Claude Juncker, allora presidente dell’eurogruppo, e del ministro italiano Giulio Tremonti nel quale i due autori proponevano, al fine di salvaguardare l’unione monetaria, di affiancare al fondo salva stati anche un’agenzia europea del debito che emettesse obbligazioni per conto dei paesi dell’eurozona (eurobond) e dagli stessi congiuntamente garantite.
La repubblica federale tedesca rigettò la proposta, sia perché, se attuata, i paesi cicala non avrebbero corretto la loro viziosa passione per la finanza allegra e sia perché temeva che gli eurobond sarebbero stati collocati a tassi superiori a quelli con i quali riusciva a piazzare le proprie obbligazioni, e dunque per la Germania non convenienti.
Il ‘‘nein’’ teutonico provocò un serio dissidio con il governo di Roma, che via via s’inasprì man mano che la crisi aggrediva altri paesi, quali Irlanda, Portogallo e Spagna. L’esposizione delle banche italiane verso questi paesi non superava il cinque per cento, una misura modesta se confrontata all’esposizione delle banche del nord Europa.
Il governo di Roma si dichiarò disponibile a contribuire al fondo salva stati per il diciotto per cento circa, che rappresentava la quota del pil italiano in rapporto a quello dell’intera eurozona, solo se veniva contemporaneamente accettato e reso operativo anche il progetto degli eurobond, altrimenti Roma non avrebbe scucito più del cinque per cento.
Parigi e Berlino, in virtù del supremo principio etico che ho ricordato all’inizio – per arraffare un euro in più dal prossimo tuo ti è lecito ammazzare chiunque – non erano affatto d’accordo con un tale criterio di ripartizione delle spese. Poiché l’esposizione delle loro banche nei riguardi dei paesi in bilico era di gran lunga maggiore di quel misero cinque per cento dell’Italia, avrebbero dovuto sborsare loro le somme da capogiro, mentre al contrario nutrivano sì il proposito di salvare le proprie banche, ma con i soldi degli altri, piuttosto che con i propri.
Roma, come scrive Lorenzo Bini Smaghi nel suo libro ‘‘Morire di austerità’’, minacciò addirittura di uscire dall’euro, affrancando in tal modo l’Italia dall’obbligo di contribuire al finanziamento del fondo salva stati. Bini Smaghi giudica comunque quella mossa poco redditizia, in quanto ‘‘la minaccia di uscire dall’euro non sembra una strategia negoziale vantaggiosa (...). Non è un caso che le dimissioni di Berlusconi siano avvenute dopo che l’ipotesi di uscita dall’euro era stata ventilata in colloqui privati con governi di altri paesi’’.
La reazione non si fece attendere e fu davvero terrificante.

Nel luglio 2011 le banche francesi e tedesche cominciarono a vendere titoli del debito italiano da loro tenuti in portafoglio, facendone calare i prezzi e salire i rendimenti fino al sei per cento.
Il cinque agosto 2011 viene recapitata al governo italiano la famigerata lettera della Bce, firmata da Jean-Claude Trichet, allora governatore della Banca centrale europea, e da Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia in procinto di sostituire il primo alla guida dell’istituto d’emissione europeo.
La coppia di governatori, nella missiva, chiedeva al governo di Roma di tagliare con la massima rapidità il deficit pubblico, portando nel 2012 lo spareggio all’uno per cento del pil, e raggiungere nel 2013 la parità tra entrate e uscite. Suggerivano a tale scopo una lunga serie di tagli, tra i quali brillava la riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici, da attuare con decreto.
La rapidità con la quale si sarebbe dovuti arrivare all’aggiustamento dei conti era talmente eccessiva da risultare comica, più che impossibile. Ciò malgrado quella lettera ebbe effetti devastanti, ampliando a dismisura la fuga degli investitori dai titoli di stato italiani. Le pressanti richieste dei governatori, tra i cui compiti non vi è certo quello d’indicare in maniera dettagliata quali politiche economiche i governi devono attuare, instillarono nei mercati il timore che la repubblica italiana si trovasse ormai sull’orlo dell’abisso finanziario, alla stessa stregua di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna.
Nell’autunno 2011, racconta Timothy Geithner nel suo libro ‘‘Stress test’’, alcuni ‘‘funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere. Volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fondo monetario internazionale all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato’’.
Prestiti, si badi, che Roma non aveva mai chiesto. Ma la sgradita sorpresa sarebbe venuta a galla il 3 e 4 novembre 2011 durante il G20 di Cannes, dove fu recitata la grande scena madre.

