La cercammo in casa, il tenente Cipriani e io. La filippina disse che la signora – cito alla lettera – era andata a leggere un libro ai giardini del castello perché era una bella giornata.
Riscendemmo. I giardini stavano proprio davanti al palazzo. Traversammo viale Crispi e c’inoltrammo nel parco. Brillava in effetti un gran sole, da noi insolito a febbraio.
La intravidi seduta a una panchina, il capo chino sul libro.
«E’ lei», dissi a Cipriani. Con la mano lo invitai a fermarsi, mentre io mi avvicinai alla panchina.
Carla levò gli occhi dal libro. Non parve né sorpresa né niente. Si limitò a fissarmi.
Sentire su di me quegli sguardi, a dispetto degli anni trascorsi, mi ferì il sangue. Se non vi siete mai specchiati in due cristalli verdi simili ai suoi non potete comprendere.
Disse: «Perché quella faccia seria?».
«Tuo marito è morto».
Richiuse il libro, seccata. «Cos’è, uno scherzo di carnevale?». Poi notò il tenente, fermo a una decina di passi, e capì che era vero. Sbarrò gli occhi.
«Gli hanno sparato».
Si alzò di scatto dalla panchina. Mi guardò come se volesse bruciarmi. Non ci badai. Il marito non gliel’avevo mica ucciso io.
Avevo fatto di peggio: gliel’avevo fatto conoscere.
All’epoca lavoravo per lui. Praticante nel suo studio legale. Un bel giorno vinsi la mia prima causa difendendo in procura un fruttivendolo accusato di oltraggio a pubblico ufficiale per aver definito un vigile urbano “figlio di padre incerto”. Il certificato di nascita del vigile riportava il nome della madre e lì dove doveva esserci quello del padre si leggeva “ignoto”.
Per festeggiare eravamo andati a cena. Carla, io e il titolare dello studio, avvocato Corrado Properzi. Di lì a una settimana Carla ruppe il fidanzamento e sei mesi più tardi lei e l’avvocato salirono sull’altare a infilarsi gli anelli.
Avevo abbandonato lo studio legale e sostenuto il concorso per entrare in magistratura.
Quella mattina ero io il sostituto di turno. Appena entrato in ufficio, il telefono aveva squillato. Avevano ammazzato Properzi.
***
Mi voltò le spalle e partì spedita verso viale Crispi.
«Carla!».
Con un gesto ordinai al tenente di correrle dietro.
Cipriani la raggiunse e le agguantò un braccio. Lei si girò e con il libro lo colpì alla testa. Il berretto dell’ufficiale volò per terra.
Mi affrettai verso di loro. Una donna che spingeva un pupo in carrozzina aveva assistito alla scena. Ci osservava perplessa. Incrociò il mio sguardo e si convinse a riprendere il largo.
Il tenente raccolse il berretto e se lo calcò sulla zucca. Non sembrava per niente felice.
Carla si mise una mano alla fronte. I lacrimoni colavano sulle guance.
«Dico, è questo il modo di reagire?», la rimproverai.
«Voglio andare a casa. Madonna santa, hanno ucciso mio marito».
«Devo parlarti».
«A casa non possiamo parlare?».
«E’ questione di un minuto».
Tornai alla panchina. Mi seguì controvoglia. Ci sedemmo. Con un cenno imposi a Cipriani di mantenersi a una certa distanza. Era poco prudente permettergli di ascoltare. Carla frugò nella borsetta in cerca del fazzoletto. Si asciugò le lacrime.
Dovevo appurare se aveva un alibi. Dissi: «E’ stata Luisa a trovare il corpo, stamattina, e ha telefonato ai carabinieri».
«Luisa?».
Luisa era la segretaria del marito.
«Sì, lei. Che c’è di strano?».
«A Napoli?».
«Qui, a Civita. Allo studio».
«Ma oggi Corrado aveva una causa a Napoli. E’ partito ieri pomeriggio».
«E invece no. Ti pare?».
