sabato 11 maggio 2013

Satana e Cristo


Si erano messi in viaggio alle tre del mattino. Subito dopo l’alba il sole aveva cominciato a rovesciare calore abbagliante sul deserto, smorzando la frescura della notte. Il largo strato d’asfalto, diviso a metà da quella interminabile striscia bianca, fuggiva su lunghi rettilinei e ampie curve rare. Ai bordi, semisepolte dalla sabbia, lamiere arrugginite di automobili e carcasse di animali accoglievano sconfortate le occhiate dei viaggiatori. La Land Rover ronzava veloce.
«Ti spiace prendere la fiaschetta?».
Il ragazzo tirò fuori dal ripostiglio del cruscotto la fiaschetta del cognac, svitò il tappo e la porse a Satana.
«Prima tu».
Il ragazzo sorseggiò qualche goccia.
Satana strizzò l’occhio e a sua volta mandò giù un sorso robusto, tenendo nella mano destra la fiaschetta e il volante con la sinistra. Le ascelle della sua sahariana erano zuppe di sudore.
«Una cinquantina di chilometri e ci siamo», disse. Si lisciò la barba grigio rossa.
Quando arrivarono Satana accostò la Land Rover sul ciglio e scese calcandosi in testa un cappellaccio a tese larghe. Non distante dalla strada, su una duna, si scorgeva la punta di una tenda affondata nel silenzio e nella solitudine.
Camminarono sulla sabbia e s’inerpicarono sulla duna seminando una scia d’impronte. Non lo videro subito perché stava dall’altra parte, all’ombra della tenda, seduto sui talloni e le mani sulle ginocchia. I suoi capelli erano lunghi e sporchi e la faccia era arrostita dal sole e incipriata da una sottile patina di polvere gialla. Indossava una lurida camicia sfilacciata e blue-jeans logori. Straordinariamente le sue mani lunghe e senza nodi erano pulitissime.
Gli si pararono davanti, ma Cristo non sollevò gli occhi castani, non grandi e molto incassati nelle orbite, che continuarono a fissare lontano qualcosa d’invisibile. Satana fece cenno al ragazzo, come per dirgli: “Non far rumore, non dobbiamo disturbarlo”. E aspettarono accovacciati a terra dieci o quindici minuti prima che Cristo parlasse:
«Perché sei qui? Che vuoi?».
A quella voce stridula il ragazzo sussultò.
«Be’...», rispose Satana con un sorrisino di circostanza e si carezzò la barba.
Cristo annuì più volte con la testa, lentamente, avanti e indietro, e sembrava che tutta la rassegnazione e l’infelicità del mondo si fossero concentrate in quel gesto, avanti e indietro.
«Ti presento un amico», gli disse Satana e il ragazzo e Cristo si strinsero la mano.
Poi tutti e tre smontarono la tenda, aiutarono Cristo a riempire lo zaino e s’avviarono alla jeep.
Ripercorsero la strada infuocata nel senso inverso. Sotto i loro occhi scivolarono i lunghi rettilinei e le carcasse di macchine e di cammelli e l’interminabile striscia bianca. Satana offrì il cognac a Cristo.
«Cognac cognac o brandy?».
«Cognac cognac».
Allora bevve e disse: «Buono».
Ogni tanto appariva un camion, una volta incrociarono un’autocolonna militare. “Mai nessuno gli ha parlato così”, pensò il ragazzo. “Che vuoi? A lui? Che vuoi? Che vuoi?”. Il brontolio del motore tappò loro le orecchie.
Dopo diverse ore il deserto si dileguò e la Land Rover salì serpeggiando su colline addobbate dal verde degli agrumi e degli olivi. Cristo sonnecchiava e Satana gli scosse con delicatezza il braccio perché gustasse, dalla sommità delle colline, lo spettacolo della chiazza rossa del sole che naufragava nelle acque lisce del mare. La strada si tuffò in basso, verso la città.
Satana abitava nella periferia di lusso, dove i ricchi costruivano le ville sul limite della spiaggia. La governante, allegra e scherzosa, uscì loro incontro.
