Con la fine delle ideologie – o, per meglio dire, con la morte del marxismo perito sotto le macerie del muro di Berlino – agli elettori senza più vessilli non rimane che votare in base alla propria convenienza, al proprio utile, visto ormai che i megafoni degli ideologi di tutte le risme si sono completamente sfiatati.
Non per niente i partiti oggi si dividono, al pari dei loro votanti, in statalisti e antistatalisti. Il propendere per l’uno o l’altro schieramento ha però ben poco a che fare con le elucubrazioni teoriche imbastite dagli intellettualoidi. Dipende invece da pure condizioni esistenziali. Scaturisce cioè dai più ruspanti interessi economici.
Ciò è dovuto a un motivo molto semplice. La spesa pubblica, per chi la riceve, rappresenta un reddito, o comunque un’entrata. I beneficiati (dipendenti pubblici, pensionati, fornitori di beni e servizi allo stato) sono dunque, per loro stessa natura, statalisti a prescindere, come direbbe Totò. Chi ricava al contrario il proprio reddito dal mercato e non dallo stato sarà più propenso a maledire il carico fiscale cui viene assoggettato e vorrebbe meno stato, non più stato.
Stato e mercato costituiscono pertanto le due potenti realtà che condizionano le scelte elettorali di ognuno di noi.
Stato e mercato non sono però entità l’una all’altra alternative. Storicamente abbiamo assistito all’esistenza di sistemi economici collettivisti le cui capacità produttive sono risultate meno efficienti dei sistemi di mercato. La riprova ci è offerta dalla Cina. Non appena i cinesi hanno buttato alle ortiche Carlo Marx la loro economia è fiorita crescendo a ritmi stupefacenti. D’altro canto, un libero mercato privo delle tutele giuridiche e dei meccanismi di sicurezza interna ed esterna garantiti dallo stato sarebbe impensabile. Senza i poteri pubblici che la sorreggano l’economia di mercato non esisterebbe.
Inoltre, per quanto possa sembrare paradossale, lo statalismo incuba i germi antistatalisti nel suo stesso ventre. L’aumento della spesa pubblica non dona infatti rose e fiori a tutti. Al di là degli effetti nefasti di sprechi e inefficienze ad opera dei sempre più vasti apparati politico-burocratici, è la forza stessa dei numeri a porre limiti invalicabili alla finanza allegra e a provocare contraccolpi.
Per capirlo basta gettare un veloce sguardo a quanto accaduto negli ultimi cento anni.
Fino ai primissimi anni del Novecento le spese pubbliche ammontavano a malapena al quindici per cento del reddito nazionale, eccezion fatta per i periodi di guerra. Oggi, incluse le pensioni, si supera tranquillamente il cinquanta per cento. Le maggiori spese sono state finanziate accrescendo via via la pressione fiscale, nonché il debito pubblico.
Nessuno stato ha però una capacita indefinita di indebitarsi, come dimostrano le recenti vicissitudini di Argentina e Grecia. Né si possono aumentare illimitatamente le tasse senza sconquassare i sistemi economici e moltiplicare il numero dei disoccupati, e la prova ce la forniscono le recenti cronache di Spagna, Italia, Francia, Irlanda, Portogallo.
Se gli stati attuano politiche di bilancio dannose per gran parte dei loro cittadini, costoro prima o poi vengono assaliti dalla nausea e cominceranno a porsi domande angosciose. Con il tempo sapranno anche darsi delle risposte. Si convinceranno cioè che il miglior modo per proteggersi da troppo stato è meno stato, e voteranno di conseguenza.
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