Ebbe un rigurgito di pianto. «Madonna santa, ma chi può averlo fatto?».
Sarebbe piaciuto anche a me saperlo. Per pura curiosità, s’intende. Già conoscevo la persona che avrei fatto condannare.
«Lo scoprirò», dissi.
Un’anziana signora passò con un barboncino al guinzaglio. Il cane annusò il tronco di un ippocastano e alzò la zampetta. La padrona lo lasciò pisciare con calma, poi se lo trascinò via.
«Quando l’hai visto per l’ultima volta?».
«Ieri, dopo pranzo. Ha preparato la valigia e è partito. Saranno state le due e mezzo, le tre».
Secondo i primi rilievi del medico legale il decesso era avvenuto dalle nove alle dieci della sera precedente.
«Tu sei rimasta tutta la sera in casa?».
«Sono andata al cinema. Al Rex».
«Sola?».
«Con un’amica. Forse la conosci, la moglie di Orlandi».
La conoscevo. Orlandi era un giudice del tribunale.
«Fino a che ora siete rimaste insieme?».
Mi lanciò un’occhiata cattiva. «Credi che l’abbia ucciso io?».
«No, naturalmente, c’è bisogno di dirlo? Ma qualcuno potrebbe sospettarlo. Se non mi racconti tutto, come faccio a tenerti fuori dall’inchiesta?».
«Il film è finito alle otto. Siamo uscite dal cinema e ci siamo salutate. Vuoi sapere il titolo?».
«No. Alle otto? Sicuro?».
«Sì, minuto più minuto meno».
«Sei tornata subito a casa?».
«Sì».
«La filippina può confermarlo?».
«La domenica è il suo giorno libero. Quand’è rientrata io dormivo».
Non aveva un alibi. E il Rex, sotto i portici del corso, stava sì e no a cento metri dallo studio dell’avvocato.
«Tuo marito possedeva una pistola?».
«No».
«E tu?».
«No. A che mi serve?».
Riflettei. Non mi sarebbe convenuto incriminarla subito. Avrei dovuto lasciar passare qualche giorno. Altrimenti sarei stato costretto a sottoporla alla prova del guanto di paraffina, rischiando di scagionarla.
Il problema era trovare un movente. I soldi erano da scartare. Carla era ricca di suo. Neppure la gelosia avrebbe funzionato. Non era mai circolato un pettegolezzo.
Provai ugualmente a battere il tasto: «Aveva un’amante?».
«Corrado? Ma che dici?».
«E tu?».
«Sei pazzo?».
«Guarda che se non è così lo verremo a sapere».
«Ma per favore...».
Il castello di Civita, seminascosto dagli alberi, biancheggiava nella luce tersa. Lontano, alle spalle del castello, la cima del Corno Grande era incappucciata di neve. Il suo profilo aspro si stagliava contro un cielo carta da zucchero. Tutto appariva lucido, intenso, di una bellezza che stordiva.
Cristo, e io non avevo un movente. Non ce l’avevo, maledizione.
Balzai in piedi.
«Abbiamo finito?».
«Per il momento sì. Fra qualche giorno verrai a deporre in procura. Ti chiameremo noi».
Si alzò. «Lui ora dov’è? Ancora allo studio?».
«All’obitorio, per l’autopsia».
Serrò le palpebre.
«Ciao», dissi. «Mi dispiace».
Non rispose. Si allontanò camminando a testa bassa tra i cespugli di agrifoglio e i tronchi gialli e nocciola dei platani.
Cipriani e io tornammo alla macchina.
«Che pensa, dottore, è stata lei?».
«Non lo so». E aggiunsi: «Può anche essere».
L’avrei mandata all’ergastolo, se avessi avuto un movente, ma non ce l’avevo.
Dovevo scovare un movente. Ma dove? Come?
Maledizione.
***
Passarono una decina di giorni. Il procuratore capo mi convocò nel suo ufficio.
«Allora», chiese, «come va il caso Properzi?».
Mi strinsi nelle spalle. «Ci stiamo lavorando».
