domenica 17 febbraio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - ottava puntata


Riassunto delle puntate precedenti
Ela, l’immigrata transilvana che coabita in un piccolo alloggio con tre rumeni e intrattiene rapporti con il Bullo di Casacalenda, una sera di fine agosto incontra al supermercato Sara, la sua amica italiana, che notando il pancione le chiede sorridendo:
«Sei in dolce attesa?».
«No», risponde lei.
I primi di settembre quel pancione all’improvviso scomparirà.

Ottava puntata
Il primo sabato di ottobre, all’imbrunire, terminata la giornata di lavoro e riposti gli attrezzi nella rimessa condominiale, Gregorio se ne tornava nel suo alloggio e passò sotto la mia terrazza, dov’ero seduto a leggere.
Com’è naturale, ci scambiammo la buona sera. Lui inoltre mi chiese:
«Signor Gabriele, le piace la zuppa di pesce?».
«Veramente, non l’ho mai mangiata».
«E allora domani venga a pranzo da noi, cuciniamo zuppa di pesce. Ci saranno anche degli amici».
Una scusa plausibile e al tempo stesso poco offensiva per rifiutare l’invito non riuscii a trovarla. Gli rivolsi invece una domanda tanto banale quanto ingenua:
«Ma è buona?».
«Buonissima».
Difficile aspettarsi una risposta diversa.
«D’accordo, grazie, verrò ad assaggiarla. Buona sera, Gregorio».
«Buona sera».
Domenica sette ottobre, intorno all’una, mi presentai nell’appartamentino dei rumeni.
I tre uomini di casa, ossia Gregorio, Emilio e Miha, nonché il micio Suso, si trovavano ovviamente in sede. Gli invitati erano una coppia di coniugi rumeni con la loro bambina e un imprenditore edile di San Leonardo con la sua giovane amica rumena.
Questa ragazza si chiamava Valentina e poteva al massimo avere venticinque anni. Mi disse che stava in Italia da tre mesi.
«Un mese da sola e due con Ernesto», puntualizzò.
Ernesto, l’arzillo imprenditore di mezz’età con baffi e pizzetto grigi, io lo conoscevo bene. L’anno precedente mi aveva riparato il tetto.
Gli sposi si chiamavano Fëdor e Dana, la loro figlioletta di tre anni si chiamava Stefania. Grassa Dana, laureata in lingue, magrissimo Fëdor, muratore. Stefania, bionda e vivace.
Con Ela, nel cucinino, ci stava il Bullo di Casacalenda. Ovvero, la mente e il braccio. Nel senso che le istruzioni le dava il Bullo e Ela rimescolava con un cucchiaione di legno la zuppa che cuoceva in un gigantesco tegame di terracotta. Almeno sessanta centimetri di diametro, giuro.
Il Bullo, da grande esperto culinario, si profuse in spiegazioni. Mi parve un fatto abbastanza normale. I divorziati diventano tutti, per forza o per buona voglia, dei grandi chef. Mentre noi scapoli, si sa, riusciamo a malapena a cucinare un uovo sodo. Per noi zitelloni è più dignitoso morir di fame che imparare a cucinare. Noblesse oblige, come suol dirsi.
A farla breve, nella broda ribollivano scorfani, triglie, cozze, gamberi, calamari, pomodorini mignon, più annessi e connessi vari. Per gli occhi, un gran brutto spettacolo, vi assicuro. E per il naso... be’, tralasciamo.
Ela, notai, sembrava sulle spine. E non mi riferisco a quelle dei pesci. Altre ragioni provocavano il suo imbarazzo. Non potermi nascondere la tangibile familiarità con il Bullo, per esempio, rappresentava senza meno un bel problema, per lei.
Al Bullo brillavano i Rayban – di lui nessuno potrà infatti mai dire d’avergli visto brillare gli occhi, poiché li occulta notte e giorno dietro le lenti affumicate – e fremevano le orecchie a sventola. I motivi di tanta eccitazione, mi sarei presto accorto, non derivavano dalla prosopopea del gran gourmet di cui aveva appena fatto sfoggio. Era in vena di portentose maldicenze e sentiva già l’acquolina in bocca.
Dal cucinino, lui e io, ci spostammo al balcone del soggiorno. A un’anta della portafinestra mancavano i vetri e larghi schizzi di un qualche liquido, birra o vino, macchiavano una parete della stanza. Indizi inconfutabili di recenti risse. A fine agosto, quando ero entrato lì per la prima volta, quei segni non apparivano.
«Gregorio e la ragazza», mi sussurrò il Bullo, «non sono cugini».
Reagii a quel segreto di pulcinella con il silenzio che meritava. Il Bullo, sempre con la stessa voce da cospiratore, non si diede per vinto e tirò fuori il carico da undici:
«La ragazza, fino all’inizio di quest’anno, ha lavorato in un night di Vasto. Lei e le colleghe abitavano qua vicino, al Miramar».
Il Miramar è un residence situato qualche centinaio di metri più a nord del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’. Nemmeno questa novità mi scalfì più di tanto. Oltre tutto, il sospetto m’era sorto nell’istante stesso che l’avevo conosciuta, quando proprio Ela mi aveva confidato:
«Non voglio andare né sulla strada né lavorare ai night».
‘‘Be’, siete proprio travolti da un amore ardente l’uno per l’altra’’, pensai. ‘‘Lei, per farmi credere di disprezzarti, afferma che sei vecchio, ubriacone, cocainomane e invertito, e tu me la descrivi come una puttanella bugiarda perché hai paura di un mio eventuale interessamento nei suoi riguardi. Fate pena, tutti e due’’.
«Questa ragazza», gli dissi, «ha una bambina di dieci anni e né lei né la figlia, nelle attuali condizioni, hanno un futuro. Tu vivi da sempre qui, a San Leonardo, un minimo di conoscenze ce le avrai, suppongo. Perché non provi a darle una mano? A trovarle un lavoro? Magari come domestica, come sguattera. Qualcosa così».
I Rayban mandarono un lampo indispettito.
«Io penso solo ai cazzi miei».
‘‘Bravo, complimenti’’, lo elogiai col pensiero, ‘‘pragmatici bisogna essere. Ma non ti rendi conto che ti stai sputando in faccia?’’.
No, non se ne rendeva conto. Se ne avesse avuto la capacità non sarebbe stato il Bullo di Casacalenda.
Ah, questi satiri di paese.
(8 – Continua)

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