venerdì 11 luglio 2014

Stato, mercato globale e società

La libera circolazione internazionale di merci, capitali e forza lavoro – la globalizzazione dell’economia, insomma – diventa anno dopo anno più vasta, anno dopo anno più intensa, provocando effetti non solo sulle nostre vite quotidiane ma anche ponendo vincoli stringenti all’azione dei governi.
Non a caso le politiche economiche finalizzate al sostegno dei consumi mediante la spesa pubblica corrente, coperta in parte attraverso un’accresciuta pressione fiscale e in parte aumentando il debito pubblico, non hanno futuro.
A tal riguardo un esempio da manuale ce lo fornisce il desolante capitombolo della Grecia. Nell’aprile 2010 il governo greco dichiarò che non avrebbe potuto rimborsare i titoli del suo debito in scadenza nel successivo mese di maggio. Si rese pertanto necessario un salvataggio grazie a denari erogati dal Fondo monetario internazionale e dall’Unione europea.
Ma come e perché i greci erano incappati in quel pasticcio?
La ragione principale fu dovuta all’afflusso di capitali dall’estero, in special modo da Francia e Germania, a caccia in terra ellenica di migliori remunerazioni, senza oramai incappare nel rischio di cambio dopo l’ingresso della Grecia nell’unione monetaria.
La discesa dei tassi sulle proprie obbligazioni emesse in euro, non più in dracme, induceva inoltre i governi ellenici ad accrescere l’indebitamento per pagare pensioni baby e aumenti salariali alle pletoriche burocrazie statali. In virtù della finanza allegra entusiasticamente perseguita dai loro governanti, i greci hanno perciò vissuto per oltre un lustro al di sopra delle proprie possibilità. Non per niente Atene si era riempita di Mercedes Benz e Bmw. Il brusco risveglio ha avuto le fatali conseguenze che ben conosciamo. Nello sforzo disperato di risanare il bilancio pubblico, come imposto dai creditori che hanno elargito gli aiuti, alla sbornia ha fatto seguito un generalizzato impoverimento della nazione.

Altri rilevanti aspetti della globalizzazione possiamo toccarli con mano tra le mura di casa nostra. Fino a pochi decenni or sono l’Italia era un paese d’emigranti, oggi è invece terra che accoglie immigrati. Ogni qual volta mangiamo un piatto di pastasciutta al sugo, il pensiero corre perciò agli immigrati che raccolgono i pomodori sui nostri campi. O possiamo forse dimenticare le tante domestiche straniere a servizio nelle nostre famiglie?
Le braccia italiane non scappano più all’estero come un tempo. O, a voler essere esatti, non sono più così numerosi come un tempo i nostri lavoratori che partono in cerca di fortuna altrove. Adesso, a emigrare, sono le piccole e medie industrie.
So di un caseificio che, chiusi i battenti in patria, è andato a produrre scamorze in Ucraina. So di un laboratorio di abiti da lavoro che ha trasferito la produzione in Bangladesh. So addirittura di una dentista che, assieme ad altri suoi colleghi, ha aperto uno studio a Spalato, in Dalmazia, dismettendo la professione in Italia.
Se un tempo solo le grandi aziende impiantavano stabilimenti all’estero, oggigiorno sono le piccole imprese a imbarcarsi nell’avventura. I motivi che le spingono sono tre.
Primo, vengono attratte da costi del lavoro più bassi, vantaggio in parte attenuato dalla minore preparazione delle maestranze straniere.
Secondo, subiscono un carico fiscale di gran lunga inferiore, realizzando più appetitose percentuali di profitto netto.
Terzo, i lacci e laccioli di natura burocratica sono meno pressanti, consentendo ai titolari di dedicarsi alla gestione aziendale liberi dall’assillo di scadenze e di frustranti formalità.
Gli imprenditori emigrati, stando almeno a quanto affermano, giudicano decisivi soprattutto il secondo e il terzo motivo.

Perdere un’azienda di produzione ha effetti sociali negativi. Ogni volta che una fabbrica o fabbrichetta sospende la produzione qui da noi e la trasferisce all’estero i suoi dipendenti italiani rimangono senza lavoro. Non vi è oltre tutto speranza alcuna che questo processo s’interrompa, a meno che lo stato non riduca il carico fiscale sulle imprese. Fernand Braudel, il celebre storico, in base alla sua lunga esperienza di studioso sosteneva che le attività imprenditoriali non avevano mai prosperato se prive del fattivo appoggio del potere politico.
Poiché con la globalizzazione gli imprenditori votano con i piedi, andando a cercare le condizioni ottimali lì dove si trovano, e poiché una nazione deindustrializzata è una nazione povera, il nuovo vincolo cui le autorità politiche devono soggiacere è chiaro. Se non vogliono impoverire il paese non devono lasciarsi scappare le aziende. E per riuscirci non devono subissarle di tasse.



Nessun commento:

Posta un commento