venerdì 15 agosto 2014

La lotta per Cristina

Avevo dodici anni quando mi battei per una ragazza. Si chiamava Cristina. Era bionda e aveva il nasino spruzzato di lentiggini. Non ricordo se avesse gli occhi chiari. Forse erano nocciola.
Successe al mare, a Pineto, piccolo centro della costa teramana, dove l’estate la mia famiglia villeggiava. Era il 1968. Fu l’ultimo anno che passammo a Pineto le vacanze estive.
Cristina, i suoi genitori, un fratellino e un merlo erano alloggiati in una villetta di fianco alla nostra. Il merlo lo tenevano all’aperto, in giardino, con una zampetta legata a una catenella in cima a un trespolo.
Venivano da Subiaco.
Dal pomeriggio alla sera il padre di Cristina, di professione come la madre maestro elementare ma appassionato di pittura, seduto vicino al merlo dipingeva. Non che facesse il ritratto all’uccello. Qualcosa sulle sue tele ci metteva, ma il merlo no. Almeno, che io ricordi.
Davanti alle villette correva uno stradone ghiaiato. Oltre lo stradone c’era una vigna abbandonata. Per arrivare in spiaggia bisognava attraversare quella vigna.
Le due abitazioni vicine, e di conseguenza i vicini ombrelloni, facilitarono la nostra conoscenza. Tutti e due avevamo finito quell’anno la prima media e perciò parlavamo più che altro di scuola.
Cristina piaceva anche a un altro ragazzino. Non lo conoscevo, né lo conosceva lei. Comunque, con lui qualche parola ce la scambiava. Aveva i capelli rossi, e così lo chiamavamo il Rosso.
Un pomeriggio Cristina e io stavamo in acqua e si tornava verso riva. Non a nuoto, camminando sul fondale basso. A un cero punto sulla spiaggia comparve il Rosso. Ci vide e venne verso di noi. Avevamo quasi raggiunto la battigia quando lui si avvicinò e cominciò a darmi degli spintoni nell’intento di buttarmi giù.
Cristina si allontanò e andò ad accoccolarsi sulla sabbia per godersi lo spettacolo.
Il Rosso aveva suppergiù la mia età, era però più robusto e più alto di me. Non avevo speranza di batterlo. Ciò malgrado ci riuscii. Lo scontro finì con lui sotto di me, la schiena distesa sulla rena bagnata, e io sopra di lui che lo inchiodavo tenendogli le spalle ferme a terra.
Ammise la sconfitta, si rialzò e andò via. Cristina, sorridendo compiaciuta, venne a complimentarsi con il vincitore.
Moltissimi anni più tardi m’incontrai per motivi di lavoro con un impiegato del comune di Subiaco. Gli raccontai l’episodio e gli chiesi se la conosceva. Mi disse che i genitori, i due maestri, avevano divorziato e lei era diventata regista alla Rai.

A distanza di tanti decenni quello rimane di sicuro il fatto meno esaltante della mia vita. Battersi come galli per una donna è infatti per me la peggiore delle insensatezze. E’ pur vero che gli uomini, dicono alcuni, sono fatti per battersi, non per amare, ed è altrettanto vero che il valore di un uomo si misura dal suo coraggio. Il coraggio con il quale affronta i suoi avversari, il coraggio con il quale affronta le asprezze della vita, il coraggio con il quale affronta la morte. Ma battersi da galletti per una donna è un’insensatezza.
Naturalmente, in quel caso fui provocato, a me toccò soltanto difendermi. La responsabilità dello scontro non fu mia. I motivi del duello, però, furono e rimangono squallidi.
Le esigenze del basso ventre non meritano tanto.



2 commenti:

  1. Parte una riflesione interessante sui modelli culturali: uno di questi, condiviso da uomini e donne, considera l'atto di battersi come galletti come espressione del concetto di "essere uomo"...

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