venerdì 18 luglio 2014

Per un euro in più

Grazie alle testimonianze di chi vi ha assistito in prima persona, oggi noi italiani finalmente sappiamo come e perché nel novembre del 2011 abbiamo perduto la sporca guerra dell’euro, umiliati con scherno da francesi e tedeschi.
Gli studiosi di sociologia del pettegolezzo ritengono che il casus belli del conflitto iniziato nel 2010 tra il nostro governo e quelli d’oltralpe vada individuato in un goliardico apprezzamento espresso dal noto femminista Silviuccio B. sul cospicuo cofano posteriore appartenente alla graziosa Kanzlerin Angelina Merkel.
Benché seducente, e benché da molti condivisa, la tesi è però destituita di ogni fondamento. A smentirla oltre ogni ragionevole dubbio hanno provveduto i libri scritti da Lorenzo Bini Smaghi, all’epoca membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea, da Timothy Geithner, all’epoca segretario al tesoro del governo Usa, e da José Luis Zapatero, all’epoca primo ministro del regno di Spagna. A confermare e rafforzare le testimonianze rese per iscritto dai tre illustri personaggi or ora citati ci ha poi pensato Giulio Tremonti, all’epoca ministro dell’economia del governo di Roma, intervistato al riguardo.
La causa che scatenò il confronto a muso duro con i nostri partner europei risiede per intero nel superiore principio etico, religiosamente rispettato da francesi e tedeschi, in base al quale per arraffare dal prossimo tuo un euro in più è lecito ammazzare chi ti pare. La gente seria, si sa, non guarda in faccia a nessuno e procede dritto per la sua strada.
Insomma, fu una volgare faccenda di quattrini e la venustà della graziosa Kanzlerin, non adeguatamente apprezzata dal noto femminista, non c’entrò per niente.

Nella primavera del 2010, scoppiata con il caso Greco la crisi dei debiti sovrani, si ritenne necessario approntare un fondo salva stati per sostenere i paesi dell’eurozona dalle finanze pubbliche dissestate e non più in grado di collocare a tassi d’interesse accettabili sui mercati mobiliari i titoli del proprio debito.
Nel corso di quell’anno i primi aiuti alla Grecia, forniti per impedirle di dichiarare bancarotta e consentirle così di pagare i debiti in scadenza, vennero erogati dal Fondo monetario internazionale e dai singoli stati dell’Unione europea per mezzo di prestiti bilaterali. Il fatto determinante, quello che delineava gli aspetti cruciali della situazione, consisteva nella forte esposizione delle banche tedesche e francesi nei confronti della Grecia, pari a circa la metà dell’intero debito pubblico ellenico. Le banche italiane, invece, ne detenevano una modesta percentuale.
Nel dicembre di quell’anno apparve sul ‘‘Financial Times’’ un articolo a firma di Jean Claude Juncker, allora presidente dell’eurogruppo, e del ministro italiano Giulio Tremonti nel quale i due autori proponevano, al fine di salvaguardare l’unione monetaria, di affiancare al fondo salva stati anche un’agenzia europea del debito che emettesse obbligazioni per conto dei paesi dell’eurozona (eurobond) e dagli stessi congiuntamente garantite.
La repubblica federale tedesca rigettò la proposta, sia perché, se attuata, i paesi cicala non avrebbero corretto la loro viziosa passione per la finanza allegra e sia perché temeva che gli eurobond sarebbero stati collocati a tassi superiori a quelli con i quali riusciva a piazzare le proprie obbligazioni, e dunque per la Germania non convenienti.
Il ‘‘nein’’ teutonico provocò un serio dissidio con il governo di Roma, che via via s’inasprì man mano che la crisi aggrediva altri paesi, quali Irlanda, Portogallo e Spagna. L’esposizione delle banche italiane verso questi paesi non superava il cinque per cento, una misura modesta se confrontata all’esposizione delle banche del nord Europa.
Il governo di Roma si dichiarò disponibile a contribuire al fondo salva stati per il diciotto per cento circa, che rappresentava la quota del pil italiano in rapporto a quello dell’intera eurozona, solo se veniva contemporaneamente accettato e reso operativo anche il progetto degli eurobond, altrimenti Roma non avrebbe scucito più del cinque per cento.
Parigi e Berlino, in virtù del supremo principio etico che ho ricordato all’inizio – per arraffare un euro in più dal prossimo tuo ti è lecito ammazzare chiunque – non erano affatto d’accordo con un tale criterio di ripartizione delle spese. Poiché l’esposizione delle loro banche nei riguardi dei paesi in bilico era di gran lunga maggiore di quel misero cinque per cento dell’Italia, avrebbero dovuto sborsare loro le somme da capogiro, mentre al contrario nutrivano sì il proposito di salvare le proprie banche, ma con i soldi degli altri, piuttosto che con i propri.
Roma, come scrive Lorenzo Bini Smaghi nel suo libro ‘‘Morire di austerità’’, minacciò addirittura di uscire dall’euro, affrancando in tal modo l’Italia dall’obbligo di contribuire al finanziamento del fondo salva stati. Bini Smaghi giudica comunque quella mossa poco redditizia, in quanto ‘‘la minaccia di uscire dall’euro non sembra una strategia negoziale vantaggiosa (...). Non è un caso che le dimissioni di Berlusconi siano avvenute dopo che l’ipotesi di uscita dall’euro era stata ventilata in colloqui privati con governi di altri paesi’’.
La reazione non si fece attendere e fu davvero terrificante.

