Gli scrittori si dividono in due categorie. Quelli che sanno scrivere in maniera suggestiva e gli altri. La gran parte di loro, purtroppo per i lettori, appartiene alla seconda categoria. Se temete che voglia parlarvi di uno di questi ultimi, vi rassicuro subito. Birichino sì, lo sono. Sadico no.
E’ su Enrico Mattioli, er Bukowski de noantri, che desidero richiamare la vostra attenzione e sul suo romanzo ‘‘Il bamboccione’’, nitido affresco neorealista del terzo millennio.
Mattioli, stando alle sue dichiarazioni, è nato e vive in una città del Lazio, capitale di stato, della quale non svela il nome per questione di privacy. Né manca di sottolineare, con vocaboli cristallini, la sua poetica, affermando che ‘‘lo scrittore è come un assorbente, assimila le scorie della società’’.
Ciò basta, credo io, a delineare il suo ingegno. A dirci di che stoffa sia fatto.
La stoffa dell’artista.
Non ci si può quindi meravigliare se dalla sua penna sgorga una prosa matura e moderna, densa di risonanze sociali. Gli è infatti sufficiente una frase per consentire al lettore d’intuire – o, meglio, di toccare con mano – i crudi aspetti dell’Italia d’oggi. Di mettere a nudo quelle verità attuali che non soddisfano, che non entusiasmano. E ‘‘Il bamboccione’’, di quest’arte sapiente, ce ne offre indubitabile prova.
Come si ricorderà, l’epiteto ‘‘bamboccioni’’ fu con disprezzo rivolto in anni recenti ai giovani italiani da un defunto ministrucolo di un governicchio mortadellesco. Il defunto ministrucolo accusava i suoi giovani connazionali di non saper recidere il cordone ombelicale dalla famiglia, preferendo vivere il più a lungo possibile con i genitori, anziché affrontare la vita in autonomia.
Il ministrucolo, dal basso della sua spocchiosa ignoranza, dimenticò di spiegare perché una tale situazione sia tanto frequente. Se fosse sopravvissuto ai suoi troppi anni e se avesse letto il romanzo di Enrico Mattioli le risposte, forse, le avrebbe trovate.
Avrebbe conosciuto le vicende di un giovane uomo la cui indipendenza economica non può essere piena perché gli toccano soltanto lavori avventizi, specie grazie al vessillo della flessibilità e della precarietà, sventolato oggigiorno a tutto spiano per dare quel tocco di modernità al mercato del lavoro.
Certo, la sorella del bamboccione di Mattioli è diversa. E’ libera, emancipata. In una parola, indipendente, e non perde occasioni per apostrofare il fratello con lo sprezzante epiteto ministeriale. Lei è, non a caso, divorziata da un primario e gode perciò di un buon assegno di mantenimento e dell’uso di un appartamento di centocinquanta metri quadri.
Il nostro bamboccione è costretto invece a lavorare come infermiere su un’unità mobile dei servizi sanitari, prestando soccorso agli immigrati che dimorano nella baracche erette alla meno peggio sotto i cavalcavia, almeno finché le forze dell’ordine non li sgomberano. O finché qualcuno non li ammazza.
Ma il neorealismo del Bukowski de noantri, si badi, è tutt’altro che disperato, tutt’altro che allucinante. Insomma, non è affatto privo d’umanità. Il suo bamboccione sa di non avere solide prospettive, vero, così come l’intera Italia d’oggi si sente priva di prospettive, ma sa apprezzare, se può, il magico fascino di quell’eterna città di cui per ragioni di privacy taciamo il nome. E, quando incassa lo stipendio, non si nega, da gran turista, un giretto in botticella. O, se volete, sulla carrozza a cavalli, come la chiamano altrove.
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