A svelare i retroscena di quel vertice è stata la penna di José Luis Zapatero. Nel suo libro ‘‘Il dilemma’’ riferisce che in quei giorni nella città della Costa Azzurra già circolavano voci insistenti che davano per scontato che il vetusto Monti Mario, con la qualifica di podestà forestiero, avrebbe presto sostituito il noto femminista Silviuccio B. a Palazzo Chigi. Ma le più succose parole vergate da Zapatero sono queste:
‘‘Merkel mi salutò cordialmente e avanzò, quasi senza preamboli, una proposta nella quale non avevo mai sentito parlare, né nel vertice dell’eurogruppo di qualche giorno prima, né durante i colloqui immediatamente precedenti all’appuntamento di Cannes. Mi chiese se ero disposto ad accettare una linea preventiva di aiuti da cinquanta miliardi di euro dal Fondo monetario internazionale, mentre altri ottantacinque sarebbero andati all’Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no’’.
Un no altrettanto secco lo pronunciò il noto femminista. E comunque all’Italia sarebbero stati in realtà concessi solo quarantasette miliardi di dollari. Con un coup de téâtre degno della sua consumata esperienza di guitto di lungo corso, non negò però al Fondo monetario internazionale di monitorare i nostri conti pubblici.
Barack Obama, informato dal suo segretario al tesoro Timoty Geithner delle subdole tresche ordite dai governi transalpini per mettere nel sacco il noto femminista, e ben consapevole del nocciolo vero del problema, ossia che l’Italia intendeva versare al fondo salva stati il cinque per cento e non il diciotto, propose una soluzione capace, in teoria, di appianare ogni controversia. Il premio Nobel per la pace consigliò infatti di finanziare il fondo salva stati con i diritti speciali di prelievo, unità di conto convertibile in valuta emessa dal Fondo monetario internazionale e a disposizione, a mo’ di riserva, delle banche centrali.
Il brutto marito della bellissima Carla Bruni, all’anagrafe Sarkozy Nicolas, président de la république française, si dichiarò subito d’accordo. E in verità la proposta risultava davvero allettante, poiché consentiva di tirar fuori i quattrini per il fondo salva stati senza mettere, almeno nell’immediato, mano al portafogli.
Lì per lì neppure la graziosa Kanzlerin riuscì a trovare una scusa plausibile per dire ‘‘nein’’, ma non poteva dire nemmeno ‘‘ja’’, se prima non consultava la Bundesbank. Il premio Nobel per la pace la pregò di telefonare all’istante a Jens Weidmann, boss del suddetto istituto, il quale il ‘‘nein’’ addirittura lo urlò e, con ogni probabilità, aggiunse pure che per devolvere i diritti speciali di prelievo al fondo salva stati fosse necessaria una deliberazione del Bundestag, parlamento della Bundesrepublik Deutschland.
Dunque, fu ‘‘nein’’.
Obama insisté fino a quando, all’improvviso, la graziosa Kanzlerin scoppiò a piangere.
«Non è colpa mia», disse al premio Nobel per la pace, «la nostra costituzione l’avete scritta voi. Non posso suicidarmi. E’ giusto che anche l’Italia paghi».
E l’Italia, come sappiano, pagò e continua a pagare. Il giorno 12 di quello stesso mese di novembre il vetusto Monti Mario, come le voci di corridoio già da tempo sussurravano, sostituì il noto femminista nella poltrona romana di presidente del consiglio e prono firmò, da solerte podestà forestiero, tutti gli atti d’impegno affinché l’Italia contribuisse al fondo salva stati nella misura del diciotto per cento e non del cinque.
Ma poiché il nostro è un paese dove ogni tragedia deve per forza di cose tramutarsi in farsa, il noto femminista votò, insieme alla ex opposizione composta da rottami democristiani e comunisti fusi nel Pd, la fiducia al governo presieduto dal vetusto Monti Mario, rendendosi in tal modo complice dell’impoverimento subito dalla nazione per salvare le banche del nord Europa.
Eh, sì, ci sarebbe da ridere, se non fosse da piangere.



