sabato 20 aprile 2013

Il ventre molle della nazione


L’inefficienza del nostro apparato politico-burocratico è ormai proverbiale. La discrepanza tra costi e prestazioni lascia stupefatti. E così lo stato italiano, in tutte le sue articolazioni, in tutti i suoi annessi, connessi e collaterali, rappresenta il ventre molle della nazione.
L’azione pubblica, da noi, è profondamente immorale: carceri che scoppiano, mafie che dilagano, fornitori dello stato non pagati.
E’ giunta l’ora, credo io, di domandarsi perché.
La risposta, per quanto a molti apparirà sorprendente, è di natura sostanzialmente tecnica. I poteri pubblici sono inefficienti perché mal congegnati. La nostra repubblica, in poche parole, è sì democratica ma non liberale.
Uno stato non liberale, pur se democratico, tende per forza di cose a ridurre le potestà del corpo elettorale. I cittadini di una democrazia liberale hanno più poteri dei cittadini di una democrazia illiberale. Viceversa, gli apparati politico-burocratici di una democrazia illiberale dispongono di poteri, formali e informali, superiori a quelli a disposizione degli apparati di una democrazia liberale. Diventano, insomma, una casta. Profumatamente pagata e poco efficiente.
Questa antipatica situazione si è determinata per effetto della carta costituzionale, la quale ha assorbito i tre principi dottrinali del precedente regime. Nel primo comma dell’artico uno troviamo infatti il principio proletario, sia pure nella forma del cosiddetto principio lavorista. Al secondo comma dell’articolo quattro troviamo il principio della superiorità etica dello stato. Sparso qua e là troviamo infine il principio corporativo: Cnel, natura semipubblica dei sindacati, organizzazione corporativa della magistratura.
Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, definito dai costituzionalisti un ramo secco, è un costoso e superfluo regalo dell’articolo novantanove. Malgrado ciò, a far tempo dal primo gennaio 1948, per imperdonabile accidia dei corpi legislativi, quel ramo non si pota.
La natura semipubblica dei sindacati discende dal quarto comma dell’articolo trentanove, che ad essi conferisce la potestà di stipulare contratti collettivi di lavoro aventi efficacia erga omnes, norma ereditata dall’articolo dieci della fascistissima legge del 3 aprile 1926. Pertanto i minimi salariali, anziché essere fissati per legge, sono lasciati alla contrattazione delle cosiddette parti sociali. Ossia, delle corporazioni.
L’organizzazione corporativa della magistratura è sancita dall’articolo centoquattro, che regola la composizione del Consiglio superiore della magistratura. Un terzo dei suoi membri, scelti tra avvocati e docenti universitari in materie giuridiche, sono eletti dal parlamento, il quale, come sappiamo, è un organo squisitamente politico. Per effetto di un tale meccanismo la compromissione tra politica e magistratura è inevitabile. Tanto più che gli altri due terzi è formato da magistrati ordinari, eletti dai loro colleghi. Non a caso, dunque, la nostra magistratura si rivela divisa in correnti, le quali non si differenziano l’una dall’altra per posizioni dottrinali, bensì per preferenze ideologiche. Vale a dire, in sostanza, per simpatie politiche.
E’ difficile immaginare che una tale circostanza non possa avere una qualche influenza sull’azione delle autorità giudiziarie. Il Consiglio superiore decide infatti sulla carriera dei singoli giudici, avendo inoltre il potere di sottoporli a procedimento disciplinare. Lo si considera perciò un organo di autotutela. E del resto, un organo corporativo ha il sacrosanto dovere di tutelare i propri membri.
Ma se la vocazione di un organo corporativo è quella di tutelare i propri membri, non ci si può certo aspettare che la qualità del ‘‘servizio giustizia’’, reso ai cittadini dallo stato, possa risultare soddisfacente. E’, sotto il profilo tecnico, impossibile.
Gli effetti sociali di una tale situazione sono devastanti, poiché i legittimi diritti troppo spesso non vengono garantiti, mentre Dio solo sa quanto sia grande il nostro bisogno di una giustizia efficiente, specie considerando che vaste zone del paese subiscono l’offesa di mafie vecchie e nuove.
Il ceto politico, il mondo accademico e l’opinione pubblica dovrebbero porre la questione al centro del dibattito, per analizzarla e cercare le soluzioni. Ma ritenere, dopo decenni di verboso lassismo, che ciò avverrà significa contare un po’ troppo sulla buona sorte. Chissà, forse i nostri nipoti saranno più fortunati.



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