Prima di cena fecero una doccia. Mangiarono in silenzio legati da un imbarazzo contro il quale s’infrangeva il brio solitario della governante. Dopo cena Cristo e il ragazzo andarono a letto. Cristo nella camera che gli era stata preparata e il ragazzo, che era il figlio della governante, nella foresteria.
Satana fumò al buio, seduto nella veranda che dava sul mare. La sottile linea della risacca, argentea ai raggi della luna, canticchiava con voce lieve una ninna nanna e, al largo, una catena di lampare tramava il suo inganno ai pesci. Si passò le dita fra i peli grigio rossi della barba.
***
Scavalcando le finestre aperte la luminosità del nuovo giorno si riversò nella stanza. Si svegliò e sbatté più volte le ciglia prima che gli occhi si abituassero alla luce. Allungò la mano sul comodino, dov’era l’orologio da polso. Le lancette segnavano le otto e venti.
Alle otto e mezzo scostò il lenzuolo e si alzò. Sul mare calmo danzavano, a miriadi, pagliuzze d’oro. Si lavò nel bagno personale, attiguo alla camera. Rimase alcuni istanti davanti al guardaroba e alla fine si decise per una giacca a doppio petto blu e un paio di pantaloni bianchi.
Nel soggiorno lo attendeva la colazione già pronta.
«Lui non c’è», gli disse la governante.
Satana notò che l’indistruttibile allegria della donna quel mattino era del tutto spenta.
«Ah sì?». L’aroma del caffè gli solleticò le narici.
«Si è alzato presto e è uscito».
«Ha detto niente?».
«No. Ha bevuto un bicchiere di latte e è andato via».
«Mh».
«Io non ci perderei tanto tempo con quello».
Satana stette per un po’ sovrappensiero, poi disse: «Perché? Che ti ha fatto?».
«Non mi piace».
«Ma se nemmeno lo conosci».
«Lo so. Però non mi piace».
Nel garage montò sulla grossa berlina blu. “Al diavolo”, si disse, “ci si mette pure lei”. Non gradiva essere contraddetto, specie in certe faccende. Prima di partire lasciò girare il motore a basso regime, per scaldarlo. Si diresse verso il centro nello scarso traffico della domenica.
Un’oretta dopo fu di ritorno, con un fascio di giornali e un vassoio di paste. Si sfilò la giacca e allentò il nodo alla cravatta. Lasciò le paste nel frigorifero e prese alcune bottiglie di birra e se le portò assieme ai giornali sulla veranda, dove sedette su una delle poltroncine di vimini.
Il figlio della governante pescava i cannolicchi e Satana udiva lo sbatacchiare delle pinne quando il ragazzo s’immergeva e vedeva lo spruzzo zampillare dal respiratore nel momento che risaliva a pelo d’acqua. Al largo gli scafi da diporto scivolavano sulla trasparente distesa celeste.
Lesse i giornali e sorseggiò la birra. Lo chiamarono per il pranzo e lui si alzò dalla poltroncina di vimini per trasferirsi al tavolo apparecchiato in soggiorno e dopo pranzo tornò sulla veranda, per sprofondare di nuovo nella sua inviolabile abitudine domenicale, tra il fruscio dei giornali e il tintinnare delle bottiglie di birra.
Smise quando il sole con il suo ampio mantello di fuoco s’inabissò dietro l’orizzonte e la luce divenne troppo fioca perché si potesse leggere. Si annodò la cravatta e nel salotto raccolse la giacca dalla poltrona dove l’aveva lasciata al mattino. Chiamò il ragazzo.
«Di’ a tua madre che stasera ceni con me».
Partirono sulla berlina blu, verso la città, mentre il residuo chiarore del giorno si spegneva completamente. Posteggiò davanti alla cattedrale e scese, ordinando al ragazzo di aspettare un momento.
Rastrellò con gli occhi la semioscurità delle navate. Non era ora di funzione e non c’era quasi nessuno. Lo intravide inginocchiato a un banco di fronte all’altare. Si tirò con dolcezza i peli della barba rossiccia e gli si avvicinò badando di non far rumore. Il giovane si reggeva le tempie con le mani affusolate. Ancora una volta Satana attese che Cristo gli si rivolgesse per primo.
«Non molli, eh?».
«Be’...».
