Quel lunedì mattina, arrivata in ufficio, per prima cosa consultai come al solito l’agenda. Vi era segnato un appuntamento per le nove e mezzo con un certo Fausto Rinaldi. Non si era mai rivolto alla nostra agenzia, perciò non lo conoscevo. Gettai uno sguardo all’orologio: mancavano sei minuti. Mi accesi una sigaretta e aspettai, gustando lo spettacolo che mi entrava gratis dalla finestra: il laghetto scintillante, il grattacielo dell’Eni e, sullo sfondo, il palazzo dello sport progettato da Nervi.
L’uomo fu puntuale. Sonia, la nostra segretaria, lo introdusse nella mia stanza. Era bruno, disinvolto, di altezza media, abbronzato, dimostrava qualche anno al di sotto dei quaranta, aveva occhi chiari, indossava un completo principe di Galles che gli stava a pennello e sapeva sorridere in modo accattivante. Insomma, era proprio un bel tipetto.
«Buongiorno», disse, con una voce dal timbro virile.
«Buongiorno». Gli strinsi la mano e lo invitai a sedere.
Si sistemò sulla sedia che gli avevo indicato e accavallò le gambe.
«Cosa posso fare per lei?».
«Trovarmi una casa», e aggiunse, non senza una punta d’ironia: «È il suo mestiere, no?».
Era troppo sicuro di sé, pensai, e quella sua maniera di fissarmi dritto negli occhi mi metteva un po’ in soggezione. Sembrava un individuo abituato a distribuire ordini. Un ufficiale, forse, o un dirigente d’azienda. Per dimostrargli che non ero una donnetta timida, non abbassai lo sguardo.
Riuscì ugualmente a sorprendermi. «Lei ha begli occhi, sa?».
Sentii di arrossire. Per qualche istante non seppi cosa rispondergli.
«E lei lo fa per hobby?», mi venne da chiedergli, non appena recuperai la mia prontezza di spirito.
«Faccio cosa?».
«Il cascamorto».
Non era quello il modo di trattare un cliente, lo so, ma non ho mai dato spago a chi si piglia eccessive confidenze, cliente o altro che sia. Se qualcuno ci prova, lo rimetto subito in riga.
Non si scompose. Sorrise. «Non volevo mica fare il cascamorto. Costatavo un dato di fatto. I suoi occhi sono davvero molto belli».
«Ah, insiste».
Si strinse nelle spalle. «Non è colpa mia se lei ha gli occhi belli». E di nuovo sorrise.
Be’, aveva una dentatura sana e bianchissima, devo ammetterlo, ma aveva pure una tremenda faccia tosta.
«Va bene, va bene», tagliai, «le dispiace, però, se parliamo d’altro?».
«Come preferisce».
«E allora torniamo al sodo. È venuto da me perché vuole che le trovi una casa. Giusto?».
«Sì».
«E ha già un’idea di come la vuole grande, di quanto vuole spendere, in quale zona la vuole? La vuole in fitto, o desidera acquistarla?».
Mi rispose che gli sarebbe piaciuto comprarla, che non gli serviva tanto grande, al massimo un centinaio di metri quadri, dal momento che non aveva famiglia, e che qualunque posto gli andava bene, purché la distanza dall’aeroporto di Fiumicino fosse ragionevole: era pilota dell’Alitalia.
Battei i tasti del computer e scrutai il monitor alla ricerca di qualcosa in sintonia con le sue richieste. Alla fine scovai una mansarda a Villa Bonelli, una villetta a schiera a Casalpalocco e un villino a Fregene.
«Fregene no, le località balneari non sono adatte per viverci tutto l’anno. D’estate sono caotiche e d’inverno sono tristi».
«Il prezzo è interessante».
«Tanto peggio per me».
Rimanevano gli altri due locali. Ci demmo perciò appuntamento per il giorno dopo alle tre del pomeriggio, così lo avrei accompagnato a vederli. Prima di andarsene mi lasciò il suo recapito. Abitava in un albergo di via Cavour.
«Da due anni», precisò, «e sono stufo. Ecco perché cerco casa».
***
In ufficio, dopo la pausa del pranzo, mi attendeva una sorpresa. Sonia e Renata, la mia socia, stavano nella mia stanza e rimiravano divertite un enorme mazzo di fiori, elegantemente adagiato – è il caso di dire – sulla scrivania.
«Sarebbero per me?».
«Sì. Li hanno appena portati», disse Sonia.
«Sarei curiosa di sapere chi è l’autore di una pazzia del genere. Avrà speso una fortuna».