venerdì 11 luglio 2014

Stato, mercato globale e società

La libera circolazione internazionale di merci, capitali e forza lavoro – la globalizzazione dell’economia, insomma – diventa anno dopo anno più vasta, anno dopo anno più intensa, provocando effetti non solo sulle nostre vite quotidiane ma anche ponendo vincoli stringenti all’azione dei governi.
Non a caso le politiche economiche finalizzate al sostegno dei consumi mediante la spesa pubblica corrente, coperta in parte attraverso un’accresciuta pressione fiscale e in parte aumentando il debito pubblico, non hanno futuro.
A tal riguardo un esempio da manuale ce lo fornisce il desolante capitombolo della Grecia. Nell’aprile 2010 il governo greco dichiarò che non avrebbe potuto rimborsare i titoli del suo debito in scadenza nel successivo mese di maggio. Si rese pertanto necessario un salvataggio grazie a denari erogati dal Fondo monetario internazionale e dall’Unione europea.
Ma come e perché i greci erano incappati in quel pasticcio?
La ragione principale fu dovuta all’afflusso di capitali dall’estero, in special modo da Francia e Germania, a caccia in terra ellenica di migliori remunerazioni, senza oramai incappare nel rischio di cambio dopo l’ingresso della Grecia nell’unione monetaria.
La discesa dei tassi sulle proprie obbligazioni emesse in euro, non più in dracme, induceva inoltre i governi ellenici ad accrescere l’indebitamento per pagare pensioni baby e aumenti salariali alle pletoriche burocrazie statali. In virtù della finanza allegra entusiasticamente perseguita dai loro governanti, i greci hanno perciò vissuto per oltre un lustro al di sopra delle proprie possibilità. Non per niente Atene si era riempita di Mercedes Benz e Bmw. Il brusco risveglio ha avuto le fatali conseguenze che ben conosciamo. Nello sforzo disperato di risanare il bilancio pubblico, come imposto dai creditori che hanno elargito gli aiuti, alla sbornia ha fatto seguito un generalizzato impoverimento della nazione.

Altri rilevanti aspetti della globalizzazione possiamo toccarli con mano tra le mura di casa nostra. Fino a pochi decenni or sono l’Italia era un paese d’emigranti, oggi è invece terra che accoglie immigrati. Ogni qual volta mangiamo un piatto di pastasciutta al sugo, il pensiero corre perciò agli immigrati che raccolgono i pomodori sui nostri campi. O possiamo forse dimenticare le tante domestiche straniere a servizio nelle nostre famiglie?
Le braccia italiane non scappano più all’estero come un tempo. O, a voler essere esatti, non sono più così numerosi come un tempo i nostri lavoratori che partono in cerca di fortuna altrove. Adesso, a emigrare, sono le piccole e medie industrie.
So di un caseificio che, chiusi i battenti in patria, è andato a produrre scamorze in Ucraina. So di un laboratorio di abiti da lavoro che ha trasferito la produzione in Bangladesh. So addirittura di una dentista che, assieme ad altri suoi colleghi, ha aperto uno studio a Spalato, in Dalmazia, dismettendo la professione in Italia.
Se un tempo solo le grandi aziende impiantavano stabilimenti all’estero, oggigiorno sono le piccole imprese a imbarcarsi nell’avventura. I motivi che le spingono sono tre.
Primo, vengono attratte da costi del lavoro più bassi, vantaggio in parte attenuato dalla minore preparazione delle maestranze straniere.
Secondo, subiscono un carico fiscale di gran lunga inferiore, realizzando più appetitose percentuali di profitto netto.
Terzo, i lacci e laccioli di natura burocratica sono meno pressanti, consentendo ai titolari di dedicarsi alla gestione aziendale liberi dall’assillo di scadenze e di frustranti formalità.
Gli imprenditori emigrati, stando almeno a quanto affermano, giudicano decisivi soprattutto il secondo e il terzo motivo.

Perdere un’azienda di produzione ha effetti sociali negativi. Ogni volta che una fabbrica o fabbrichetta sospende la produzione qui da noi e la trasferisce all’estero i suoi dipendenti italiani rimangono senza lavoro. Non vi è oltre tutto speranza alcuna che questo processo s’interrompa, a meno che lo stato non riduca il carico fiscale sulle imprese. Fernand Braudel, il celebre storico, in base alla sua lunga esperienza di studioso sosteneva che le attività imprenditoriali non avevano mai prosperato se prive del fattivo appoggio del potere politico.
Poiché con la globalizzazione gli imprenditori votano con i piedi, andando a cercare le condizioni ottimali lì dove si trovano, e poiché una nazione deindustrializzata è una nazione povera, il nuovo vincolo cui le autorità politiche devono soggiacere è chiaro. Se non vogliono impoverire il paese non devono lasciarsi scappare le aziende. E per riuscirci non devono subissarle di tasse.