Sbalordito il ragazzo li vide uscire dal grande portale. Entrando in macchina Cristo lo salutò con un «Salve» e un sorriso di ghiaccio.
«Ce ne andiamo in un posticino chic», disse Satana, «dove si mangia pure bene».
Traversarono la città correndo verso le colline dell’entroterra. “Mette paura”, pensò il ragazzo. “Mette proprio paura”. Per mezz’ora i fari illuminarono i muretti di sostegno e il fondo sdrucciolevole di una salita stretta e ripida. Nessuno aprì bocca, prigionieri del solito imbarazzo.
Poco prima della cima Satana accostò la berlina dietro a un serpente di auto in sosta. Un panorama di mille luci galleggianti su un velo di delicata nebbiolina offrì ai loro occhi la mappa fosforescente della città notturna.
Salirono i gradini di una scala a lastre d’ardesia che si srotolava fra altissimi fusti di pino. Nel locale la raffinatezza dell’arredo, l’eleganza delle signore sedute ai tavoli, i modi distinti del personale trionfavano in un esplosione di sfarzo. Un cameriere si mise subito a disposizione. Più di un cliente riconobbe e salutò Satana.
«Voglio farti un discorsetto serio», disse Satana a Cristo e gli parlò per tutta la durata della cena.
Parlò con calma e con simpatia. Disse cose dure, ma sempre con cortese simpatia, sempre con tono paziente. Promise a Cristo il suo aiuto. Su due piedi, se solo glielo avesse chiesto, avrebbe potuto procurargli un lavoro. Doveva abbandonare quella vita da vagabondo. Ci voleva coraggio, sissignore, ma Satana lo avrebbe protetto, gli avrebbe fornito un alloggio. Se voleva poteva rimettersi a studiare, poteva scegliere di fare qualsiasi cosa e Satana lo avrebbe aiutato, purché l’avesse smessa con quella vita insensata. Non doveva vergognarsi di se stesso, non era né un fallito né un pazzo. Doveva solo lasciarsi aiutare.
Il ragazzo ascoltò allibito quella preghiera mentre Cristo si rintanava in un mutismo totale.
Quando Satana ebbe concluso la lunga esortazione Cristo ingoiò l’ultimo cucchiaino di macedonia, si asciugò le labbra con il tovagliolo e, scusandosi, si alzò dal tavolo.
Lo videro domandare qualcosa a un cameriere e poi scomparire dietro una porta in fondo alla sala. Allora Satana chiese il conto e dopo aver pagato disse al ragazzo:
«Andiamocene».
Fuori la fragranza della resina s’insinuò nelle loro narici. Ai piedi delle colline la città illuminata dondolava nella sua nebbiolina.
***
Alle nove precise varcò la soglia del suo ufficio, al ventinovesimo piano del palazzo di vetro e acciaio della Società Industrie Chimiche Riunite. La segretaria aveva disposto i quotidiani sulla scrivania e proprio in quel momento stava infilando lo stelo di una rosa, che doveva essere rinnovata ogni giorno, nel piccolo vaso cinese. Lo colpì la grazia spigliata della giovane donna, in tailleur estivo nocciola chiaro, e del suo sorriso.
«Sono la sostituta della signorina Marta, signor presidente».
Me l’hanno scelta con cura”, pensò Satana e le disse: «Benvenuta».
«Grazie, signor presidente», rispose lei marcando il sorriso garbato e uscì dalla stanza.
Sedette alla scrivania e diede uno sguardo all’agenda. Si sentiva pigro, deconcentrato. Sfogliò i giornali, limitandosi a passare frettolosamente in rassegna i titoli. Vide l’ora e lanciò un’altra occhiata all’agenda.
Si alzò e con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni si avvicinò alla finestra. Annunciando l’afa imminente una luce di stagnola si spandeva sui tetti delle case e dei palazzi, sul porto, sulle macchie verdi dei giardini pubblici.
Pensava al giorno prima. Scosse la testa. “Che razza di week-end”, si disse.
Un traffico frenetico di gente e di automobili, minuscole da lassù, congestionava le vie e le piazze. Si carezzò la barba e proprio in quel momento gracchiò il citofono.