«Apri il biglietto», suggerì Renata, «e lo scoprirai».
Sul biglietto lessi: “Con simpatia. Fausto Rinaldi”. Lo strappai in mille pezzi.
Renata e Sonia si scambiarono il classico sguardo allibito.
«Butta via questi fiori», ordinai a Sonia. «Il tizio che li ha mandati ha commesso il più grosso sbaglio della sua vita».
«Perché buttarli», disse Sonia. «È un peccato».
«Ti piacciono? To’, allora, te li regalo». E le gettai il mazzo tra le braccia.
Un’onda d’incredulità fluttuò sul viso della ragazza. «Grazie», disse e uscì dalla stanza, reggendo i fiori come un trofeo.
Anche Renata fece per uscire, ma prima di oltrepassare la soglia si fermò. «Non puoi dirmi chi te li ha mandati?».
«Un uomo», le risposi. Due parole che per me valevano tutta una spiegazione.
«Lo conosco?».
«No, non credo. Fino a stamattina non lo conoscevo neanch’io. È un cliente, uno nuovo».
«È carino?».
«Direi di sì».
Vedete, Renata non è soltanto la mia socia. È, dai tempi del liceo, la mia migliore amica. Allorché, dopo cinque anni di fidanzamento, avevo scoperto che Vittorio mi tradiva e il sogno di sposarlo era andato in frantumi, era sulla spalla di Renata che avevo pianto le mie lacrime amare. Quel trauma aveva suscitato in me una tale ostilità nei confronti degli uomini che in seguito, da loro, mi ero sempre tenuta alla larga. Renata però non si rassegnava alla prospettiva di vedermi morire zitella.
«E allora non sbattergli la porta in faccia, lasciagli aperto uno spiraglio. Gli uomini non sono tutti come Vittorio».
«Lo so, me l’hai ripetuto un milione di volte».
«Appunto», disse e uscì.
***
Martedì pomeriggio Rinaldi arrivò, sorridente, in perfetto orario e mi porse una scatola avvolta in carta da regalo. «Cioccolatini svizzeri», spiegò. «Ieri sera ho comandato il volo per Zurigo e stamattina quello di ritorno. Visto che dovevamo incontraci, ho pensato di riportarle un regalino».
Presi la scatola e senza degnarla di uno sguardo la sospinsi in un angolo della scrivania. «Non le sembra di esagerare? Ieri i fiori, oggi i cioccolatini. Tutto questo per me è estremamente imbarazzante».
«Perché?».
«Via, non faccia il finto tonto. Lei lo sa bene perché».
«È sposata?», domandò a bruciapelo.
«Questi non sono fatti che la riguardano, le pare?».
«È sposata?», ripeté.
«No, non lo sono».
«Neppure io lo sono. Non vedo dunque cosa ci sia di male se…».
«Se?»
«Se le faccio la corte».
«Lei è matto. Matto da legare».
Si strinse nelle spalle. «È possibile».
Scrollai il capo. «Andiamo a vedere questi appartamenti», dissi. «Andiamoci prima che cambi idea».
«È una minaccia?».
«Giudichi lei».
Quel pomeriggio ebbi tempo di mostrargli solo la mansarda di Villa Bonelli, che non parve piacergli un granché. Alle cinque lui doveva presentarsi in aeroporto. Stabilimmo di rivederci il giorno dopo, sempre alle tre, e ci salutammo.
Durante le ore trascorse prima di rincontrarlo mi capitò più volte di pensare a lui. La sua immagine sorridente s’insinuava nel mio cervello con un’insistenza che mi allarmò. Tentavo di scacciarla e, come una maestra severa, rimproveravo me stessa. Non ero una ragazzina e non dovevo lasciarmi avvincere dal fascino di uno sfrontato simile. Ma, per quanto mi sembrasse strano, non potevo negare di sentirmi parecchio incuriosita, se non proprio attratta, da quell’uomo. E provai una certa delusione quando, all’appuntamento di mercoledì, venne in compagnia di una donna.
«Lei è Cinzia», la presentò. «Come vede, è una hostess».
Cinzia indossava infatti la divisa delle hostess. Non fu comunque la divisa a colpirmi. Fu la sua avvenenza, davvero notevole. Era alta e spigliata, aveva una lunga treccia bionda, occhi verdi, un viso grazioso e gambe perfette. Non mi sono mai considerata brutta, sono anzi consapevole d’essere piuttosto attraente, però non potevo sperare di reggere, al confronto.