Il suo sguardo sfuggiva il mio. Tamburellò con la penna sulla scrivania. «Senta, è vero quello che ho sentito?».
«Cosa?».
«Si dice che lei è la vedova Properzi eravate fidanzati, prima che la signora sposasse l’avvocato».
«Sì, è vero».
Tamburellava con la penna. Guardava fuori dalla finestra. «L’ha sottoposta alla prova del guanto?».
«No».
«Perché?».
Quella era proprio una domanda che non mi sarei mai aspettato. Carla ammazzare Properzi? Assurdo. Ma come spiegarglielo?
«La signora ha un alibi per l’ora del delitto?», insisté.
«No».
Il procuratore strinse le labbra.
«Né lei né il marito possedevano un’arma. Lo abbiamo verificato. Non avevano neanche il porto d’armi».
Sbuffò. «Capirai. Chi vuole una pistola se la procura comunque».
«D’accordo. Ma quale sarebbe stato il movente?».
«E lo chiede a me? Scoprirlo è compito suo».
«E come, scusi? L’avvocato e sua moglie venivano considerati da tutti una coppia affiatata».
«Vox populi vox dei, eh?». Scosse la testa. «Lei si lascia fuorviare dalle apparenze».
Sognavo? M’incolpava di coprire Carla. Me. Me, capite? Pazzesco.
Dissi: «Properzi era penalista. Secondo me il delitto è maturato nell’ambito della sua professione. Sto passando al setaccio le pratiche del suo stu...».
Alzò una mano per obbligarmi al silenzio. «Senta, quel tenente... come si chiama?».
«Cipriani?».
«Sì, Cipriani». Si strofinò il mento con la punta dell’indice. «E’ venuto a raccontarmi un particolare che gli è parso molto strano». Mi spiò di sottecchi per vedere quale effetto provocavano su di me quelle parole.
Nel mio petto l’uragano ululava, ma restai impassibile.
«Lei», continuò, «è andato a informare la signora della morte dell’avvocato insieme a Cipriani. E’ esatto?».
«Sì, è esatto. E’ un reato?».
«No, non lo è. Però Cipriani dice che lei e la signora avete confabulato a quattr’occhi e questo gli è parso un po’... poco ortodosso, ecco».
«Confabulato? E’ stata questa la parola usata da Cipriani?».
Ignorò la domanda. Si accese una sigaretta. «Lo nega?».
«L’ho interrogata, in verità. E Cipriani era presente».
«A una certa distanza, sostiene lui. A ciò invitato espressamente da lei».
«E si è offeso?». Crollai il capo. «Incredibile».
«Non è questo il punto. Non faccia finta di non capire».
«Non capire che cosa?».
Alzò le spalle. «Via, lei e la Properzi siete stati fidanzati. Lo ha appena ammesso».
«E con questo?».
«Con questo si pone un grave problema di compatibilità, caro mio. Grave. Molto grave».
«Quale, scusi? Non riesco a vederlo».
«Lei no, ma io sì. Perciò affiderò l’indagine a un altro sostituto».
***
Sono passati sette mesi e quindici giorni da quella sera di domenica due febbraio in cui qualcuno sparò a Corrado Properzi. Domani comincerà il processo. Alla sbarra compariremo Carla e io.
Il nomignolo affibbiatoci dalla stampa, tanto per cambiare, è più logoro di una suola bucata: gli amanti diabolici. Ma la definizione, applicata a noi, suona originale. Saremmo stati amanti per sette anni senza mai vederci, senza mai parlarci, senza mai scriverci. Senza saperlo, insomma. Tuttavia, il collega che sostiene l’accusa riuscirà lo stesso a provarlo. Ne sono convinto.
Me mi si accusa d’essere l’esecutore materiale. Del resto, potrebbe essere altrimenti? Un tassista giura d’avermi visto uscire dallo studio dell’avvocato domenica due febbraio intorno alle dieci di sera.
Cristo, che schifo questa cella.