Nel luglio 2011 le banche francesi e tedesche cominciarono a vendere titoli del debito italiano da loro tenuti in portafoglio, facendone calare i prezzi e salire i rendimenti fino al sei per cento.
Il cinque agosto 2011 viene recapitata al governo italiano la famigerata lettera della Bce, firmata da Jean-Claude Trichet, allora governatore della Banca centrale europea, e da Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia in procinto di sostituire il primo alla guida dell’istituto d’emissione europeo.
La coppia di governatori, nella missiva, chiedeva al governo di Roma di tagliare con la massima rapidità il deficit pubblico, portando nel 2012 lo spareggio all’uno per cento del pil, e raggiungere nel 2013 la parità tra entrate e uscite. Suggerivano a tale scopo una lunga serie di tagli, tra i quali brillava la riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici, da attuare con decreto.
La rapidità con la quale si sarebbe dovuti arrivare all’aggiustamento dei conti era talmente eccessiva da risultare comica, più che impossibile. Ciò malgrado quella lettera ebbe effetti devastanti, ampliando a dismisura la fuga degli investitori dai titoli di stato italiani. Le pressanti richieste dei governatori, tra i cui compiti non vi è certo quello d’indicare in maniera dettagliata quali politiche economiche i governi devono attuare, instillarono nei mercati il timore che la repubblica italiana si trovasse ormai sull’orlo dell’abisso finanziario, alla stessa stregua di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna.
Nell’autunno 2011, racconta Timothy Geithner nel suo libro ‘‘Stress test’’, alcuni ‘‘funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere. Volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fondo monetario internazionale all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato’’.
Prestiti, si badi, che Roma non aveva mai chiesto. Ma la sgradita sorpresa sarebbe venuta a galla il 3 e 4 novembre 2011 durante il G20 di Cannes, dove fu recitata la grande scena madre.

A svelare i retroscena di quel vertice è stata la penna di José Luis Zapatero. Nel suo libro ‘‘Il dilemma’’ riferisce che in quei giorni nella città della Costa Azzurra già circolavano voci insistenti che davano per scontato che il vetusto Monti Mario, con la qualifica di podestà forestiero, avrebbe presto sostituito il noto femminista Silviuccio B. a Palazzo Chigi. Ma le più succose parole vergate da Zapatero sono queste:
‘‘Merkel mi salutò cordialmente e avanzò, quasi senza preamboli, una proposta nella quale non avevo mai sentito parlare, né nel vertice dell’eurogruppo di qualche giorno prima, né durante i colloqui immediatamente precedenti all’appuntamento di Cannes. Mi chiese se ero disposto ad accettare una linea preventiva di aiuti da cinquanta miliardi di euro dal Fondo monetario internazionale, mentre altri ottantacinque sarebbero andati all’Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no’’.
Un no altrettanto secco lo pronunciò il noto femminista. E comunque all’Italia sarebbero stati in realtà concessi solo quarantasette miliardi di dollari. Con un coup de téâtre degno della sua consumata esperienza di guitto di lungo corso, non negò però al Fondo monetario internazionale di monitorare i nostri conti pubblici.
Barack Obama, informato dal suo segretario al tesoro Timoty Geithner delle subdole tresche ordite dai governi transalpini per mettere nel sacco il noto femminista, e ben consapevole del nocciolo vero del problema, ossia che l’Italia intendeva versare al fondo salva stati il cinque per cento e non il diciotto, propose una soluzione capace, in teoria, di appianare ogni controversia. Il premio Nobel per la pace consigliò infatti di finanziare il fondo salva stati con i diritti speciali di prelievo, unità di conto convertibile in valuta emessa dal Fondo monetario internazionale e a disposizione, a mo’ di riserva, delle banche centrali.
Il brutto marito della bellissima Carla Bruni, all’anagrafe Sarkozy Nicolas, président de la république française, si dichiarò subito d’accordo. E in verità la proposta risultava davvero allettante, poiché consentiva di tirar fuori i quattrini per il fondo salva stati senza mettere, almeno nell’immediato, mano al portafogli.
Lì per lì neppure la graziosa Kanzlerin riuscì a trovare una scusa plausibile per dire ‘‘nein’’, ma non poteva dire nemmeno ‘‘ja’’, se prima non consultava la Bundesbank. Il premio Nobel per la pace la pregò di telefonare all’istante a Jens Weidmann, boss del suddetto istituto, il quale il ‘‘nein’’ addirittura lo urlò e, con ogni probabilità, aggiunse pure che per devolvere i diritti speciali di prelievo al fondo salva stati fosse necessaria una deliberazione del Bundestag, parlamento della Bundesrepublik Deutschland.
Dunque, fu ‘‘nein’’.
Obama insisté fino a quando, all’improvviso, la graziosa Kanzlerin scoppiò a piangere.
«Non è colpa mia», disse al premio Nobel per la pace, «la nostra costituzione l’avete scritta voi. Non posso suicidarmi. E’ giusto che anche l’Italia paghi».
E l’Italia, come sappiano, pagò e continua a pagare. Il giorno 12 di quello stesso mese di novembre il vetusto Monti Mario, come le voci di corridoio già da tempo sussurravano, sostituì il noto femminista nella poltrona romana di presidente del consiglio e prono firmò, da solerte podestà forestiero, tutti gli atti d’impegno affinché l’Italia contribuisse al fondo salva stati nella misura del diciotto per cento e non del cinque.
Ma poiché il nostro è un paese dove ogni tragedia deve per forza di cose tramutarsi in farsa, il noto femminista votò, insieme alla ex opposizione composta da rottami democristiani e comunisti fusi nel Pd, la fiducia al governo presieduto dal vetusto Monti Mario, rendendosi in tal modo complice dell’impoverimento subito dalla nazione per salvare le banche del nord Europa.
Eh, sì, ci sarebbe da ridere, se non fosse da piangere.



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