Me ne meravigliai io stessa, ma la verità nuda e cruda è che mi sentii attanagliare dalla gelosia. Quei due, oltre tutto, si comportavano come passerotti innamorati: si tenevano per mano e si scambiavano occhiatine tenere. Se Fausto Rinaldi si era prefisso l’obiettivo di offrirmi una dimostrazione delle sue capacità di rubacuori, be’, c’era riuscito in pieno.
Andammo a Casalpalocco. La villetta a schiera era incantevole. Costruita fra i tronchi d’imponenti pini mediterranei, aveva un rivestimento di mattoncini rossi. Il giardino era protetto da una fitta siepe di alloro. Ampi balconi, con fioriere colme di gerani, si affacciavano al primo piano. L’interno era funzionale, con stanze luminose e di giuste dimensioni. A pianterreno c’era un salone-soggiorno, una cucina e un bagno. Al piano di sopra c'erano due camere e un secondo bagno.
«Niente male», commentò la hostess.
«Sì», disse Rinaldi, «è una bella casa, ma ho paura che sia un po’ troppo grande».
«Sono centoventicinque metri quadri», dissi io, «esclusi il balcone e il garage».
«A me non sembra grande», disse Cinzia. «Forse lo è per una persona sola, ma no per due», e sorrise maliziosa.
«Il prezzo lo conosce», dissi io, «e non è esagerato. Occasioni così buone è difficile che si ripetano».
«D’accordo», disse lui, «mi lasci però il tempo di rifletterci. Fra qualche giorno la chiamo e le darò una risposta».
«Come desidera».
***
Mi telefonò il lunedì successivo. Appena riconobbi la voce, quel fasullo del mio muscolo cardiaco cominciò a perdere il controllo di se stesso, vorticando in balli sfrenati.
«La compro».
«Bene. Non resta che andare dal notaio, allora».«Sì. Fissi lei l’appuntamento. Questa settimana sono libero giovedì, perciò cerchi di combinare per quel giorno. Mi richiami in albergo e mi faccia sapere. Se non mi trova, lasci un messaggio».
«Signorsì, comandante».
«Non sia permalosa. Glielo chiedo per favore, è sottinteso».
«Naturale. È sottinteso».
Tanto il notaio quanto il proprietario dell’immobile si dichiararono disponibili a concludere l’affare giovedì mattina alle undici. Lo comunicai a Rinaldi, che si complimentò per la mia “splendida efficienza”, come la definì, e giovedì a mezzogiorno l’atto era stipulato e sottoscritto.
Usciti dal notaio, il cui studio stava in viale di Trastevere, dirimpetto al ministero della pubblica istruzione, Rinaldi mi accompagnò alla macchina. Avevo aperto la portiera e stavo per salutarlo, e lui disse:
«Bisogna festeggiare».
In quel momento il rombo di una motocicletta riempì l’aria. Attesi che la moto si allontanasse, poi dissi:
«Ha intenzione d’invitarmi a cena?».
«Sì».
«Mi dispiace, stasera non posso».
«Sabato? Sabato può?». Conficcò gli occhi celesti nei miei. «La prego, dica di sì».
In tutta sincerità, non gli avrei mai risposto di no, nemmeno per tutto l’oro del mondo. «Sì», sussurrai e una vampa di calore m’infiammò le guance. Odiai me stessa per non essere capace di nascondere meglio le emozioni. «Dove?».
Fece il nome di un ristorante vicino al Pantheon. «Incontriamoci direttamente lì. Va bene alle otto?».
Altroché, se andava bene.
«Magnifico. A sabato sera. Penso io a prenotare il tavolo».
«Molto galante, da parte sua», lo canzonai.
«È sottinteso», disse lui e sorrise.
«Naturale. È sottinteso», dissi io e sorrisi.
***
Mentre tornavo in ufficio, escogitai una trovata diabolica. Giunta in agenzia, cominciai subito ad attuarla, precipitandomi nella stanza di Renata.
«Mi presti tuo marito?».
Mi guardò a bocca spalancata. «Che?».
«Adesso ti spiego. Ti ricordi del pilota?».
«Quale pilota?».
«Quello dei fiori. Mi ha invitata a cena».
«E tu hai accettato?».
«Sì. Stavolta ho seguito il tuo consiglio, non gli ho sbattuto la porta in faccia. Solo che mi serve tuo marito».
«Serve a cosa?».
«Oh, a vendicarmi della hostess».
«Quale hostess?».
«Una hostess amica sua».
«Del pilota?».