9 commenti:

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    1. E tutto questo, Corrado, è molto triste. E' triste sapere che quelle "due facce della medaglia dell'universo" s'incroceranno senza mai giungere a ciò che desideriamo, a ciò che sognamo: sradicare il satana che ognuno di noi si porta dentro. Il bene e il male non sono entità metafisiche esistenti all'infuori di noi, sono "i due elettroni" che ruotano nel nostro animo.

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  2. Reinserisco il commento per correggere un termine.
    Stile spigliato, preciso, scorrevole.
    Contenuto: Non si può liquidare con un aggettivo. Posso permettermi di insinuare che l'inconscio ha lasciato pescare l'autore "nell'oceano delle infinite possibilita"? La sua lenza ha estratto un pesce (vedi anche il simbolo"cristiano")che la deformazione della coscienza ci costringe ad ignorare: Satana e Cristo, non sono il male e il bene ma le due facce della medaglia dell'universo i due elettroni che vi turbinano attorno, che s'incrociano senza collisione e senza autodistruggersi.

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  3. Dici bene Gabriele ( fra l'altro anche io non seguo una confessione) però scorgo uno spiraglio. Permettimi una domanda: Cosa ne pensi del momento di grazia, quando ti senti in pace con il mondo che ti circonda, e il tuo io è pervaso dal sorriso? Dove hai trovato (forse senza cercarle) le risorse che ti regalano questo momento? Erano e sono in noi e come dici sono i due elettroni. Resta a noi osservarli con serenità senza approfittare dell'energia dell'uno e ignorare l'altro.

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  4. Maledizione, Corrado, io non so mentire e avrei preferito non ricevere una domanda che ammette soltanto risposte terribili e sincere (o banali e bugiarde, se sei capace di darle).
    Bene, ciò premesso, dirò due cose:
    a) Non sono credente e ciò per me è una maledizione; chi crede ha qualcosa che io non ho.
    b) I momenti di grazia te li dà il successo; il successo rende felici e anche questa per me è una maledizione. "Vanità, tutto è vanità", dice l'Ecclesiaste. Certo, si è felici anche per un dono che si riceve (e non parlo di doni materiali), ma il dono prescinde dai nostri meriti. La vita spesso ci dà premi che non meritiamo. La vita è priva di una propria intrinseca eticità, e tutto ciò è deludente.

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  5. Non è un racconto dal commento facile, ti resta lì, appeso tra i pensieri, in compagnia di tutte domande che non hai mai fatto.
    Però resta lì... un'immagine nitida, reale, per nulla stonata.

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    1. Domande e pensieri: un bel colpo grosso, per un autore. Spero tu abbia ragione, perché i miei testi li posso considerare solo con umiltà, e dunque senza nessun orgoglio. Mi è lecito solamente desiderare che si lascino leggere. Grazie.

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  6. Mi è piaciuto! Scrivi bene, hai uno stile piano e scorrevole e sai tenere l'attenzione del lettore. Bravo! Aspetto altri racconti.

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    1. Ti ringrazio, Bruna. Sono davvero lieto di sentire parole tanto gentili. Continuerò a mettere sul blog altri racconti, sperando che possano piacerti almeno un po'.

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