giovedì 3 luglio 2014

Semipresidenzialismo all'amatriciana

Da qualche tempo il noto femminista, nonché ex senatore, nonché ex cavaliere del lavoro, nonché mai pago d’essere ormai avviato su un malinconico viale del tramonto, propone d’introdurre nel nostro ordinamento costituzionale l’elezione diretta del capo dello stato.
A tanti sembrerà la solita idea più o meno strampalata tipica del personaggio in questione, ma da un punto di vista squisitamente tecnico non è affatto così, perché l’attuale carta già configura un sistema che potremmo a ragione definire semipresidenzialismo all’amatriciana.
«Ma come», esclamerete voi, «se in tutti i manuali di diritto costituzionale, come pure sui foglietti dei baci Perugina, c’è scritto che il nostro è un sistema parlamentare!».
A parte il fatto che il nostro è un sistema parlamentaristico, non parlamentare, e dunque lontano mille miglia dal modello Westminster, cioè quello britannico, ma vi basterà confrontare la nostra costituzione con quella francese del 1958 per scoprire che tra le due, per quanto riguarda le potestà del capo dello stato, esiste una sola differenza.
Quale?
La norma contenuta nell’articolo 9 della costituzione francese – ‘‘Il presidente della repubblica presiede il consiglio dei ministri’’ – che nella nostra manca. Tutto il resto, per quel che concerne monsieur le président e il signor presidente, è identico. Eccetto il fatto non insignificante, è chiaro, che in Francia a eleggere il presidente provvede l’intero corpo elettorale con suffragio diretto, mentre da noi lo si fa con suffragio indiretto.
Ergo, il nostro è un semipresidenzialismo all’amatriciana.

Di questa situazione non ci dobbiamo per niente meravigliare. La carta repubblicana entrata in vigore il primo gennaio 1948, per quanto attiene a funzioni, potestà e rapporti degli organi politici statali (parlamento, governo, capo dello stato), è una copia quasi perfetta dello statuto albertino. L’unica differenza tra la costituzione e lo statuto è che nella carta oggi in vigore non viene espressamente indicata una norma al contrario presente all’articolo cinque della vecchia carta: ‘‘Al re solo appartiene il potere esecutivo’’. Ma è un dettaglio insignificante, poiché il presidente della repubblica detiene, come deteneva il re, i poteri di controfirma sui decreti e i disegni di legge governativi. Ciò significa, tradotto in un linguaggio adamantino, che il presidente ha in pugno il governo e può condizionarne a piacere l’azione.
Aperta parentesi. A uso e consumo dei pedanti aggiungerò che il re aveva inoltre sulle leggi un assoluto potere di sanzione. Poteva cioè a sua discrezione promulgarle o meno, mentre al presidente è data facoltà di rinviare con messaggio motivato una legge alle camere. Se però il parlamento gli ripropone lo stesso testo è tenuto a promulgarlo. Oltre a ciò, va ricordato che a suo tempo il senato era per intero di nomina regia, adesso invece il presidente può nominare soltanto cinque sentori a vita. Chiusa parentesi.

I pilastri del sistema delineato dallo statuto albertino erano il parlamento e il capo dello stato, con al centro il governo, politicamente responsabile nei riguardi del parlamento e strattonato di qua e di là dalle camere e dal re. La costituzione repubblicana ha riprodotto, al millimetro, il medesimo schema.
Il parlamentarismo nostrano si differenzia quindi in maniera eclatante dal modello parlamentare Westminster, i cui pilastri sono il parlamento e il governo. Se volessimo imitare il sistema inglese dovremmo riscivere la costituzione da cima a fondo e, soprattutto, dovremmo abrogare il quarto e quinto comma dell’articolo 87, che conferiscono al presidente i poteri di controfirma sui disegni di legge e sui decreti governativi, lasciandogli solo la prerogativa di promulgare le leggi. In un paese culturalmente e politicamente reazionario come l’Italia, incapace persino di abolire le province come Dio comanda, ciò non avverrà mai.
Sarebbe pertanto più agevole correggere il nostro semipresidenzialismo all’amatriciana e farne un semipresidenzialismo tout court, alla francese. Basterebbe una piccola modifica all’articolo 83 della costituzione, che disciplina appunto l’elezione del presidente. Non sarebbe nemmeno indispensabile obbligare il capo dello stato a presiedere il consiglio dei ministri, i quali potranno continuare a recarsi loro stessi al Quirinale per far firmare le scartoffie e ricevere le insindacabili disposizioni, così come avveniva ai tempi del re e come avviene tutt’ora.