«Sì. Di chi, sennò? Voglio che Gianni mi accompagni alla cena».
Scosse la testa. «No, se c’è di mezzo una hostess».
«Ma la hostess non c’è. Cioè, a cena non verrà, verrà soltanto il pilota». Lo speravo, almeno. «E Gianni deve semplicemente fare la parte del mio… diciamo innamorato».
Sorrise. «Ti sei presa proprio una bella cotta, eh?».
«Non essere ridicola», protestai. Ma negare l’evidenza era assurdo. Abbassai il capo. «Be’, sì», ammisi, con un colpevole filo di voce.
«Stasera parlerò a Gianni. Non credo mi sia difficile convincerlo».
«Davvero? Sei un angelo». E le buttai le braccia al collo.
***
La mattina seguente Renata venne in ufficio con la notizia che il marito acconsentiva a farmi da complice. «All’inizio è scoppiato a ridere, però poi ha detto di sì».
Gianni, un giovanottone allegro e muscoloso, secondo me era estremamente idoneo al ruolo che avrebbe dovuto interpretare. E quel sabato sera, mentre entravamo nel ristorante tenendoci sottobraccio, ero sicura che a Fausto sarebbe venuto un colpo.
Come prevedevo, lui stava già in attesa, seduto a un tavolo d’angolo. Ci vide, sorrise in quel modo speciale e si alzò, venendoci incontro. Gli presentai Gianni, spacciandolo per il mio fidanzato.
Non batté ciglio. Si comportò come se Gianni non esistesse. Per l’intera durata della cena non gli rivolse una parola. Dedicò a me tutte le sue attenzioni, i suoi caldi sorrisi e i suoi sguardi penetranti. E io, malgrado i propositi di tenerlo sulla corda, non sapevo resistergli e gli facevo le fusa come una gattina appassionata.
A un certo punto il povero Gianni andò in bagno e Fausto mi bisbigliò all’orecchio: «Togliamocelo dai piedi».
«Questo non è possibile. Non sarebbe carino».
«E perché? Tanto non è il tuo fidanzato».
Notai, con un lieve brivido, che era passato al tu. «Come te ne sei accorto?».
«Porta la fede. Non sei tipo tu da fidanzarti con un uomo sposato».
Il mio piano “diabolico” si era rivelato un fiasco, ma non me ne importò un accidente. Nulla quella sera avrebbe guastato il mio buonumore, escluso forse un terremoto, o roba affine.
«La tua amica, però, non porta la fede», lo stuzzicai.
«Cinzia? Si capisce, lei non è sposata. È fidanzatissima, con il mio copilota. L’ho presa in prestito».
La pantomima inscenata con la hostess era stata quindi tutta una finta, una dolce astuzia, pari a quella tentata da me con il marito di Renata.
«Come io ho preso in prestito Gianni», dissi.
Né io né Fausto riuscimmo a trattenerci dal ridere. Poi tornammo seri, allora lui posò una mano sulla mia e disse:
«Non so come sia successo e non so nemmeno perché, ma un fatto è certo, io ti amo».
L’emozione che provai in quell’attimo è indescrivibile. Salivo, salivo, salivo, su un ascensore diretto in paradiso. Chiusi gli occhi e una lacrima mi scivolò sulla guancia. Ero felice.
Lo sposai a settembre, sei mesi più tardi.
E cosa dovrei commentare? Ogni apprezzamento sarebbe fuori luogo. Ha un sapore che rimane a lungo come avesse impregnato le papille cerebrali (se esistono). Altro che "rosa", diciamo pure vellutato come una baccarà.
RispondiEliminaSì... baccarà. Terracotta, tutt'al più. Sto leggendo un testo inedito e tra l'altro neanche completo di cui non posso nominare l'autore perché mi ha ordinato di tenere la bocca chiusa e, al confronto, ciò che scrivo pare robetta. Leggibilissima robetta, d'accordo, ma pur sempre robetta.
Eliminail mio parere da non-scrittrice é che lo trovo un racconto carino, adatto a far sognare le adolescenti...
RispondiEliminaNel complesso non è male....
Grazie, Lorena. Lo scrissi, non a caso, per una rivista femminile. Una lettrice mi ha detto che ho dato prova di ben conoscere la psicologia femminile, giudizio che mi è parso sorprendente, dal momento che sono scapolo e ritengo di conoscere ben poco le donne. Ammetto comunque che anch'io, benché da circa quattro decenni non sia più un adolescente, ho un forte desiderio di provare sentimenti teneri e caldi. Insomma, i brividi del cuore.
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