Un mio amico, si chiama Daniele, ha ricevuto dalla sorte un tiro davvero mancino. Il giorno prima delle nozze la ragazza che l’indomani sarebbe dovuta salire con lui sull’altare per scambiarsi a vicenda l’agognata promessa si gettò da una finestra e si uccise.
Dopo la perdita della sposa Daniele prese l’abitudine di andare ogni domenica mattina al cimitero e trattenersi in intimi e silenziosi colloqui con la sua cara chiusa nella tomba. Poi, per il pranzo domenicale, puntava sempre dai mancati suoceri. La visita al cimitero e il pranzo dai suoceri divennero rituali, quasi fossero celebrazioni liturgiche.
Non ho mai conosciuto la fidanzata di Daniele, l’amicizia tra me e lui si fece stretta in un tempo successivo alla disgrazia, né ne ricordo il nome, benché lui me lo abbia sicuramente detto. Mi diede da leggere le poesie d’amore che scriveva per lei e mi mostrò alcune foto. La giovane vi compariva insieme a lui sotto un ombrellone in riva al mare. Una bella ragazza, devo dire. Una bella ragazza che però non sorrideva. Soffriva di depressione.
Un pomeriggio di un lontano solstizio d’estate, durante un giro in bici, Daniele volle che conoscessi i suoceri putativi. Abitavano a Preturo, vicino alla pista d’atterraggio dell’aeroclub, in una bella casa nuova di loro proprietà, divisa in tre appartamenti. Uno occupato da padre e madre della defunta, uno dall’altra figlia sposata, e uno vuoto. Quello vuoto sarebbe stato destinato a Daniele e consorte, se la futura consorte non si fosse suicidata.
Ci presentammo in bicicletta e sudati, ma fummo ciò malgrado accolti con estrema cortesia. A me offrirono un succo di frutta. Il volto della madre della sposina scomparsa non mi pareva del tutto ignoto. Almeno di vista la conoscevo, e glielo dissi.
«E’ possibile», rispose. «Lavoravo all’ufficio postale di via Urbani. Adesso sto in pensione».
Il padre, molto magro e, a giudicare dall’aspetto, non proprio in perfetta salute, apprezzò i miei complimenti per la bella casa e mi mostrò le grigie e distanti vette del Gran Sasso, visibili dalle finestre. Ulteriore pregio dell’abitazione, quella spettacolare veduta.
Comparve a un certo punto, sollecitata credo da Daniele, anche la figlia sposata. Si chiamava Silvia e aveva partorito da due o tre mesi una bambina. S’intravide pure il marito. Un bel fusto diplomato all’Isef, istruttore di nuoto in una piscina.
Silvia era un’appassionata ciclista e decise così di venire a pedalare con noi. Si ripartì dunque in tre e percorsi sì e no un paio di chilometri lei disse:
«Be’, tu adesso, Danie’, te ne puoi pure andare».
Mi chiesi quale interesse potesse avere a voler rimanere sola con un perfetto sconosciuto quale io ero per lei. Ma a sconcertarmi ancor di più fu la reazione di Daniele. Ubbidì senza nulla obiettare all’ordine e quieto quieto ci salutò e prese la strada per L’Aquila.
Noi due arrivammo a San Marco e cominciammo a salire verso Casaline. La bicicletta di Silvia era vecchia, però le sue gambe giravano a dovere. Mi raccontò, del resto, che aveva scalato, fin su ai campi di sci, la montagna di Campo Felice, un’arrampicata che richiede allenamento, testardaggine e il fisico a posto.
Cominciò a parlarmi della sorella morta. Dei disturbi psichici della sua povera sorella suicidatasi il giorno prima del matrimonio.
«A me dispiace che sia morta», concluse, «ma forse è meglio così, perché soffriva troppo», e aggiunse qualcosa che mi rimase incomprensibile: «Siamo soli».
Non le domandai di chiarirmi il significato di quelle due, per me, misteriose parole. Di certo non si riferivano alla sua situazione particolare di madre e moglie. Esprimevano, supposi, un concetto universale. Un concetto nel quale non ho mai creduto, né mi aveva mai sfiorato la mente.
Raggiungemmo Casaline e tornammo indietro. Lei doveva allattare la bimba. Si era fatto tardi.
Svariati anni appresso, nella sala d’aspetto di un dentista, captando non volendo i discorsi di altre due clienti in attesa al pari mio di sottoporsi alle torture odontoiatriche, scoprii che cosa in quel lontano ventuno giugno Silvia avesse voluto dirmi.
«Siamo soli», uscì dalla bocca di una delle due clienti. «Su questa Terra un Dio non c’è».
Era dunque la mancanza di un Dio misericordioso che ci aiuti ora e qui che Silvia aveva lamentato. La mancanza di uno spirito divino che ci conforti e dia sollievo nell’immediato. Una divinità che risolva, se necessario anche materialmente, i nostri guai.
E capii la sua profonda angoscia. La sua delusione tanto più amara se credente, dal momento che un ateo non può sentire la mancanza di colui a cui non crede.
Ma sebbene umana, la solitudine di Silvia non è condivisibile, perché forse a Dio chiediamo troppo. Gli chiediamo molto più di quanto chiediamo a noi stessi.
Bellissimo! Profondo! Triste il pensiero della solitudine, il senso di tradimentno provato dalla ragazza.
RispondiEliminaComplimenti!
Ti ringrazio, Patricia, per i complimenti tanto lusinghieri. Sia il drammatico evento che la situazione psicologica di Silvia, del resto, colpirono moltissimo anche me.
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